BP2010 Pubblico, privato, indipendente? Siamo davvero sicuri che oggi possiamo attribuire loro ruoli, funzioni, identità, progetti differenziati? di Roberto Toni
BP2010 Essere per sognare, sognare per essere Nota introduttiva al volume Recito, dunque so(g)no. Teatro e Carcere 2009, a cura di Emilio Pozzi e Vito Minoia, Edizioni Nuove Catarsi, 352 pp di Vito Minoia e Emilio Pozzi
BP2010 Esistere, resistere una vera rivoluzione per una maggior salute del teatro può avvenire soltanto attraverso il contatto diretto tra le persone di Elena Bucci
Ridare la parola al teatro Conversazione tra Andrea Balzola, Giorgio Barberio Corsetti e Gioia Costa su Epistola ai giovani attori di Olivier Py con la collaborazione di Andrea Balzola in collaborazione con Silvio Combi
Il mistero scomparso Alienazione e compulsione del teatro italiano degli ultimi anni di Antonio Syxty
BP2010 Teatro pubblico, teatro commerciale, teatro indipendente La sesta edizione delle Buone Pratiche del Teatro il 13 febbraio all'ITC (Bologna) di Redazione ateatro
www.ateatro.it presenta
Le Buone Pratiche del teatro
Sesta edizione
Teatro pubblico, teatro commerciale, teatro indipendente
a cura di Mimma Gallina e Oliviero Ponte di Pino
Sabato 13 febbraio 2010, ore 9.30-18.30
Bologna, ITC-Teatro San Lazzaro,
via Rimembranze 26, 40068 San Lazzaro di Savena (BO)
Il programma
09.30-10.00 --> Registrazione
10.00-10.30 --> Saluti e benvenuto
Marco Macciantelli (sindaco di San Lazzaro)
Maura Pozzani (Assessore alla Cultura, Provincia di Bologna)
Andrea Paolucci (ITC Teatro)
Laura Mariani --> Meldolesi, un maestro
Oliviero Ponte di Pino e Mimma Gallina --> Identità, differenze, indipendenza
10.30-11.45 --> Teatro pubblico, teatro commerciale, teatro indipendente
Patrizia Ghedini --> Verso una nuova legge nazionale dello spettacolo: il confronto tra Stato e Regioni
Giulio Stumpo --> I consumi creativi
Francesco De Biase --> Un ragionevole sguardo al futuro. Per nuove politiche culturali
Roberto Calari --> Ruolo degli sponsor e movimento cooperativo
Andrea Rebaglio --> Fondazioni, creatività, innovazione
Giovanna Marinelli --> Teatri Stabili Pubblici. Quale modello è ancora possibile.
Roberto Toni --> Teatro Pubblico –Teatro Commerciale –Teatro Indipendente: Siamo davvero sicuri che oggi possiamo attribuire loro ruoli, funzioni, identità, progetti differenziati?
Velia Papa --> il nuovo teatro: l’anomalia italiana e la dimensione europea
Alessandro Bergonzoni --> Incursione a sorpresa
11.45-13.00 --> L’indipendenza è ancora una virtù?
Gerardo Guccini --> La rete, lo stagno, il mondo: tre declinazioni simboliche sull’identità dei gruppi
Enrico Casagrande --> Singolare/Plurale Santarcangelo 2009/2011
Elio De Capitani --> 13566 giorni di vita-nel-teatro
Stefano Pasquini e Paola Berseli --> Cultura e agricoltura
Pietro Floridia --> Lo spazio dell'indipendenza: tra le radici e l'altrove
Luigi Dadina --> CISIM una casa del popolo a Lido Adriano
Massimiliano Civica --> La poetica dell'economia: indipendenza e mercato nelle loro interrelazioni
Mimmo Sorrentino --> Dalla Buona Pratica alla Buona Teoria? E ritorno?
Paolo Rossi e Carolina Della Calle Casanova --> Per un nuovo Teatro Popolare
On.Emilia De Biasi --> un commento alla mattinata
14.30-15.30 --> Il teatro pubblico come funzione pubblica:
produzione, programmazione, distribuzione
Raimondo Arcolai --> Un teatro stabile pubblico nella regione (Marche) dei 100 teatri
Gilberto Santini --> Diventare ciò che siamo: organismi di formazione del pubblico Ilaria Fabbri --> Il sistema quale orizzonte dell'intervento pubblico della Regione Toscana Patrizia Coletta --> Distribuire o diffondere? Clientele o clienti?
Mauro Boarelli --> Pubblico, privato e altro ancora Maria Grazia Panigada ---> Alla ricerca di un’armonia: le radici di una scelta
Patecipano: Maria Merelli, Paolo Cacchioli, Pietro Valenti
15.30-16.45 --> Verso un teatro geneticamente modificato:
festival, centri, residenze, formazione
Paolo Ruffini --> I.R.A. indipendenza rispondenza arte
Vito Minoia --> La forza generativa del teatro di interazione sociale
Massimo Paganelli --> Perché lavorare sulle utopie
Sergio Ariotti --> Un festival tra territorio ed Europa
Enrico Casagrande --> Singolare/Plurale Santarcangelo 2009/2011
Massimiliano Cividati --> Case, fra pubblico e privato (Etre)
Fabio Biondi --> La rappresentazione dei luoghi
Maurizio Schmidt --> Paradossi della formazione tra teatro pubblico, commerciale e indipendente
Antonio Taormina --> Per un sistema della formazione dello spettacolo in Emilia-Romagna
16.45-18.30 --> Buone Pratiche le buone pratiche degli Incontri, delle reti e delle aggregazioni, del movimento, della formazione del pubblico e dei premi
Gianni Berardino, Angelo Romagnoli per Scuola Superiore Santa Chiara/Università degli Studi di Siena --> Playing Identities: creolizzare la pratica teatrale
Massimo Luconi --> Ritorno in Senegal: dalla formazione alla produzione di uno spettacolo nel sud del Senegal
Marinella Manicardi --> Moline/Arena in cinque minuti
Emanuele Valenti --> Lavori in corso a Punta Corsara
Gli Omini e Massimiliano Civica > Compagnia... Attenti!
Davide D’Antonio e Roberta Niccolai (Teatri della Contemporaneità) --> Un punto di non ritorno. La pratica costruzione dell'impossibile
Enrico Pittaluga (Studenti Paolo Grassi) --> Preoccup-azioni in Paolo Grassi
David Spagnesi, AmniO e Teatro Moderno di Agliana (PT) --> Cambio Palco 2010: dalla rete distributiva alla rete di residenze
Rosi Fasioli --> Teatro net: oltre i circuiti
Cristina Palumbo --> Educare all'arte scenica contemporanea ragazzi e giovani. Giovani a Teatro-esperienze di Fondazione di Venezia
Andrea Minetto e Francesca Napoli --> Una buona pratica dalla musica: gli Amici di Sentieri selvaggi, dalla community all'autofinaziamento
Riccardo Carbutti --> Risorse video per la promozione del teatro e delle arti performative
Valeria Ottolenghi --> Il Premio Nico Garrone: gli artisti premiano i maestri
Valentino Ligorio --> Premio Knos: cercare il filo / verso il centro del discorso
Elena Lamberti (per Festival Voci di Fonte) --> Il Premio Lia Lapini, un progetto di accompagnamento per giovani compagnie
18.30-19.30 --> Ulteriori interventi e dibattito
(iscrizioni presso banco segreteria)
Non conclusioni
Il comunicato stampa
Teatro pubblico, teatro commerciale e teatro indipendente: è questo il tema della sesta edizione delle Buone Pratiche del Teatro, l’incontro indetto dalla rivista web www.ateatro.it che si svolgerà il 13 febbraio 2010 dalle 9.30 alle 19.30 all’ITC-Teatro San Lazzaro (via Rimembranze 26, 40068 San Lazzaro di Savena, BO).
L’iniziativa, curata da Mimma Gallina e Oliviero Ponte di Pino, offre ogni anno un’occasione di incontro e di confronto sulla situazione dello spettacolo dal vivo nel nostro paese. In questa edizione, in uno scenario caratterizzato da una indubbia vivacità di iniziative e da notevoli risultati sul piano artistico, ma anche dall’eterna promessa della legge per il teatro e dalla progressiva riduzione delle risorse pubbliche per la cultura, l’asse portate sarà il tema dell’identità: l’identità delle compagnie, dei gruppi, dei teatri, dei festival che compongono il ricchissimo e articolato sistema teatrale italiano. La riflessione sul rapporto dei teatri - e in genere della cultura - con le istituzioni (dopo il passaggio dal proporzionale al maggioritario) e con il mercato (nell’era della grande crisi) rimette al centro del dibattito la funzione pubblica del teatro, e la funzione stessa del teatro pubblico.
Da sempre il cuore della giornata sono le “buone pratiche”: ovvero progetti, iniziative o attività innovative, che possono essere allargate (con varie forme di rete o aggregazione) e/o replicate in altre situazioni e realtà.
Le Buone Pratiche è una iniziativa indipendente, autogestita e autofinanziata. Vi partecipano ogni anno centinaia di teatranti (impegnati sia sul versante artistico sia sul versante organizzativo, in grandi teatri come in piccole compagnie, oltre che in festival e attività di programmazione e distribuzione), ma anche amministratori pubblici e studiosi e studenti di teatro. Proprio queste caratteristiche – la numerosa e variegata partecipazione, il diretto e franco scambio di opinioni, un catalogo di esperienze che si accresce a ogni tornata – hanno fatto delle Buone Pratiche un’occasione preziosa e imperdibile per il mondo del teatro.
Una curiosità: il rispetto dei tempi, in una giornata sempre intensa, è garantito da un segnatempo da cucina (nella prima edizione era un peperone, nell’ultima invece una tortina Sacher) che limita la durata degli interventi (10 minuti ciascuno) e delle Buone Pratiche 5 minuti ciascuna).
Informazioni e materiali sul sito www.ateatro.it, dove sono disponibili anche i report delle precendenti edizioni della manifestazione.
Hanno finora confermato la propria partecipazione
(tra gli altri)
Fabio Abagnato
Fabio Acca
Daniela Airoldi Bianchi
Francesca Airaudo
Amici della Musica di Modena
Amnio
Fulvia Angeletti
Laura Angiulli
Sonia Antinori
Antonello Antonante
Raimondo Arcolai
Sergio Ariotti
Marta Arniani
Enzo Aronica
Gimmi Basilotta
Fadia Bassmaji
Mimmo Basso
Silvio Bastiancich
Alessandra Belledi
Franco Belletti
Claudio Benvenuti
Gianni Berardino
Alessandro Bergonzoni
Teresa Bettarini
Paola A. Binetti
Bio Doll
Fabio Biondi
Roberto Biselli
Emilia Biunno
Michela Blasi Cortelazzi
Mauro Boarelli
Lorenzo Bonaiuti
Agnese Bonini
Laura Paola Borello
Fanny Bouquerel
Antonella Bovino
Claudio Braggio
Bruna Braidotti
Andrea Brunello
Isabella Caterina Brunetti
Ferdinando Bruni
Nicola Bruschi
Sara Bucci
Giulia Butera
Paolo Cacchioli
Roberto Calari
Stefania Caldognetto
Claudia Cannella
Manuela Cannone
Francesco Leonardo Caponegro
Riccardo Carbuti
Flavia Cardone
Alessandro Carlaccini
Cargonaute Comunicazioneitinerante
Fausto Caroli
Enrico Casagrande
Stefano Casi
Alessandra Cava
Marco Cavalcoli
Giulia Cavallaro
Michela Cavaterra
Morena Cecchetti
Serena Cenerelli
Raffaella Cenni
Elena Cervellati
Gilda Deianira Ciao
Cifa Centro Formazione Arti
Teatro Cinico
Paolo Cinquemani
Vincenzo Cipriano
Massimiliano Civica
Alessandra Clementini
Patrizia Coletta
La Corbeille
Alessandra Coretti
Andrea Cosentino
Luisa Costa
Fioravante Cozzaglio
Crexida Fienile Fluo'
Culture Teatrali
Maria Cutugno
Luigi Dadina
Davide D’Antonio
Franco D’Ippolito
Angela Dal Piaz
Giulia D'Amico
Francesco De Biase
on. Emilia De Biasi
Elio De Capitani
Elisa De Carli
Matilde De Feo
Lucia De Franchi
Carolina de la Calle Casanova
Arianna Del Soldato
Marco De Marinis
Guido De Monticelli
Adriano del Bianco
Berta Delgado
Massimo De Vita
Andrea Di Bari
Elena Di Gioia
Donatella Di Giuseppe
Bruno Di Marino
Teresa Di Monaco
Rossella Di Remigio
Francesca Divano
Lorenzo Donati
Paola Donati
Anna Dora Dorno
Simona Dottori
Rosi Fasiolo
Ilaria Fabbri
Edoardo Favetti
Anna Maria Favuzza
Angela Felice
Pietro Floridia
Dario Focardi
Chiara Foletto
Fondazione Ater Formazione
Laura Fontana
Serena Fornari
Elvira Frosini
Futura Tittaferrante
Adriano Gallina
Adriano Gallina
Elisabetta Gambi
Laura Gemini
Patrizia Ghedini
Gigi Gherzi
Elena Giachetti
Rita Giacobazzi
Anna Giannelli
Giacomo Giuggioli
Riccardo Goretti
Alberto Grilli
Elvira Grilli
Giovanna Grosso
Elena Guerrini
Alberto Guiducci
Giulia Guiducci
Chiara Iacona
Liliana Iadeluca
Elettra Iannone
Raffaella Ilari
Instabili Vaganti Compagnia Teatrale
Inteatro Polverigi
Itc Teatro
Pina Izzi
Alma Edlirka Johnson
Keep Conscious
Teatro Kismet
Korekané – Rimini
Kronoteatro Albenga
Isabella Lagattolla
Elena Lamberti
Roberto Latini
Valentino Ligorio
Alessandra Limatola
Giuseppe Liotta
Paolo Logli
Enrico Lombardi
Julia Lomuto
Michele Losi
Lrm Performance Scenic Art
Marco Luciano
Massimo Luconi
Manuela Macaluso
Marco Macciantelli (sindaco di San Lazzaro)
Teatro la Madrugada
Silvia M. Magni
Marinella Manicardi
Laura Mariani
Giovanna Marinelli
Eleonora Mariucci
Lucia Maroni
Luigi Marsano
Franco Marzocchi
Lara Mastrantonio
Tommaso Megale
Debora Meggiolaro
Deborah Meneghini
Giovanni Meola
Cosmo Messina
Angelo Milaneschi
Daniele Milani
Andrea Minetto
Vito Minoia
Vasco Mirandola
Anna Maria Monteverdi
Maria Morelli
Monica Morleo
Isabella Moroni
Alina Narciso
Nave Argo
Marcella Nonni
Officinae Efesti
Gli Omini
Ilaria Orefici
Valeria Ottolenghi
Associazione Culturale OssigenO
Massimo Paganelli
Elisa Paluan
Cristina Palumbo
Davide Pansera
Caterina Paolinelli
Andrea Paolucci (ITC Teatro)
Velia Papa
Simona Paravicini
Emanuele Pasqualini
Chiara Pazzini
Carlotta Pedrazzoli
Elina Pellegrini
Giorgia Penzo
Sara Perletti
Marco M. Pernich
Mario Perrotta
Saverio Peschechera
Maria Dolores Pesce
Nicola Pianzola
Giulia Piazza
Susanna Piccin
Micaela Piccinini
Debora Pietrobono
Carlotta Pircher
Giampiero Piscaglia
Enrico Pittaluga
Maura Pozzati (ass. cultura Provincia Bologna)
Quinta Parete
Antonio Raciti
Bianca Maria Ragni
Paolo Randazzo
Andrea Rebaglio
Teatri della Resistenza
Clotilde Recchia
Dora Ricca
Agostino Riitano
Giusy Ripoli
Alma Rivola
Roberto Rizzente (“Hystrio”)
Angelo Romagnoli
Marco Rossetti
Alessandra Rossi Ghiglione
Paolo Ruffini
Magda Saba
Sergio Saiz
Anissa Sala
Gilberto Santini
Amedeo Savoia
Scenica Frammenti Teatro
Maurizio Schmidt
Valentina Scocca
Elena Scolari
Micaela Scorza
Giuseppe Scutellà
Teatro dei Segni
Massimiliano Setti
Cosimo Severo
Sipari Uniti
Anna Sironi
La Smorfia Compagnia Teatrale
Francesca Sommovigo
Mimmo Sorrentino
Riccardo Spagnulo
Danila Strati
Studenti della Civica Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi
Giulio Stumpo
Luisa Supino
Stefania Tamburini
Antonio Taormina
Teatro delle Ariette
Teatro Metropopolare
Chiara Terenzi
Federico Toni
Roberto Toni
Daniela Trebbi
Triangolo Scaleno Teatro
Valentino Valente
Emanuele Valenti
Pietro Valenti
Jessica Valli
Isabella Valoriani
Francesca Veltre
Cristina Ventrucci
Antonella Villani
Carlotta Vinanti
Visual Container
Teatri di Vita
Carlotta Vitale
Carla Vitantonio
Sara Zampieri
Vittorio Zerbini
Elisa Zimtsterne...
Altre adesioni sulla pagina di Facebook dedicata all’evento
http://www.facebook.com/search/?q=ateatro&init=quick#!/event.php?eid=248629783187&ref=ts
Insomma, ci saremo tutti!!!
Se ti sei iscritto e non figuri in questo elenco, manda una mail a info@ateatro.it
BP2010 Identità, differenze, indipendenza Per le Buone Pratiche del Teatro, 13 febbraio 2010 di Oliviero Ponte di Pino e Mimma Gallina
Che cos’è il teatro?
Per noi il teatro è anche un edificio, una casa, spesso di solida pietra. Nella sua essenza è però effimero, si consuma nel qui e ora dell’evento. Perché prima di tutto il teatro sono le opere, gli spettacoli. Sono anche le esperienze che facciamo in teatro, o intorno al teatro. In scena, in platea e non solo: laboratori, workshop, seminari, processi creativi, performance...
Tuttavia in questo magma effimero di incontri c’è qualcosa che dura: la personalità degli artisti e la loro identità creativa, e l’identità delle compagnie e dei festival che rendono possibili quelle opere, quelle esperienze, quegli incontri.
Queste identità permettono di ideare e condurre progetti che si sedimentano nel corso delle stagioni, spettacolo dopo spettacolo, incontro dopo incontro. Consentono di concepire, definire e sviluppare una poetica. Spingono a instaurare un rapporto non occasionale con gli spettatori.
Il teatro è il prodotto e il riflesso di queste identità mutevoli, fragili, in continua evoluzione e tuttavia presenti, percepibili. Identità individuali – gli artisti, le compagnie, i festival... Ma anche identità collettive, che nel loro insieme e nella loro dialettica – oltre che nell’interazione con la società, e in particolare con i poteri pubblici e con il mercato – costituiscono il sistema teatrale.
Il sistema teatrale italiano dagli anni Venti agli anni Novanta
Il sistema teatrale italiano si è evoluto nel corso dei decenni per stratificazioni successive di identità collettive.
In principio c’erano le compagnie private, le “ditte” con il nome dei primattori a caratteri cubitali su cartelloni e locandine. Fino al dopoguerra, il teatro italiano coincideva con le compagnie degli “scavalcamontagne”, lontane discendenti dei comici dell’arte. In questo alveo trovano spazio da sempre esperienze raffinate, nella migliore tradizione del grande attore all’italiana, a volte con una notevole consapevolezza culturale; ma anche produzioni ordinarie per un mercato di serie B; e ancora allestimenti ispirati a una evidente ma mai precisata vocazione commerciale.
Dalle speranze del dopoguerra, nacquero il Piccolo Teatro e sulla scia gli altri teatri stabili: la nuova parola d’ordine era “un teatro d’arte per tutti”. Dunque un teatro che non si rivolgesse solo all’élite del pubblico borghese ma potesse parlare all’intero popolo; che svolgesse le funzioni di un servizio pubblico; e che sul versante estetico abbandonasse le pratiche rozze del capocomicato per i più moderni e raffinati equilibri della regia.
Gli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta videro l’emergere delle cooperative e dei gruppi di ricerca. Le prime nacquero con l’obiettivo di rilanciare gli ideali democratici dei teatri stabili, a livello sia di repertorio sia di rapporti all’interno delle compagnie, ma anche per portare il teatro nel territorio (e non solo nelle maggiori città, dove avevano sede gli stabili): fu un importante ampliamento del mercato (o meglio un suo riallargamento, con la riapertura di numerose piazze “abbandonate”). Dopo la metà degli anni Ottanta, ne beneficeranno soprattutto le compagnie private. La ricerca lavora invece, sulla scia delle avanguardie artistiche del Novecento, soprattutto sull’elaborazione e sulla pratica dei nuovi linguaggi, oltre che per intercettare le esigenze e i gusti di un pubblico che non è più “popolo” ma si è frammentato in base a gusti, curiosità, atteggiamenti, aspirazioni, generazioni...
Seguirà, negli anni successivi, l’affermazione – anche a livello di circolari ministeriali – di altre realtà, come le compagnie e i centri che operano nel settore del teatro ragazzi; e gli stabili privati e i centri di ricerca che, al di là dell’attività di produzione, riconoscono il valore della gestione e della programmazione di uno spazio teatrale e del servizio al territorio. Nel caso degli stabili privati, si sono privilegiati nuclei artistici e organizzativi indipendenti e strutturati, in grado di gestire una sala teatrale che interagisce con il territorio; nel secondo, l’obiettivo era quello di creare una rete produttiva e distributiva (insomma, gli spazi e un mercato) per i gruppi attivi nella ricerca.
In parallelo, nel corso dei decenni si è sviluppata anche la rete dei festival, ciascuno con la propria storia, la propria tradizione, la propria identità: le grandi manifestazioni, come la Biennale di Venezia; e quelle più piccole, come Santarcangelo.
Diverse motivazioni, diverse funzioni
Le realtà che costituiscono oggi il nostro teatro sono nate e si sono affermate in precise circostanze storiche e, fino agli anni Ottanta, sulla scia di forti motivazioni estetiche e ideali. La loro evoluzione si è intrecciata con i cambiamenti di ordine storico e politico che hanno investito l’intera società. L’invenzione degli stabili è resa possibile dal crollo del regime fascista e dalla nascita dell’Italia democratica. Cooperative e gruppi di ricerca nascono sull’onda dell’accelerata modernizzazione della società italiana e dei movimenti democratico-egualitari degli anni Sessanta. La maggiore attenzione al mercato e alla distribuzione, la necessità di razionalizzare un sistema cresciuto in maniera disorganica, con una costante prevalenza dell’offerta sulla domanda, ha ispirato la riorganizzazione degli anni Ottanta. Deve essere ricondotta nell’ambito del teatro pubblico anche una funzione chiave come la distribuzione e la programmazione dei teatri di proprietà degli enti locali (soprattutto i Comuni).
Queste diverse identità riflettono anche – almeno in origine – una diversità di funzioni, all’interno di un sistema che si è fatto via via più ricco e articolato, passando (almeno in teoria) dal puro intrattenimento per il pubblico borghese a un impegno civile che voleva coinvolgere l’intero corpo sociale, dalla vocazione pedagogica (sia nei confronti del pubblico sia per formare nuove generazoni di quadri artisti e tecnici) alla ricerca di nuovi linguaggi, dalla stabilità e dal radicamento nel territorio al decentramento e alla circuitazione, dalla salvaguardia della tradizione alla continua ridefinizione del canone... Per non parlare del diverso atteggiamento nel confronti dello spettatore: per rivolgersi ora al pubblico borghese, ora al “popolo”, ora ai bambini e ai ragazzi, ora a una audience para-televisiva, ora a uno dei mille target giovanili...
Anche il meccanismo delle sovvenzioni, inizialmente erogate soprattutto a livello centrale (Ministero o Presidenza del Consiglio), ha visto crescere l’apporto delle Regioni e degli enti locali. La tendenza, innescata agli inizi degli anni Settanta dalla nascita delle Regioni e dal protagonismo degli assessori alla cultura, ha in parte compensato la riduzione del FUS; ma competenze e funzioni dei diversi livelli non sono mai state definite e praticate con chiarezza e uniformità a livello nazionale (vedi le enormi disguaglianze tra Nord e Sud). Così come non ha contribuito alla chiarezza del sistema l’ETI, malgrado le successive riforme dell’ente.
Identità forti, identità deboli
Nel corso dei decenni, in assenza di una legge che inquadri il settore, il teatro italiano è stato retto prima da circolari e poi da decreti emanati annualmente dal ministero (fatta eccezione per un breve priodo di progettazine triennale, nell’era Veltroni-Melandri), in base anche alle contingenze politiche del momento. E’ una regolazione essenzialmente politico-burocratica e tuttavia flessibile, tanto è vero che – almeno fino all’inizio degli anni Novanta – ha saputo intercettare e regolamentare le successive ondate del teatro italiano, recependo forme organizzative e modi di produzione originali. Oggi gli ultimi decreti faticano a fotografare la realtà (vedi il caso delle residenze, dell’evoluzione dei festival, dello sviluppo dell’attività internazionale...) e tendono a uniformare le funzioni dei diversi soggetti. Ed è in costante crescita la quota di attività teatrali che non è riconosciuta e sostenuta dallo Stato e cerca le risorse necessarie da enti locali, fondazioni bancarie (uno dei rari elementi positivi dell’utimo decennio), sponsor, attività internazionali, oppure con forme più o meno creative di autofinanziamento. (Una ulteriore conseguenza della riduzione del sostegno pubblico allo spettacolo è l’aumento del prezzo medio del biglietto sueriore al tasso d’inflazione che si rileva in questi anni).
Tuttavia è anche vero che le identità “forti” dei diversi segmenti del sistema teatrale italiano, così come molte altre identità all’interno del corpo sociale, si sono progressivamente indebolite. Vedendo certi spettacoli, è diventato difficile capire se sono stati prodotti da uno stabile o da una compagnia privata, da uno stabile privato o da un gruppo di ricerca. Molti registi e attori nati e cresciuto nell’ambito della sperimentazione operano da tempo nel teatro privato e negli stabili; e a volte sono approdati a funzioni direttive, anche se tardivamente. Viceversa attori riconosciuti come star del teatro privato possono compiere escursioni nell’ambito della ricerca o si convertono al teatro pubblico.
Per certi aspetti questa può essere un’evoluzione positiva: rompe i ghetti rigidamente compartimentati in cui pareva strutturato il nostro teatro. Da un altro punto di vista questa indistinguibilità e interscambiabilità rischia però di appiattire lo scenario, di sospingere verso una medietà (o meglio mediocrità) politicamente corretta (o meglio inoffensiva). A volte, questa indifferenza alle tipicità porta addirittura ad accuse di concorrenza sleale: alcune compagnie private hanno sentito la necessità di rivolgersi all’antitrust, mettendo sotto accusa il teatro pubblico per i privilegi di cui godrebbe.
In direzione opposta, questa evoluzione ha spinto alcune realtà ad assumere funzioni di supplenza. Ecco uno stabile che pare invadere il terreno dell’intrattenimento, offrendo ricchi cachet alle star (o presunte tali) della nostra scena. Ecco un gruppo di ricerca che cerca di farsi carico della continuità della tradizione e del repertorio teatrale, spingendosi su quello che avrebbe dovuto essere il terreno privilegiato d’attività degli stabili. Ecco un festival che, nella scarsità di risorse, si propone come centro di produzione.
A partire dagli anni Ottanta, complice l’enfasi di molti (compresi alcuni ministri dello Spettacolo) sulle virtù del mercato, nel nostro sistema teatrale si è assistito a un crescente intreccio di pubblico e privato, in cui le specificità delle diverse funzioni si sono fatte sempre meno chiare. Per esempio, nell’area pubblica la distribuzione (compresa la programmazione di molti teatri comunali) favorisce sempre più spesso prodotti a forte vocazione commerciale, più funzionali alla creazione del consenso – ma inducendo notevoli equivoci sui criteri di utilizzazione delle risorse (agli incassi già alti degli spettacoli si sommano spesso contributi pubblici) e sulla formazione del pubblico.
In assenza di forti spinte interne al settore, l’impressione è quella di una navigazione a vista: il tentativo di gestire l’esistente – con le sue posizioni di rendita – all’interno di una generale scarsità di risorse, di periodici attacchi al servizio pubblico (che non riguardano ovviamente soltanto lo spettacolo) alternati a periodici tentativi di riaffermare il ruolo chiave della cultura (e dunque anche dell’istruzione, dell’informazione e dei mass media, della ricerca, delle reti di comunicazione) per lo sviluppo del paese.
Il sostegno pubblico al teatro: breve storia delle sovvenzioni
In questi processi ha inciso e sta incidendo anche l’evoluzione del quadro politico e istituzionale, che determina gli obiettivi e le modalità del sostegno pubblico allo spettacolo. In Italia, le prime sovvenzioni allo spettacolo – dopo diversi tentativi, nell’arco di un secolo, di creare un teatro nazionale sostenuto dalla Stato, inesorabilmente falliti – sono arrivate di fatto con il fascismo: da un lato si trattava di fronteggiare l’emergenza di un intero settore economico, messo sotto scacco dall’avvento del cinema; dall’altro il regime ha colto l’opportunità per iniziare a esercitare un controllo politico delle scene, articolandolo anche sul versante dell’accurata erogazione del sostegno pubblico, oltre che sul versante della censura (preventiva su copioni e poi attraverso la visione degli spettacoli).
Il sostegno pubblico alle compagnie private data dunque dai primi anni Venti del Novecento, a sostegno dell’“industria teatrale in crisi”. Nel nostro paese il teatro pubblico vero e proprio nasce invece nel secondo dopoguerra, con la fondazione del Piccolo Teatro, fortemente sostenuta dal primo sindaco di Milano dopo la Liberazione, Antonio Greppi. Con questa scelta, i poteri pubblici – non solo lo Stato – non si limitano più a sostenere l’esistente: assumono un ruolo progettuale e propulsivo; il teatro diventa una delle componenti necessarie dell’idea stessa di città; sul palcoscenico, e intorno al teatro e ai suoi spettacoli, la comunità mette in scena e fa emergere i conflitti e le contraddizioni che la attraversano, in termini politici ma anche più generalmente umani: esemplari in questo senso le polemiche intorno alla messinscena del Galileo di Brecht da parte di Strehler nel 1963.
Con lo stabilizzarsi della Prima Repubblica, gestita secondo i principi del proporzionale, il teatro italiano – a cominciare dagli stabili, governati da consigli di amministrazione di nomina politica e dunque soggetti alle regole della “lottizzazione” tra i diversi partiti e coerenti – si trova a dover cercare il sostegno pubblico destreggiandosi tra maggioranza e minoranza, e spesso anche tra le differenti maggioranze e minoranze di Comune, Provincia, Regione e governo centrale.
Si cercano forze politiche di riferimento (ma anche esponenti politici e funzionari “amici”, spesso animati da un autentico amore per il teatro e per la cultura), si stabiliscono – a volte – rapporti clientelari. Tuttavia l’obiettivo – più che una passiva affiliazione a questa o quella forza politica – è un equilibrio che permetta di conciliare la progettualità della compagnia con le esigenze dei diversi possibili referenti istituzionali e politici: insomma, chi può mettere a disposizione del teatro, della compagnia o del festival le risorse necessarie alla sua sopravvivenza economica.
Da una cultura proporzionale a una cultura maggioritaria?
All’inizio degli anni Novanta, con il tormentato passaggio verso un sistema di tipo maggioritario, ovvero con l’eterna transizione verso la Seconda Repubblica, lo scenario cambia: in un modello di questo genere, in linea di principio, “chi vince prende tutto”: alla lottizzazione tende a sostituirsi un radicale spoil system. E’ un meccanismo che può portare – in linea teorica –a una maggiore indipendenza e autonomia delle realtà artistiche, in un quadro di rispetto della reciproca autonomia; oppure, al contrario, a un totale asservimento della cultura alle logiche della politica e della propaganda (o magari della semplice ripicca politica, sulla base del principio che “gli amici dei miei nemici sono miei nemici”). Lo scenario è reso ancora più complesso dall’evoluzione in senso federalista dell’organizzazione dello Stato, con i suoi aspetti positivi (maggiore vicinanza dei cittadini alle istituzioni) e le sue contraddizioni (dagli squilibri territoriali nell’organizzazione e nei consumi culturali alla scarsa chiarezza nell’attribuzione delle competenze tra i vari enti). L’effetto più probabile è una diffusa e morbida autocensura, che evita di sollevare temi politicamente scomodi o potenzialmente irritanti per i politici - ma interessanti e stimolanti per il pubblico e per la polis.
Sono ambiguità inevitabili, anche perché sono sempre meno chiare le funzioni dei diversi segmenti del nostro sistema teatrale, e soprattutto le regole che devono governare il teatro pubblico. Ai vizi storici (lottizzazione, politicizzazione, sprechi, scambi, mancato ricambio generazionale...), se ne sono aggiunti o sostituiti altri.
Entra in gioco un ulteriore elemento: i mutati equilibri tra la direzione del teatro e il suo consiglio di amministrazione. Da un lato sempre più spesso i presidenti (e a volte anche gli altri membri del cda) travalicano il ruolo di indirizzo, corretta gestione e controllo dell’istituzione, per intervenire direttamente nella progettualità e nella programmazione del teatro, magari per sopperire alle carenze di una direzione che non riesce a esprimere un indirizzo culturale abbastanza forte e autonomo; intile aggiungere che l’interventismo del cda crea un’immediata confusione di ruoli tra controllori e controllati: ecco, tanto per fare un esempio, drammaturghi (o traduttori) approvare e finanziare la messinscena di un loro testo (o di una loro traduzione) da parte del teatro di cui sono amministratori.
In questi mutevoli scenari, per qualunque realtà, per qualunque creatore, mantenere la propria identità e indipendenza, perseguire il proprio progetto culturale e artistico, sviluppare la propria poetica, costruire un rapporto autentico con il pubblico, stabilire un rapporto corretto con i poteri pubblici nelle loro vari articolazioni, è un esercizio complesso e difficile, al centro di mille spinte, tensioni, conflitti...
Perché l’identità dei teatri non è solo un problema dei teatri
Perdendo la consapevolezza della propria identità – e dunque della propria diversità – il teatro rischia di perdere il proprio ruolo all’interno della città, della polis, perché finisce per restare indifferente alle sue tensioni, contraddizioni, conflitti.
Il teatro italiano ha uno straordinario patrimonio di identità, costruite a partire dalle proprie radici, dalle proprie esigenze, dalle proprie esperienze, ma anche arricchite dal confronto con altre identità: quelle degli altri artisti, e soprattutto quelle presenti e stratificate nel corpo sociale.
A volere osservare il teatro italiano come specchio – e spesso specchio anticipatore – dei vizi e delle virtù dell’intera società. questo appannamento delle identità, questa omologazione di fondo verso un “livello medio” accettabile da tutti pare sintomo, se non di un disagio, almeno di un stallo, di una situazione storica in cui, a dispetto di tensioni politiche in apparenza infiammate, le dinamiche sociale si sono inceppate – o sono diventate invisibili, sotterranee. Neppure il palcoscenico riesce a farle emergere.
Eppure in questi anni si sta combattendo in Italia una guerra culturale assai aspra, su vari fronti. Resa ancora più dura perché si tagliano i fondi a sostegno della cultura – o meglio, per sostenere la cultura “alta”, di cui il teatro è parte. In questa guerra, il teatro deve riuscire a difendere il proprio ruolo, deve far sentire la propria voce. Deve salvaguardare la propria identità rispetto ai mass media, senza ridursi a un ruolo ancillare. Al tempo stesso deve aprirsi alle possibilità di ibridazione con i nuovi media e le nuove forme di interazione sociale: rinserrarsi nel proprio specifico come se nulla stesse accadendo è sintomo di debolezza, non di forza.
Alcune domande, per cominciare
Negli scorsi anni pareva diventato evidente che non si potesse più parlare di un unico teatro, in grado di comprendere nel proprio ambito, all’interno di un’unica definizione, tutte le diverse pratiche teatrali.
Si parlava piuttosto di tanti teatri possibili, ciascuno orgoglioso della propria specificità e identità, ciascuno in grado di allargare e ridisegnare i confini di una definizione troppo rigida.
Oggi, in una fase in cui pare dominare un gusto conservatore e c’è spazio sempre più scarso per il rischio (tanto estetico quanto economico), lo scenario tende all’omologazione, all’uniformità di linguaggi e contenuti. O per lo meno al ricorso a generi e tipologie facilmente riconoscibili e identificabili – e dunque vendibili. Lo stesso quadro legislativo, almeno nelle ipotesi di legge finora ventilate, sembra andare in una direzione analoga: attutisce diversità e specificità di tradizione e di funzioni.
Ma allora che cosa è oggi l’identità per un teatro stabile, per una compagnia privata, per un gruppo di ricerca, per un festival? E’ solo la convergenza di un gruppo di professionisti dello spettacolo, raccolti per un periodo più o meno lungo intorno a un progetto comune? (e poi, dopo l’ultima replica, liberi tutti...)
In un’epoca dove non a caso trionfano il monologo e il talent show, l’unica identità da difendere – l’unica identità che è possibile difendere – è quella personale, che promette di coniugare coerenza e massima visibilità?
Forse è giunto il momento di fare il punto sull’identità e sulla funzione dei vari segmenti del nostro sistema teatrale. Il punto di partenza dovrebbe essere naturalmente il teatro pubblico, che ne è stato per mezzo secolo la spina dorsale – mentre ora l’espressione pare addirittura scomparso dal progetto di legge Carlucci.
# Ma in che senso possiamo continuare a parlare di teatro pubblico? E’ ancora necessario? E se sì, quali dovrebbero essere le sue funzioni? Il fatidico ma generico “teatro d’arte per tutti”? La semplice difesa e salvaguardia di una tradizione – come tendono a fare i teatri lirici italiani? Una vetrina di eccellenze, in un’arte fondamentale negli equilibri culturali e civili, ma ormai emarginata dai mass media egemoni? O forse il teatro publico può e deve farsi carico oggi di altri impegni, di altre funzioni?
# Nel campo della distribuzione, circuitazione e programmazione, che interessa circuiti, teatri, enti locali in genere, quale può e deve essere la funzione di un autentico servizio pubblico? Molti assessori e funzionari comunali si fanno ormai carico della programmazione del teatro o delle attività spettacolari del loro comune. Ma quanto l’attività culturale di un ente pubblico risponde ai criteri dell’audience e del facile consenso, ricorrendo alle star televisive e ai loro agenti? E quanto è frutto di un reale progetto culturale?
# Anche i festival e le sale teatrali, se non hanno una precisa identità, rischiano di ridursi a puri contenitori, simili ai mille “non luoghi” che punteggiano la nostra modernità (e la nostra vita quotidiana).
# Che ne è, sulle scene italiane, della funzione dell’intrattenimento, tipica dell’impresariato privato? Negli scorsi decenni il teatro privato è rimasto schiacciato dalle esigenze culturali riversate sul teatro e dal ricatto dell’impegno (ma anche dalle incursioni di alcuni stabili sul terreno dello spettacolo leggero). Così oggi il teatro commerciale rischia di rimanere terreno di caccia delle multinazionali dell’intrattenimento. Non è forse giunto il momento di chiarire la legittima funzione dello spettacolo commerciale, restituendo al teatro privato di qualità la funzione storica che ha sempre assolto e che assolve nelle grandi capitali internazionali?
# Quale può essere l’identità di quelle realtà – così numerose nel nostro paese – che hanno una struttura societaria privata (eventualmente anche in forma cooperativa) ma svolgono sostanzialmente una funzione pubblica (e dunque ricevono contributi pubblici a volte assai sostanziosi)? Quale deve essere il corretto rapporto tra l’autonomia progettuale, culturale e gestioniale di queste compagnie (e gruppi, teatri, centri...) e i controlli indispensabili a una corretta gestione del denaro dei contribuenti? Ovviamente a giustificare il sostegno pubblico non sono sufficienti i rapporti di fiducia con questa o quella amministrazione, con questo o quell’uomo politico, e neppure le rendite di posizione...
# Nel generale rimescolamento di linguaggi e tradizioni, nella progressiva frammentazione e riaggregazione del pubblico, nell’ampliamento di esperienze che ha segnato gli ultimi decenni di storia del teatro, ha ancora senso parlare di ricerca e sperimentazione?
# Per quanto riguarda le residenze (nelle innumerevoli modalità che questa forma ha recentemente assunto), quale può essere l’equilibrio tra la realtà che offre ospitalità (nelle sue diverse valenze territoriali, politiche, artistiche, progettuali) e la realtà “in residenza”? Qual è la logica e la necessità profonda di questo “patto tra identità”? Quali possono essere le consegenze di questa ibridazione?
# E, tornando alle funzioni “di base” dei diversi segmenti del nostro sistema teatrale, a chi tocca farsi carico dell’indispensabile ricambio generazionale, sulla scena e in platea?
Per un teatro indipendente
Forse vale la pena di riflettere, anche in Italia, sulla nozione di “teatro indipendente”. In altri paes è considerato un settore che si distingue sia dal teatro commerciale (che non riceve in genere alcun sostegno pubblico, ma vive esclusivamente dei proventi del botteghino) sia dal teatro pubblico (una rete solitamente definita e strutturata con criteri e mansionari più rigorosi rispetto all’Italia, e spesso dotata di un più adeguato sostegno finanziario).
Prima di tutto, un teatro indipendente persegue il proprio progetto culturale e artistico, a prescindere dai “poteri forti” (politici, economici, mediatici) ma anche senza cercare il consenso a tutti i costi (senza inseguire i gusti del pubblico a qualunque costo). Un teatro indipendente può sostenersi grazie agli incassi (e dunque non rinuncia al successo pur sapendo che il successo non esaurisce la sua missione). Ma un teatro indipendente non rifiuta necessariamente il rapporto con le istituzioni: anzi, spesso gode di finanziamenti pubblici – ma tendenzialmente legati a progetti precisi. Tuttavia per sopravvivere e lavorare non fa affidamento in maniera determinante al sostegno pubblico: è solo un dettaglio, ma evidenzia che sullo sfondo c’è il delicato problema del rapporto tra gli artisti e i poteri pubblici che li sostengono, e tra gli artisti e il mercato.
Più che una forma organizativa, dunque, l’indipendenza è un atteggiamento, una cornice nella quale si inserisce il rapporto del teatro o della compagnia con il potere politico da un lato e con il mercato (cioè il pubblico, e in parte anche i media) dall’altro. Questo rapporto può essere gestito in maniera più o meno rigida, e naturalmente prevede compromessi e mediazioni: a garantire la forza e la dignità di un percorso artistico può essere però solo una autonomia culturale, politica, estetica che affonda le sue radici in un’identità e in obiettivi consapevoli.
Chiaramente l’eccesso di identità – o la strenua difesa della propria specificità – può ispirare un atteggiamento di chiusura che porta in breve tempo alla sterilità. Il teatro è anche contaminazione e meticciato: e si nutre di questo, da sempre.
Tuttavia la genericità – soprattutto se trasparenza e controlli sono scarsi, e scatta la tendenza all’inciucio – implica una ampia discrezionalità: negli ultimi anni, solo per fare un paio di esempi, la gestione di Arcus spa e dei Fondi del Patto stato-regioni ha lasciato ampiamente a desiderare, per non citare ancora una volta gli ampi margini discrezionali delle scelte del Ministero.
Ma allora, su quali basi si può impostare un rapporto corretto fra il teatro e i poteri pubblici? Quali devono essere i patti (chiari), le regole certe che assicurino un mandato chiaro e risultati verificabili al potere pubblico, e libertà e autonomia agli artisti?
Naturalmente il sostegno pubblico al teatro (e in genere alla cultura) non è in contraddizione con l’indipendenza degli artisti. Anzi, in un sistema democratico dove vigono funzioni precise, regole chiare e trasparenti, controlli e verifiche da parte di autorità indipendenti, può e deve favorirla.
Perché l’indipendenza è una qualità che deve attraversare l’intero teatro – o, se si preferisce – tutti i diversi teatri possibili.
L’indipendenza non può essere assicurata dall’esterno – non può regalarcela nemmeno il regolatore meglio disposto e più democratico. L’indipendenza deve essere percepita come una qualità e un valore dalle singole realtà che operano all’interno del sistema, e di conseguenza dal sistema del suo complesso.
E’ un equilibrio difficile e fragile, e tuttavia nel teatro italiano numerose realtà sono riuscite a salvaguardarlo, e a lungo, come un bene prezioso e indispensabile. Per molti teatranti, la ricerca di questo equilbrio è stata occasione di riflessione e di crescita, e ha sedimento un ricco patrimonio di esperienze.
Proprio di queste “buone pratiche dell’identità e dell’indipendenza” vorremmo parlare nella prossima edizione delle Buone Pratiche del Teatro.
BP2010 Info & logistica Come arrivarci, dove dormire... di Redazione ateatro
La macchina organizzativa delle Buone Pratiche marcia ormai a pieno regime, nonostante l’assalto degli hacker al forum di ateatro (ma cercheremo di provvedere...)
In ogni caso, è già attivo un gruppo di www.ateatro.it su Facebook, e tra poco sarà attiva una pagina su Facebook.
Anche la sesta edizione dell’iniziativa si annuncia interesssante e ricca di idee, suggerimenti, proposte. E cominciano ad arrivare numerose e qualificate adesioni (un primo elenco qui sotto).
Inoltre stiamo iniziando a mettere online ulteriori materiali e informazioni. In particolare sono già online:
· HOLIDAY INN – LE SIEPI via Emilia, 514 – San Lazzaro di Savena (loc. Idice – 10 minuti ca. in auto)
051.6256200 – info@hisanlazzaro.it
prezzi Le Buone Pratiche/ ITC Teatro:
L’Hotel Holiday Inn – Le Siepi dispone di 108 camere.
Camera singola standard → 69€
Supplemento seconda persona → 20€
Supplemento camera superior → 10€
Tutte le camere hanno il bagno privato. Il prezzo é comprensivo di prima colazione.
· EUROGARDEN
via dei Billi, 2/A – Ozzano Emilia (13 minuti ca. in auto)
051.794511 – info@eurogardenhotel.com – booking@eurogardenhotel.com –
L’Hotel Eurogarden dispone di 72 camere.
prezzi Le Buone Pratiche/ ITC Teatro:
Camera doppia → 76€
Camera doppia uso singola → 76€
Tutte le camere hanno il bagno privato. Il prezzo é comprensivo di prima colazione a buffet.
· RELAIS BELLARIA
via Altura, 11bis – Bologna (5 minuti ca. in auto – 20 minuti a piedi)
051.453103 – info@hotelrelaisbellaria.com –
L’Hotel Relais Bellaria dispone di 108 camere.
prezzi Le Buone Pratiche/ ITC Teatro:
Camera doppia uso singola → 60€
Camera doppia → 70€
Tutte le camere hanno il bagno privato. Il prezzo é comprensivo di prima colazione.
· AGRITURISMO PODERE SAN GIULIANO
via Galletta, 3 – San Lazzaro di Savena (loc. Mura San Carlo – 8 minuti ca. in auto)
051.6251141 – info@poderesangiuliano.it
L’Hotel Relais Bellaria dispone di 108 camere.
prezzi Le Buone Pratiche/ ITC Teatro:
Camera doppia uso singola → 65€
Camera doppia → 90€
Camera singola → 60 €
Camera tripla → 120€
Tutte le camere hanno il bagno privato. Il prezzo é comprensivo di prima colazione.
· B&B L’ANTICO VINAIO
via Minarini, 7 – San Lazzaro di Savena (5 minuti a piedi)
051.6274488 – 338.1131577 – info@anticovinaio.it –
L’Hotel Relais Bellaria dispone di 4 camere.
prezzi Le Buone Pratiche/ ITC Teatro:
Camera singola → 40€
Camera matrimoniale → 60€
Camera doppia → 65€
Suite (camera doppia, camera singola e bagno) → 85€
Camera matrimoniale uso singola → 50€
Tutte le camere hanno il bagno privato. Il prezzo é comprensivo di prima colazione.
Mario Perrotta Il Misantropo in scena all'ITC così potete vederlo se venite alle Buone Pratiche di Ufficio Stampa ITC
ITC Teatro, via Rimembranze 26, San Lazzaro (Bologna)
dal 10 al 14 e dal 17 al 21 febbraio 2010 - ore 21.00
Il misantropo – Molière
traduzione e regia di Mario Perrotta
con Marco Toloni, Lorenzo Ansaloni, Mario Perrotta, Paola Roscioli, Donatella Allegro, Giovanni Dispenza, Alessandro Mor, Maria Grazia Solano
Produzione: Teatro dell’Argine, Festival delle Colline Torinesi, Armunia Festival Castiglioncello, Castel dei Mondi Festival. In collaborazione con il Comune di Poggibonsi e Lunatica Festival.
Il misantropo – Molière è la prima tappa della “Trilogia sull’individuo sociale” un’indagine di Mario Perrotta sulla natura individualistica e sociale dell'uomo contemporaneo. Per farlo Mario Perrotta sceglie tre opere:
Il misantropo di Molière - o Dell’individuo VS sociale.
I cavalieri di Aristofane - o Dell’agone politico e della utopia sociale.
Bouvard e Pécuchet di Flaubert - o Dell’utopia individuale.
Il misantropo è lo spettacolo che è stato messo in scena nel 2009 (debutto il 24 giugno 2009 Festival delle Colline Torinesi). Nel 2010 e nel 2011 saranno messi in scena gli spettacoli I cavalieri (liberamente tratto da Aristofane) e Bouvard e Pecuchet nella riduzione dello stesso Mario Perrotta.
Il Misantropo di Molière, testo scritto dall’autore sotto la pressione dell’opinione pubblica (per lo scandalo provocato da Il Tartufo e Don Giovanni) e in piena burrasca privata con la moglie, non lascia spazio a equivoci: lo scontro tra individuo e società è già maturo e ha preso la forma clinica della misantropia. Ma a ben guardare, il rifiuto delle regole sociali quando quelle regole, degenerando, si allontanano dall'etica e dal buon senso, sembra quasi plausibile man mano che gli eventi privati e pubblici del protagonista procedono verso un insanabile divario tra lui e “la società”. Neanche l’amore, in questo testo, appare esente dai giochi di potere sociale cui tutti i personaggi sottostanno.
“Ho messo in scena otto corpi in uno spazio vuoto. Ho rischiato l’assenza di appigli fisici e visivi per portare fuori la storia e il lavoro degli attori. Ho messo in scena disegnando spazi con quei corpi e poi mi sono sottratto. Ho lasciato gli attori lì, me compreso, a giocarsi la partita con quello spazio e con quella storia”.
Mario Perrotta
BP2010 Il documento di convocazione con l'elenco degli iscritti di Redazione ateatro
A voi, culturame parassitario vissuto di risorse pubbliche che sputa sentenze contro il proprio Paese! (*)
A voi, attori e attrici, artisti e commedianti, registi e teatranti, cantanti e cantautori, servi e accattoni, sempre pronti a genuflettervi e inchinarvi davanti al politico! (**)
A tutti voi, culturame genuflesso, è dedicata la nuova edizione delle Buone Pratiche.
A tutti voi, che amate il teatro, che vivete di teatro e che cercate di fare il migliore teatro possibile e di farlo conoscere, le Buone Pratiche offrono un’occasione di incontro e di riflessione.
Non potete mancare!
Ci vediamo a Bologna il 13 febbraio!
Vi aspettiamo tutti, perché le Buone Pratiche - libere, indipendenti, autogestite e autofinanziate - arrivano alla sesta edizione.
E noi abbiamo moltissimo da dirci e invece le occasioni di confronto e di approfondimento si sono fatte sempre più rare e preziose...
1. Nelle precedenti edizioni delle Buone Pratiche...
BP01
Nel 2004 a Milano abbiamo messo a punto il progetto delle Buone Pratiche, per proporre possibili modalità di sviluppo del teatro e nuove reti di collaborazione.
BP02
Nel 2005 a Mira, parlando di Il teatro come servizio pubblico e come valore, abbiamo lanciato la parola d’ordine L’1% del PIL alla cultura.
BP03
Nel 2006 a Napoli il cuore della riflessione è stata La questione meridionale a teatro.
BP04
Nel 2007 a Milano abbiamo gridato Emergenza!: da un lato il progressivo strozzamento dei finanziamenti e la (prevedibile) crisi del settore, dall’altro la necessità di valorizzare e far emergere i nuovi talenti, con un focus sulla formazione.
BP05
Nel 2008, sempre a Milano, riflettendo sulla possibile Fine del nuovo teatro in Italia, abbiamo fotografato Lo spettacolo dal vivo ai tempi del grande CRAC, con grande attenzione al ruolo dello spettatore.
In questi anni sono intervenuti alle Buone Pratiche centinaia di teatranti, operatori dello spettacolo, amministratori locali, critici e studiosi. Tra gli altri:
Carmelo Alberti, Giancarlo Albori, Paolo Aniello, Raimondo Arcolai, Mirko Artuso, Claudio Ascoli, Natalino Balasso, Patrizia Bartolini, Lisa Bellini, Alfredo Balsamo, Silvio Bastianchic, Matteo Bavera, Teresa Bettarini, Fabio Biondi, Roberto Biselli, Stefano Braschi, Claudio Braggio, Antonio Calbi, Angela Calicchio, Giovanna Capelli, Felice Cappa, Marco Cavalcoli, Ruggero Cara, Giulio Cavalli, Carlo Cecchi, Stefano Cipiciani, Nicola Cremaschi,, Andrea Cortellessa, Giovanna Crisafulli, Angelo Curti, Ninni Cutaia, Danny Rose (Domenica, Maura e Veronica) Francesco De Biase, Filippo Del Corno, Serena Deganutto, Corrado D’Elia, Linda Di Piero, Franco D’Ippolito, Andrea Di Stefano, Agnese Doria, Claudio Facchinelli, Valentina Falorni, Silvia Fanti, Rosi Fasiolo, Edoardo Favetti, Manuel Ferreira, Marco Filatori, Pietro Floridia, Federica Fracassi, Bruno Fornasari, Angela Fumarola, Rachele Furfaro, Adriano Gallina, Monica Gattini, Clara Gebbia, Salvatore Gennuso, Patrizia Ghedini, Gigi Gherzi, Marco Giorgetti, Carmelo Grassi, Daniela Gusmano, Davide Jodice, Rocco Laboragine, Elena Lamberti, Saverio La Ruina, Walter Leonardi, Sergio Longobardi, Massimo Luconi, Roberto Magnani, Erica Magris, Roberto Marcato, Laura Mariani, Luigi Marsano, Marco Martinelli, Fabio Masi, Andrea Maulini, Claudio Meldolesi, Daniele Milani, Giangilberto Monti, Massimo Munaro, Fabio Navarra, Alina Narciso, Cristina Negro, Roberta Nicolai, Cosetta Nicolini, Renato Nicolini, Daniela Nicolò, Elisa Noci, Marcella Nonni, Nicola Oddati, Valeria Orani, Franco Oss Noser, Sara Panattoni, Massimo Paganelli, Riccardo Pastorello, Emanuele Patti, Mario Perrotta, Ottavia Piccolo, Antonia Pingitore, Giuseppe Provinzano, Progetto Pul (Carolina della Calle Casanova, Sarah Chiarcos, Paolo Giorgio, Lara Guidetti) Andrea Rebaglio, Dora Ricca, Luca Ricci, Roberto Ricco Nicoletta Rizzato, Gilberto Santini, Renato Sarti, Alba Sasso, Nicola Savarese, Maurizio Schmidt, Giampiero Solari, Mimmo Sorrentino, Gianantonio Stella, Giulio Stumpo, Antonio Taormina, Barbara Toma, Gian Maria Tosatti, Alfredo Tradardi, Gianni Valle, Gerarda Ventura, Marisa Villa, Serena Vincenzi, Vittorio Viviani, Rosita Volani, Paolo Zanchin, Massimo Zuin...
(e ci scusiamo se abbiamo dimenticato qualcuno... ma se ce lo chedi ti aggiugiamo subito ;-)
2. Nella sesta edizione delle Buone Pratiche...
Avevamo deciso di lanciare e organizzare BP06 come se vivessimo in un paese normale. Un paese dove è necessario e utile discutere della gestione e dell’organizzazione (o dell’auto-organizzazione) dello spettacolo. Volevamo dunque continuare ad approfondire, come abbiamo fatto negl anni scorsi, le questioni legate alla politica e all’economia della cultura.
Volevamo individuare, sulla scia delle cinque precedenti edizioni, i vicoli ciechi e le potenzialità di sviluppo del sistema, le sue inerzie e le sue spinte creative, per poi individuare, insieme, le Buone Pratiche, ovvero le soluzioni più razionali ed efficaci. Senza avere in tasca una formula magica, ma solo esperienze e riflessioni da far conoscere e condividere. Insomma, da mettere in rete.
Volevamo continuare a sondare, esplorare e catalogare quello che sta avvenendo nel teatro italiano, per precisare e rafforzare funzioni e modalità operative “virtuose”, per aiutare chi opera nel settore a definire – o meglio ridefinire – la propria funzione in uno scenario in rapidissimo mutamento, quando emergono nuove tecnologie, nuovi media e inedite modalità comunicative ed espressive, mentre vengono sistematicamente attaccati la funzione pubblica del teatro e la sua appartenenza al settore del welfare.
Avremmo potuto farlo partendo dalla provocazione di Alessandro Baricco sulla “Repubblica” del 24 febbraio 2009, Basta soldi pubblici al teatro meglio puntare su scuola e tv; o dal progetto di legge Carlucci attualmente in discussione, dove l’espressione “teatro pubblico” non compare mai.
Volevamo discutere dei possibili modelli del teatro italiano. Perché abbiamo diverse domande intorno alle quali discutere. Ha ancora senso la centralità dei teatri stabili? O non è più corretto parlare genericamente di una “area pubblica”? Ma questo non indebolisce la funzione storica degli stabili? E in questa inedita ecologia dello spettacolo, come articolare ed equilibrare la pluralità degli organismi che animano le nostre scene?
Volevamo affrontare del problema delle direzioni dei teatri: il profilo professionale dei direttori e dei direttori artistici, la durata degli incarichi, il rapporto con i consigli d’amministrazione e i “presidenti-direttori”, il nodo delle compagnie stabili...
Volevamo individuarele modalità più efficaci per assicurare il ricambio generazionale e una formazione adeguata ai giovani, dentro e fuori dagli Stabili. Come sapete, quello della formazione è uno dei grandi temi – o se preferite, una delle delle ossessioni – delle Buone Pratiche. Da dove attingere le forze nuove? A che punto sono le scuole, sia quelle degli stabili sia quelle “indipendenti”, pubbliche e private? Qual è l’efficacia della formazione “a maestro”? Come può l’area pubblica sostenere – o assorbire-cooptare – chi cresce nel teatro indipendente?
Volevamo mettere a fuoco il rapporto tra il teatro pubblico e le compagnie private, che in Italia godono da quasi un secolo di un sostanziale sostegno pubblico – e accusano il teatro pubblico di concorrenza sleale davanti all’antitrust. Avremmo magari parlato anche di un nuovo teatro privato, quello dei mega-show (spesso musicali) assai vicini per modalità produttive, distributive e di marketing alla mentalità delle grandi major dell’entertainment.
Volevamo verificare se la categoria di “teatro indipendente”, assai utilizzata fuori dal nostro paese, può avere un senso anche da noi: forse può aiutarci a capire meglio quello che sta succedendo oggi, forse può incarnare e dar forza alle esigenze di una parte (almeno) delle compagnie e dei gruppi, stretti tra funzione sociale ed esigenze del mercato.
Volevamo capire quale può essere il rapporto tra residenza e indipendenza.
Volevamo insomma capire come è cambiato (e quale può essere) il rapporto tra lo spettacolo da vivo e il potere politico e i media.
Certamente proveremo a fare tutto questo, e magari con urgenza ancora maggiore, illudendoci di vivere davvero in un paese normale, dove un dibattito su questi temi è possibile e necessario.
3. Invece nella sesta edizione delle Buone Pratiche...
Molto probabilmente il tema di fondo delle Buone Pratiche 2010 sarà un altro. E’ inevitabile. Non parleremo tanto dell’eterno taglio al FUS e della nuova legge che da decenni forse sta per essere approvata ma non si approva mai: sono solo sintomi.
Quello a cui stiamo assistendo da mesi è un profondo cambiamento di scenario, una emergenza prevedibile e prevista da tempo, che però ormai si presenta con un impatto più drastico dell’immaginabile.
In qualunque paese normale, è difficile pensare a un ministro dell’Agricoltura che insulta i contadini quando vengono ricevuti dal Capo dello Stato. In qualunque paese normale, è difficile vedere i ministri della Salute o della Pubblica istruzione prendersela con i medici, gli infermieri, gli insegnanti (e magari anche gli studenti).
In qualunque paese normale, parrebbe buffo un presidente del Consiglio che, controllando la stragrande maggioranza dei mezzi di comunicazione (e dunque in grado di indirizzare sia l’informazione politica sia di plasmare l’immaginario), si presenta come un perseguitato e una vittima dei mass media controllati dai “comunisti”.
Per noi, il nodo centrale è l’indipendenza del teatro.
Per alcuni, il teatro non l’ha mai avuta, fin da quando è nato, nel Rinascimento, come divertimento del Principe – e anche come macchina ideologica di creazione del consenso. Ma le compagnie dei Comici dell’Arte – gli stessi che il Principe chiamava a Corte – sono anche un modello di indipendenza: quando per lavorare si sono associate in libere società (oggi le chiameremmo “imprese”), quando hanno trovato il loro pubblico (liberamente pagante) nelle piazze e poi nei teatri.
Per altri, la propria indipendenza il teatro italiano l’ha persa durante il fascismo, quando in seguito all’avvento del cinema l’intero settore è sprofondato in una gravissima crisi industriale (come avverrà qualche decennio più tardi al cinema con l’avvento della televisione): le compagnie (allora esistevano solo ed esclusivamente le “ditte” private, commerciali) poterono sopravvivere solo grazie alle sovvenzioni del regime – al prezzo, naturalmente, di un pesante controllo politico. E tuttavia le sovvenzioni pubbliche consentirono la creazione dei teatri stabili nel dopoguerra (a cominciare dal Piccolo Teatro); e ha sostenuto poi lo sviluppo delle cooperative e del teatro di ricerca a partire dagli anni Settanta. Per decenni il teatro italiano, malgrado tutte le sue storture e i suoi difetti, è stato vitale e ricco di fermenti. Ha costituito una importante occasione di crescita democratica, culturale e dunque politica. Ha permesso di sperimentare e mettere a punto nuovi linguaggi e variegate creatività.
Per altri ancora, il teatro italiano la propria indipendenza l’ha persa negli anni Sessanta, con il consociativismo e la lottizzazione, quando i consigli d’amministrazione e in genere i meccanismi delle sovvenzioni, sono stati gestiti “in quota partito”, imponendo scelte artistiche dispendiose e obbligatoriamente rassicuranti. Così anche i teatranti – o almeno i vertici della piramide – sono diventati una casta, che continua a prosperare e mantenere i suoi privilegi grazie a una rendita di posizione pressoché intoccabile.
Per altri, il peggio è arrivato all’inizio degli anni Novanta, con l’avvento del maggioritario, che sta via via cancellando gli spazi di mediazione e trasforma gli avversari politici – compresi i membri della casta che stanno dall’altra parte della barricata – in nemici da annientare. Affossato il consociativismo, tramontata la stagione dell’inciucio, il gioco si sta facendo sempre più duro – e magari scorretto. Anche perché ci sono due aggravanti: la più grave crisi economica del dopoguerra; e la necessità di controllare lo scenario culturale e mediatico, compresa quella realtà marginale che è il teatro, mettendo sotto controllo tutte le possibili voci di dissenso. Ma proprio da questa drammatica impasse – lo sappiamo – i teatranti possono trovare e stanno trovando le spinte per reagire.
Lo spettacolo sorge da obiettive condizioni storiche, da circostanze concrete, e appare come il luogo e il modo per cui una collettività prende le decisioni necessarie alla sua vita: naturalmente sul piano dell’inconscio collettivo, da cui successivamente come conseguenza scaturiscono gli atti immediati, giornalieri, coscienti.
(Vito Pandolfi, Spettacolo del secolo)
4. Dunque, nella sesta edizione delle Buone Pratiche, a Bologna...
Dunque continueremo a far finta di vivere in un paese normale, con un teatro normale. Un paese e un teatro dove è dunque possibile discutere normalmente dei nostri problemi e delle nostre speranze.
Lo faremo il 13 febbraio, a Bologna all’ITC-Teatro San Lazzaro .
Abbiamo scelto Bologna perché ITC-San Lazzaro ci ha garantito totale autonomia e indipendenza, condizioni imprescindibili per l’esistenza di www.ateatro .it e delle Buone Pratiche.
Bologna ci è sembrata una sede opportuna anche perché è in posizione centrale e rapidamente raggiungibile da gran parte delle località della penisola.
La giornata sarà strutturata con alcuni interventi introduttivi, una serie di tavole rotonde sui temi qui sopra accennati e la presentazione delle Buone Pratiche 2010.
Chi è interessato a partecipare, con un intervento, una relazione, una buona pratica, o semplicemente come uditore, è pregato di scrivere a info@ateatro .it.
Il programma definitivo è ancora in fase di elaborazione e verrà pubblicato (e aggiornato) sul forum di www.ateatro .it.
(*) Vedi Renato Brunetta, mini¬stro della Pubblica amministra¬zione e dell’Innovazione, intervento alla scuola di formazione del Pdl, Gubbio, 12 settembre 2009.
(**) Vedi Sandro Bondi, ministro dei Beni culturali, lettera al “Foglio”, 13 novembre 2009.
BP2010 Meldolesi, un maestro Poesia e militanza del teatro di Laura Mariani Meldolesi
“Io credo che si debba cercare di diventare, secondo le proprie capacità, dei maestri, maestri con la minuscola, 'maestri di scuola'. Ciò significa tornare al vissuto (personale o collettivo che sia) per cercarvi un filo che è stato abbandonato e che sia più resistente di quello che oggi non regge”, scrive Claudio Meldolesi a Eugenio Barba in una lettera del 31 ottobre 1980.
Claudio era un maestro sia con la minuscola che con la maiuscola. Era un Maestro per la sua produzione scientifica: dei suoi saggi sull’attore, sulla regia, sul dramaturg e la “forma sospesa del dramma”, sul teatro d’interazione sociale e sui rapporti del teatro con le scienze umane molti, riletti oggi, si confermano o si rivelano classici con una vitalità che affascina. Questo è dovuto innanzitutto alla forza e all’originalità del suo pensiero, al suo tipico muoversi fra pratiche sceniche e riflessione teorica. Ed è dovuto anche alla qualità letteraria della sua scrittura, talora irta dopo l’operazione al cervello del 1990: alla maniera di certa poesia. Il legame con le pratiche nasceva dalla sua formazione di attore e, quindi, dalla sua attenzione alla materialità faticosa del lavoro teatrale, mentre la tensione teorica si collegava al suo culto dell’’utopia concreta’ e al suo bisogno di una politica del fare. Da un libro all’altro si dipana il suo pensare il teatro, come in una grande Opera, con la maiuscola appunto..
Ma Claudio era pure un maestro con la minuscola. Lo era per il legame che ha conservato e nutrito fino alla fine con i suoi maestri intellettuali: Giovanni Macchia, che ha dato vita alla Sapienza di Roma a quell’Istituto del teatro da cui è nata la nuova storia del teatro; e il caro Alessandro d’Amico, ricreatore di memorie teatrali, che è morto l’8 febbraio e che pure dobbiamo ricordare e ringraziare. Lo era per il suo modo di relazionarsi e di stare al mondo, per il suo gestus nella vita potremmo dire. Per come sapeva riconoscere maestri degli artisti come Leo o dei coetanei come Ferdinando Taviani. Per come sapeva collaborare: con Renata Molinari ad esempio, per il loro libro sul dramaturg, o con Gerardo Guccini per il semestrale “Prove di drammaturgia”. Claudio ha segnato molti giovani e ha lasciato allievi quali Cristina Valenti e me stessa, senza tener conto dei costi della sua modalità pedagogica: orizzontale e discreta, pur partendo dalla considerazione che in cuor suo aveva di sé. Soprattutto ha laureato tanti artisti: da Ermanna Montanari e Marco Martinelli a Francesca Mazza e Andrea Adriatico. Da spettatore ha ascoltato con impegno le loro parole e i loro spettacoli: sapeva entrare in sintonia con la vita della scena anche a occhi chiusi.
In particolare, in questa edizione delle Buone pratiche incentrata sul tema delle identità, vorrei ricordare il suo intervento al convegno Le forze in campo. Per una nuova teatrografia del teatro, che si tenne a Modena il 24-25 maggio 1986. Claudio pensava che si dovesse ricominciare a considerare il teatro in termini istituzionalmente unitari. Del resto lui lo aveva continuato a fare, guardando sia alle esperienze nascoste e impreviste, come la rosellina selvatica di Brecht che amava citare, sia ai grandi teatri. Non si dimentichi che da uomo del sessantotto e del Nuovo teatro – legato all’Odin Teatret e al Living come infine alle iniziative di teatro in carcere o a Laminarie – aveva contrastato il suo tempo scrivendo di Visconti e Strehler e che fra i suoi amici di lungo corso ci sono Carlo Cecchi, Vanda Monaco Westerståhl e Renato Carpentieri. Ma l’unità come dato di fatto – del contesto e della base economica – fra stabili pubbliche e private (il cosiddetto teatro normale oggi sempre più commerciale, ma senza dare automaticamente a questo termine una connotazione negativa) e teatro di gruppo e d’avanguardia non significava né che si era una cosa sola né che si rimescolassero buono e cattivo. Di qui il suo invito al politeismo teatrale, perché “il teatro è naturalmente uno ma va giudicato con le leggi del teatro, è buono o cattivo”, e l’indicazione di un punto di intervento urgente: l’inadeguatezza delle culture professionali. “O si scioglie questo nodo culturale, dando vita a una cultura politeista cosciente della sua materialità professionale, o si diventa una tradizione abitudinaria, più o meno in svendita”, scrive. E questo vale per tutti.
Ma a Leo va il pensiero finale. Fino a venti giorni prima di morire – il 12 settembre 2009, un anno dopo Leo – Claudio ha lavorato al libro che uscirà a marzo con Titivillus: La terza vita di Leo. Gli ultimi vent’anni del teatro di Leo de Berardinis a Bologna. Un libro importante per come vi si scrive di Leo anzitutto, della sua battaglia politeista e del suo buon teatro, ma anche un significativo ricongiungimento delle anime di Claudio, un uomo tenace, attento, a volte misterioso negli esiti: fra poesia e militanza ma con il teatro al centro e con l’attore al centro del teatro.
Le Buone Pratiche, Milano, 2007: Roberto Magnani, Oliviero Ponte di Pino e Claudio Meldolesi.
BP2010 La responsabilità sociale di impresa a sostegno della funzione pubblica del teatro Con una nota sul bilancio sociale d'impresa per i teatri di Roberto Calari (*)
(*) Responsabile area cultura, conoscenza, rapporti con l’Università di Legacoop Bologna.
La crisi della finanza pubblica, i tagli sistematici e colpevoli del FUS da parte del Governo accompagnano una crisi mondiale dove le regole, i principi e i valori dell’etica, della responsabilità individuale, dell’interesse e del bene comune paiono essere stati improvvisamente rimossi e relegati nella cantina dei “ricordi”.
Eppure il movimento di opinione e la crescita della coscienza collettiva, a partire dagli anni Novanta, aveva messo fortemente in discussione un approccio “economicistico” e “privatistico” del fare impresa, così come la disinvoltura di un fare politica per “fare affari privati”, anziché il “bene comune”.
Dato per acquisito che il primo interlocutore delle politiche culturali e del sostegno alla autonoma produzione teatrale debba essere l’Amministrazione Pubblica, nel quadro economico e sociale di crisi profonda, questo ruolo si è fortemente affievolito, sia in termini di risorse, sia in termini di capacità di esprimere nuovi spazi ed opportunità di rinnovamento, ricambio, apertura a nuovi soggetti.
In tutti questi processi il fare teatro e, più in generale, il produrre cultura ha dovuto e potuto fare i conti, quindi, con una nuova necessità di reperire risorse e di motivare una diversa disponibilità ad intervenire da parte di soggetti privati, mentre cresceva la domanda sul senso del fare teatro, sull’autonomia indispensabile della produzione culturale, sulla necessità di contenere o arginare le spinte “economiciste”, ispirate, anche quando senza colpe soggettive, sempre più all’idea della “commerciabilità” e del “possibile successo” e, quindi, del ritorno economico delle produzioni prima che al loro ruolo “sociale”, di “ stimolo culturale”, di “ricerca di senso”, di “rottura”, di “provocazione”.
In questo difficile percorso la produzione culturale ha incontrato due ben distinti tipi di interlocutori, ben diversamente collegati a queste riflessioni e problematiche, e quindi con impatti ben differenti sulle scelte artistiche e produttive, se non sull’effettiva autonomia artistica: gli sponsor e i partner.
a) gli interventi di sponsorizzazione, tipicamente orientati ad avere un ritorno in termine di immagine istituzionale o, più frequentemente, di prodotto privilegiano produzioni di maggior capacità attrattiva sul pubblico e di maggiore “garanzia” di successo sul pubblico. Molto spesso lo sponsor preferisce spostare l’asse dell’orizzonte comunicativo che lo riguarda più che sul legame con il prodotto culturale realizzato, sui servizi o prodotti propri che potranno essere veicolati in modo autonomo e parallelo al pubblico di quel prodotto culturale: scarso o nullo coinvolgimento di “responsabilizzazione” sul prodotto culturale ed enfasi, invece, sulla capacità di comunicare in un contesto e rispetto ad un target ben definito di pubblico il proprio messaggio promozionale e pubblicitario. L’autonomia artistica di cosa produrre da parte del gruppo, associazione o compagnia, anche in questo caso, non è direttamente messa in discussione: ma è vero che più indirettamente queste realtà produttive saranno condizionate nelle scelte del cosa produrre dalla maggiore o minore “appetibilità” del prodotto per gli sponsor e per le loro logiche di ritorno comunicativo e pubblicitario.
b) le partnership, ovvero, le condivisioni “ragionate” di un progetto artistico pluriennale. In questo caso siamo di fronte a imprese che fanno un investimento di medio periodo sulla qualità di un progetto culturale e che tendono a legare parte della loro immagine, del valore “emotivo e simbolico” del proprio marchio anche a questa capacità, volontà di essere coprotagonisti di produzioni culturali e di spettacolo di particolare qualità e innovazione, posizionandosi su una sfera non di “ritorno di immagine diretta” o di “convenienza del costo investito per ogni “contatto” di pubblico, per la propria impresa, quanto sulla dimensione sociale del “sostegno alla autonoma produzione culturale innovativa” e “di qualità”, dove la qualità sta per la credibilità acquisita, il radicamento territoriale, i curricula professionali dei gruppi o realtà titolari dei progetti.
E’ a partire da questa seconda modalità di intervento che è nata e si è sviluppata una forma di relazione “virtuosa” tra imprese private e alcune realtà dello spettacolo: una formula che connette la scelta dell’impresa privata di praticare e rendere conto della propria “responsabilità sociale” verso i propri principali interlocutori o portatori di interessi con la disponibilità-volontà dell’impresa di produzione culturale di affermare e praticare contestualmente il proprio schema valoriale e la missione condivisa della propria progettualità, a servizio della collettività e del territorio in cui essa opera; di riaffermare nelle proprie scelte e nei propri comportamenti artistici, di uso delle risorse, di rapporto con i pubblici, con le amministrazioni locali e con gli altri operatori e produttori culturali “la funzione sociale del proprio agire teatrale o nella produzione culturale”.
Le principali imprese italiane sono, intanto, andate verso la predisposizione e presentazione annuale di un Bilancio di responsabilità sociale o di sostenibilità , secondo standard sempre più affinati e condivisi, che costringono a “rendere conto” all’opinione pubblica e ai principali stakeholders dell’impresa della dimensione, non “obbligata dalle leggi vigenti”, ma perseguita e scelta tenacemente, delle proprie azioni di responsabilità sociale.
Si spiega in questo modo il passaggio dalla precarietà e dell’occasionalità di un intervento principalmente “comunicativo” da parte delle imprese, alla nuova dimensione progettuale e di coinvolgimento ex-ante, nel momento della predisposizione dei budget da parte delle stesse, che non può che essere la condizione per interventi importanti sul piano economico, programmati nel tempo, misurabili nei risultati o negli scostamenti da quanto dichiarato. Il Bilancio di responsabilità sociale di Ugf Banca, di Coop, di Manutencoop, di Camst, di Granlatte spa, di Cadiai, di Ansaloni o di Murri, solo per restare ad alcune grandi cooperative presenti e radicate nel territorio bolognese, comprende, in modo discusso e partecipato con i soci e con gli interlocutori principali, le azioni rivolte a dare strumenti ed alimentare un sostegno diretto alla produzione culturale ed alla sua autonomia. Una scelta a rafforzare, sostenere l’autonoma produzione culturale come fattore indispensabile di ricchezza e di futuro per il territorio in cui l’impresa opera. In questo, poi, in particolare la logica insita nella cooperazione, rispetto alle realtà private, di essere ostile alla delocalizzazione avendo invece come suo valore distintivo, quello di essere espressione, unitamente alla propria base sociale, di uno specifico territorio favorisce la “trasparenza”, “tracciabilità”, “verifica di coerenza” delle azioni intraprese, oltre ad una diversa stabilità di relazione con i soggetti della cultura.
Analogamente la best practice, di sicuro valore internazionale, della presenza di oltre 1.400.000.000 euro di capitale di rischio - capitale sociale da parte di soci sovventori, cooperative e privati, all’interno della cooperativa Nuova Scena, Arena del Sole, Teatro Stabile di Bologna, e, per importi minori, di altri analoghi processi avviati in altre cooperative, ci da conto della qualità dei risultati prodotti e della stabilità e serietà delle relazioni costruite con il territorio da parte di questa esperienza a supporto della propria straordinaria attività di produzione culturale e di programmazione. In questo modello, quello cooperativo, con la presenza nella compagine sociale di soci sovventori, la governance dell’impresa non è scalfita e resta pienamente nelle facoltà dei soci ordinari. Nel contempo ogni disavanzo dell’impresa va ripianato e fa capo direttamente ai soci che devono , quindi, sviluppare una funzione “sociale”, di teatro stabile di iniziativa privata di “interesse pubblico”, con l’assoluta capacità di far convivere qualità produttiva e di distribuzione ed “equilibrio” di un conto economico annuale che, altrimenti, necessiterebbe di un immediato e doloroso ripiano da parte di tutti i soci.
La scelta dichiarata e consapevole di molte grandi imprese private e cooperative di dare conto ai propri stakeholders di un sostegno alla cultura come fattore di civiltà e di sviluppo delle comunità in cui le imprese operano fa, paradossalmente, emergere una debolezza-arretratezza del settore culturale nel definire in termini di valori e comportamenti, in tutta trasparenza, la propria missione e il proprio uso sia delle risorse “private” o “proprie”, sia di quelle pubbliche: manca, cioè, proprio nella cultura e nel teatro, che parrebbero invece i più vicini unitamente alla cooperazione sociale e alle onlus, a poter recepire questi indirizzi, una scelta ed una pratica coerente e consapevole di “comunicazione sociale” del proprio Bilancio, che si affianchi a quello per il Ministero e civilistico. Manca la scelta consapevole e organica di avviare una grande stagione di trasparenza e di confronto, per dare conto ai propri stakeholders delle proprie scelte, delle proprie azioni, delle proprie finalità all’interno di uno schema valoriale dichiarato e pubblico: mancano, eccetto poche e pregevoli eccezioni, quale quella encomiabile della Compagnia dell’argine e del Teatro che ci ospita, i Bilanci di responsabilità sociale delle imprese, associazioni, Fondazioni che operano nello spettacolo… Eppure potrebbe o “dovrebbe” emergere da questa capacità di uscire dalla autoreferenzialità per confrontare giudizi, e dar conto di risultati, di azioni e comportamenti misurabili e valutabili in base a parametri quantitativi e qualitativi, quella “funzione sociale” “utilità sociale” dell’impresa-associazione dello spettacolo, sempre più urgente anche per incontrare “virtuosamente” nuove disponibilità private a sostenerne le progettualità nell’interesse delle comunità locali.
Ma quali elementi e strumenti possono alimentare scientificamente e concretamente questo approccio, sia sul versante delle imprese partner e che si ispirino alla responsabilità sociale, sia verso le imprese della cultura, e ancor più, in particolare, verso i policies makers, gli amministratori pubblici, i Governi locali e nazionali, i Partiti Politici e le categorie economiche?
Credo significativo collocare qui una breve, quanto fondamentale riflessione, sul ruolo della ricerca attuata in questi anni con passione e qualche discontinuità dall’economia della cultura, troppo spesso relegata alla dimensione del “caso esemplare”; dell’eccezione che “non fa la regola”, quando invece esiste e sta crescendo, forse con una non adeguata consapevolezza e conoscenza da parte dei politici e degli operatori, un lavoro serio e sistematico di monitoraggio e ricerca sugli andamenti della domanda e dell’offerta culturale, nato e consolidatosi in regioni come l’Emilia Romagna, il Piemonte, la Lombardia, ma oggi, grazie ad un progetto nazionale voluto dalle Regioni e condiviso con il Governo, in grado di fornire progressivamente un quadro, secondo parametri finalmente omogenei, sufficientemente analitico e strutturato a livello nazionale e regionale, della domanda e dell’offerta, intanto per quanto concerne lo spettacolo dal vivo e il cinema, ma con l’evidente necessità e possibilità di estendere questo lavoro alla dimensione più complessiva della cultura.
Queste esperienze degli Osservatori, laddove sono cresciute con la necessaria promozione e controllo istituzionale e con la doverosa partecipazione degli operatori e delle loro categorie economiche, hanno consentito di iniziare un ragionamento trasparente e collettivo su criteri fondamentali per dare conto, intanto, dell’efficacia e dell’efficienza dell’uso delle risorse, della funzionalità dei modelli organizzativi, delle capacità di produzione e di promozione e commercializzazione delle produzione, del rapporto tra finanziamenti pubblici, locali, regionali e nazionali, e risorse proprie o reperite tramite attività collaterali.
Ma il lavoro prevalente a oggi degli Osservatori è rimasto quello della analisi quantitativa in serie storica della domanda e dell’offerta in campo dello spettacolo: molto più sporadico e non in grado ancora di incidere sufficientemente nelle valutazioni politiche ed economiche, invece, il diffondersi di analisi qualitative , in grado di individuare e rendere riconosciuti e condivisi parametri non solo quantitativi di giudizio sugli andamenti e le performances aziendali, ma anche qualitativi, su quanto , nel tempo ( in un tempo ragionevolmente lungo) gli investimenti culturali rendano in termini di moltiplicatore economico e sociale, rispetto ad una serie ampia e circostanziata di fattori ed elementi che connotano la qualità sociale ed il valore “competitivo” di un territorio rispetto ad un altro.
Su questo si tratta di indagare e di condividere nuove ricerche e nuovi approcci metodologici che riescano a divenire, grazie alla sostanza teorica e scientifica dei modelli messi in campo dagli economisti della cultura, elementi fondamentali per spostare l’asse dell’investimento di risorse nella cultura e nella creatività da fattori di costo con un semplice e fondamentale ritorno solo sociale,a elementi di “ritorno economico”, in termini di sviluppo economico sostenibile, di multiculturalismo, di sicurezza e vivibilità dei territori, di nuovo protagonismo dei cittadini e di capacità attrattiva degli stessi verso nuove energie e nuovi talenti in una dimensione necessariamente internazionale.
La cultura come bisogno sociale primario, come costruzione di identità e di senso di una comunità, ma anche la cultura come straordinario fattore di sviluppo per il territorio, capace di stare dentro, e non a lato o dopo, ai grandi processi di trasformazione, rigenerazione e ripensamento dello sviluppo delle città: le politiche culturali, quindi, tra pubblico e privato con responsabilità sociale, come nuovi fattori strategici per connotare nuovi orizzonti di crescita e un diverso livello di qualificazione urbana e dei territori.
BP2010 Distribuzione o diffusione? Clientele o clienti? Promemoria, post-it, post post-it & considerazioni sui circuiti (e sulla distribuzione in generale) di Patrizia Coletta
Promemoria
- Distribuire: limita all’oggetto, al “cosa”.
- Diffondere: sposta sul “cosa, dove, come, per chi…”
- Clientela: termine che implica interessi.
- Clienti: termine che implica interesse (interesse come interessamento, come “ci interessa”, come “degno di interesse”).
Premessa generale
Noi Circuiti non facciamo “teatro dell’obbligo”, non si può più lavorare ”sparando a pallettoni”: chi va va e il ciel ci aiuti. Bisogna fare i conti non col pubblico (che non esiste, così come non esiste genericamente il teatro) ma con i pubblici, e con le possibilità di mobilità degli spettatori sul territorio, anche rispetto a centri culturali egemoni o di riferimento.
I Circuiti, benché sia comodo e superficiale pensarlo, non sono bancomat erogatori di repliche o di regalie: il teatro dell’obbligo non esiste nemmeno per le compagnie. Quindi è necessaria una seria riflessione condivisa.
Premessa particolare
Il Circuito del Piemonte dopo vicissitudini estremamente critiche è “rinato” due anni fa. Questo ha fatto sì che il mio mandato cominciasse con un’autentica rincorsa. Il Piemonte e Torino hanno una ricchezza di iniziative culturali sorprendenti, decisamente superiori di quanto si immagini all’esterno. Ben poco si poteva quindi aggiungere, inoltre la pluralità dell’offerta aveva già avviato un processo di formazione del pubblico (e anche degli Assessori) rendendolo maggiormente indotto a operare scelte e ad avere una disposizione alla mobilità. In tale contesto va da sé che risulti superato il concetto di “decentramento” di antica memoria.
La rincorsa è cominciata dalle orecchie. Il mettersi in “ascolto” è stato il primo passo per porsi in dialogo costruttivo con chi praticava l’eccellenza in Regione. Geograficamente se l’Italia è lunghissima il Piemonte è molto largo, caratterizzato da una moltitudine di diversità e peculiarità. Ho chiuso i libri di teatro e ho riaperto Complessità di Waldrop e quelli sulla storia del Piemonte.
Ha preso corpo il concetto di diffusione.
Secondo promemoria
- Diffusione. Spettacoli sempre più diversificati per espressività e tipologia, spettacoli vicini alle esigenze attuali di un pubblico sempre più preparato e informato, ma anche disaffezionato e afflitto da problemi di ordine pratico, che vuole capire, ma che vuole anche scoprire attraverso la curiosità: un pubblico che sceglie, ma che è anche costretto a “scegliere”.
- Diffusione oltre le sale teatrali e oltre i cartelloni ufficiali. Il Circuito si sparpaglia sempre di più sul territorio, va alla ricerca delle radici profonde che ne creano il tessuto culturale e sociale, lo fa valorizzandone i tratti peculiari. Lo fa con l’ambizione di annullare la percezione di un teatro elitario, di avvicinarsi non al pubblico, ma ai pubblici. Esce un poco dal teatro, dopo che lo spettacolo è cominciato, per cercare di comprendere come meglio annullare le barriere che a volte esistono dall’accingersi ad entrare. Lo fa con interesse autentico, per questo nel radicarsi sempre di più nella proposta di un teatro di qualità cerca di creare una rete – intangilibe, forse, ma realissima – fatta di informazione, di comunicazione, di facilitazioni sempre più attente alle varie esigenze di pubblici differentissimi.
- Percorsi e progetti miranti a valorizzare il patrimonio artistico del territorio. Strumenti in grado di attuare con efficienza e professionalità le politiche culturali delle Regione e dei Comuni aggiungendo un contributo alla elaborazione stessa di quelle politiche con la professionalità, ma anche l’entusiasmo dato da una passione per questo ruolo e da un senso etico di grande responsabilità. Il Circuito sempre più vuole essere “strumento”. Stumento attuativo di progetti, in grado di trasformare le idee in realtà, di trasformare le eventuali criticità in “particolarità”.
Post.it perpetuo
- I clientisono innanzitutto gli Enti Locali aderenti, che determinano il 36% del nostro bilancio. Ci chiedono di essere sempre più attenti a ciò che di importante avviene e si realizza in campo teatrale. Ogni sbaglio è vitale in relazione alla contrazione delle risorse.
- I clientisono gli spettatori, che per noi costituiscono il 21% del nostro bilancio, pertanto non bisogna tradirli, ma persuaderli costruttivamente a continuare a co-finanziarci. Ci chiedono proposte per le quali è importante affrontare una serata a teatro, e una serata a teatro è impegnativa: significa organizzarsi mentalmente, fisicamente ed economicamente; comporta prendersi del tempo e il tempo prima ancora che i denari è diventato una risorsa in via di estinzione.
- I Circuitihanno funzionesuperpartes. Il loro mandato non producendo, è totalmente “disinteressato”, nei confronti della produzione e totalmente “interessato” nei confronti del pubblico.
Considerazioni post post-it
Le annotazioni di cui sopra consentono riflessioni estremamente lucide rispetto alle scelte di programmazione, che restringono di molto l’imbuto delle possibilità di “mercato”. Difficile quindi – per chi opera con lo spirito di continuità, costruzione, crescita e mantenimento dell’interesse dello spettatore – anteporre logiche di clientele all’intercettazione attenta del riscontro dei clienti.
Consigliabile è non fare scelte artistiche di “nicchia”, ma allargare l’attenzione a produzioni che abbiamo caratteristiche tali da riuscire ad interessare possibilmente diversificate fasce di pubblico, sociali, anagrafiche, culturali, tipologiche. Tante nicchie non fanno una cattedrale, ma molte nicchie possono essere contenute in una cattedrale: è la storia del culto che lo insegna.
Utopia? Forse, ma credo che sia la missione reale dei Circuiti regionali. Non ci si può più permettere di fare scelte artistiche che parlino a pochi, a meno di individuare spazi che parlino a pochi, situazioni che parlino a pochi, cercando poi di trasformare quei pochi in tanti.
Obiettivo primario è mescolare le proposte per tentare di mescolare i pubblici . I circuiti lo fanno seriamente. Dal 2005, anno in cui Mimma Gallina ha pubblicato Il teatro possibile,il panorama dei circuiti è radicalmente cambiato. Gli investimenti intellettuali e di risorse nel campo della “promozione e formazione del pubblico” sono lievitati a dismisura. Rarissimi sono ormai i Circuiti che non praticano profondamente un lavoro di relazione reale con il territorio e i propri spettatori. A tutti gli effetti sono diventati punto di riferimento d’eccellenza sul territorio e “mediatori” sensibili tra chi “produce teatro” e chi “può fruirne”. Sono lontanissimi i tempi dei “cartelloni preconfezionati” diventati una leggenda metropolitana, che soltanto occhi distrattissimi credono esista ancora, sbandierandoli come luogo comune per inutili e infruttuose polemiche con “il mercato”.
Crediamo che ci siano sul nostro territorio potenzialità da sviluppare e questo ci stimola ad andarne alla ricerca. Trasformare i sogni in realtà: sogni di artisti che vogliono incontrare pubblici attenti e sogni di pubblici curiosi che voglio incontrare artisti generosi.
Distratti dalla velocità a cui siamo ormai assuefatti, ci dimentichiamo troppo spesso che se si continua ad amare il teatro è perché in quel luogo ci si può ancora permettere di sognare ed emozionare, nel privilegio di un accadimento realizzato espressamente per noi. Un teatro che offre cura e che riceve cura.
Ecco questo vogliamo fare: continuare a ribadirlo, con i mezzi organizzativi di cui disponiamo: con lo spettacolo direttamente, ma anche ricordando che quel luogo esiste ed è, grazie al nostro operato, facile da raggiungere e permetterselo. Per fare questo, e bene, abbiamo bisogno della complicità degli artisti: artisti attenti, artisti che vogliano condividere con noi progettualità per affrontare con tutta la consapevolezza del caso le criticità.
Citazione finale come ultimo promemoria
A chi gli chiedeva quale fosse il suo stato d’animo quando si alzava il sipario, Romolo Valli, indimenticato grande del teatro italiano, rispose: “La speranza di essere un civile mediatore della sola fede che mi è consentita: quella di un celebratore laico pieno di incertezze, di vulnerabilità, di paure; il riflesso speculare delle paure, delle incertezze, delle vulnerabilità che sento salire verso di me”.
BP2010 Teatri stabili pubblici. Quale modello è ancora possibile? Dal passato al futuro di Giovanna Marinelli (*)
(*) Direttore Teatro di Roma
Vorrei parlare del passato
Perché? Perché credo sia arrivato il momento non più procrastinabile di riflettere, di fermarci.
Ieri su un quotidiano, in risposta ad un articolo di Furio Colombo che a partire da uno spettacolo teatrale ampliava la sua riflessione ai comportamenti della politica e avanzava l’ipotesi che l’agorà si stesse spostando nei teatri (ma non è successo così sempre dall’ Atene di Aristofane, alla Parigi di Molière all’Italia risorgimentale!). Su questo quotidiano, dicevo,si commentava con non celata soddisfazione e sprezzante ironia che i teatri sono l’ultima ridotta della resistenza, frequentati da pochi eletti che ritengono di doversi opporre alla volontà popolare espressa nelle urne.
Un’affermazione che contiene , se vogliamo,una buona notizia (che il teatro è ancora un luogo di libertà e di non omologazione) e due cattive notizie che il dato del dissenso è assunto come un disvalore e che ci si rallegra per le esigue fila di una minoranza testarda.
Io credo che sia arrivato il momento di preoccuparci come uomini e donne di cultura, come teatranti, come cittadini.
Viviamo troppo velocemente e troppo velocemente tutto diventa passato, un passato senza basi quindi labile , che non può diventare memoria, cioè confronto ,riflessione, studio, in una parola identità. Questo ci rende deboli come cittadini e come uomini di cultura. Occorre recuperare un senso tra passato presente e futuro. Il teatro può giocare un ruolo importante in questa direzione, perché il teatro vive di libera espressione e muore di format patinati e senz’anima, il teatro per vocazione presidia le zone del dissenso di qualunque tipo o colore e perde identità se si omologa. Il teatro per sua natura e origine può contribuire a restituire una memoria e a ricostituire una comunità .
il Teatro Pubblico in particolare ha nella relazione con la memoria e con una comunità la sua ragion d’essere, questo è stato il Teatro Pubblico nei suoi momenti migliori
Servizio pubblico, teatro d’arte per tutti ( le parole fondanti del Teatro Pubblico ) si sono tradotte allora in un impegno democratico di ascolto e di dialogo , in un lavoro di tessitura critica tra una comunità e la sua classe dirigente, intellettuale politica e economica. Il Teatro Pubblico sentiva di dover contribuire alla costruzione e allo sviluppo del senso di appartenenza e di identità dei cittadini - spettatori, alla integrazione delle culture , all’inclusione di categorie svantaggiate e in definitiva al miglioramento della qualità della vita dell’intera comunità di riferimento
L’ autonomia per il Teatro Pubblico, allora, era la conseguenza di una identità forte e soprattutto di un progetto culturale organizzativo economico consapevole e coerente, alla cui difesa provvedevano non solo gli artisti, ma anche gli spettatori
Questo è stato in sintesi il modello primitivo di teatro pubblico, la sua identità storica. Tutte le varianti, gli adeguamenti gli scostamenti sono stati possibili fintanto che non hanno messo in forse la ragione prima e ultima di quel modello artistico/operativo / economico
Hannah Arendt diceva che un po’ di futuro è anche alle nostre spalle
Vorrei parlare del presente
La cultura oggi sembra non essere più un progetto pubblico e civile, che consisteva nell’aspirazione utopica ad una pari opportunità di accesso alle opere dell’ingegno,in una idea di conoscenza intesa come esigenza di giustizia.
Il teatro, nel modo della produzione culturale, è l’arte del presente e proprio per questa sua natura è l’alimento intimo della nostra memoria individuale e collettiva. A lungo per questo ci siamo detti che il teatro è necessario, e quindi sono necessari il teatro pubblico e il sostegno pubblico al teatro
Oggi tutto ciò non è più condiviso, si direbbe che la cultura, il teatro non sono più sentiti come necessari, certamente non dalla classe politica, né da quella intellettuale ( ricordo l’articolo di Baricco di qualche mese fa). E gli spettatori? Indubbiamente dati alla mano , dal mio osservatorio vedo teatri pieni ,una domanda in crescita, affluenze record a occasioni di incontro e approfondimento . Allora forse c’è ancora necessità del Teatro.
Del resto autonomia e identità non hanno cittadinanza, se il teatro non è necessario.
Se il Teatro non è necessario è sufficiente il riscontro economico. Incassi e numeri. Il pubblico cancella lo spettatore, il cliente soddisfatto mortifica lo spettatore consapevole. Diventa inutile parlare di pubblici, di offerta mirata, di formazione e di informazione approfondita, di ricerca di linguaggi.
In questo contesto politico culturale sociale vivono oggi i Teatri Pubblici, un contesto che in generale ne nega la funzione originaria, un contesto che esercita pressioni contrapposte, spesso laceranti: se non fa numeri e non è competitivo è un ramo da tagliare, se nel relazionarsi con il territorio non asseconda il crescente narcisismo dei gruppi amatoriali o dei dirigenti locali non è coerente alle istanze di partecipazione, se i risultati formativi e di sostegno sociale non sono immediati e visibili l’attività è inefficace ,se il pluralismo delle idee e delle culture va oltre l’ affermazione di principio allora è strumento di propaganda politica, se da stabilità ai lavoratori si burocratizza . Come a dire : bene il supermarket dell’offerta, male il confronto delle idee; bene l’attenzione ai giovani artisti, male se escono dal ghetto delle giovani promesse; bene i teatri aperti , meglio se per attività commerciali; bene la flessibilità dei lavoratori, male se chiedono gli stessi diritti di altre categorie. E così via
Oggi direi che il rapporto tra teatro e potere in generale è impostato sull’indifferenza del potere nei confronti del teatro. Sempre meno risorse, sempre più confusi i criteri di assegnazione, sempre meno capacità di ascolto, sempre più ingerenze. E allora il teatro in generale e il Teatro Pubblico in particolare devono considerare come unico azionista di riferimento il proprio pubblico, inteso come interlocutore con cui confrontarsi
Oggi, almeno nella maggior parte dei casi, un Teatro Pubblico può esercitare la sua funzione solo se lavora in profondità e silenziosamente sul piano della formazione del pubblico, se considera come il fare teatro vuol dire fare spettacoli e non solo, è anche creare occasioni iniziative azioni che nella maniera più ampia rendano possibile lo scambio e il dialogo tra il pubblico e gli autori dello spettacolo, mettendo in circolo informazioni emozioni suggestioni storie idee e fatti: un circolo virtuoso, una tela sottile e fragile tra teatro e cittadini, che gli Stabili Pubblici debbono tessere nell’interesse del teatro in generale e per la propria stessa ragion d’essere.
Paul Klee sosteneva che l’arte non riproduce ciò che è visibile , ma rende visibile ciò che non sempre lo è
Vorrei parlare di futuro
Il futuro per gli Stabili Pubblici comincia la dove c’è un rapporto corretto tra teatro e politica, là dove il patto tra il teatro e la sua comunità non viene mediato dalla politica, ma scritto in un progetto la cui unica responsabilità è nelle mani del Teatro Stabile. Un progetto che prende forza da obiettivi chiari. E’ su quel progetto e su quegli obiettivi che la politica deve esprimersi , valutandone la fattibilità economica organizzativa ecc.; una volta approvato starà sempre alla politica valutarne la corretta attuazione e i risultati
Il progetto dovrebbe essere reso pubblico, perché anche i potenziali spettatori possano conoscerlo, condividerlo, verificarne gli esiti e difenderlo, ove occorra
Avere un progetto di governo per un Teatro Stabile vuol dire autonomia e identità.
Dell’autonomia abbiamo già detto, resta da dire dell’identità che non può poggiare su radicalismi o narcisismi, ma su una forte relazione con il territorio sia sotto forma di partenariati sia sotto forma di accessibilità dell’offerta e di pari opportunità. Un teatro pubblico deve essere fonte di dinamismo e di solidarietà rispetto al proprio territorio.
Identità vuol dire anche equilibrio : tra tradizione e innovazione, tra valorizzazione delle risorse locali e confronto con la produzione nazionale e internazionale, tra individualità e diversificazione delle pratiche artistiche. Una identità forte non ha paura di aprirsi a visioni diverse, di essere plurale.
C’è infine un punto che finora non ho toccato ed è il tema della relazione tra artisti ed istituzioni, il legame morale tra gli artisti e le istituzioni si è deteriorato in questi ultimi anni, in particolare presso le nuove generazioni. Un problema serio che se non verrà affrontato adeguatamente rischia di compromettere ogni rinnovamento tra diffidenze e pregiudizi reciproci. Le istituzioni ,e tra queste includo gli Stabili, sono spesso presbiti, ma gli artisti,i giovani artisti sono spesso miopi. La parola magica in questo caso è umiltà: un’identità matura è quella che sa arrotondare i propri spigoli, che sa riconoscere la qualità e valutare correttamente le opzioni in campo, che sa evitare rigidezze gestionali,ma anche gli sterili atteggiamenti rivendicativi. Insomma, ci vuole un atto di coraggio, occorre mettersi in gioco per far ripartire il dialogo
Se dovessi sintetizzare in cinque sostantivi quanto ho detto fin qui a proposito di un modello possibile di Teatro Stabile Pubblico mi rifarei alle “lezioni americane “di Calvino:
leggerezza, cioè flessibilità e snellezza nelle modalità di funzionamento
rapidità,quale condizione essenziale per muoversi in un ambiente competitivo e in evoluzione
esattezza, come coerenza e puntualità di obiettivi e di competenze, ma anche di relazioni
visibilità, quale strumento per affermare identità e missione
molteplicità, come capacità di ascolto e di valorizzazione di idee ed energie
“La verità è nella fragilità e nell’instabilità, nelle nuvole piuttosto che nella terra,nella schiuma piuttosto che nell’acqua.”
BP2010 Il Premio Nico Garrone a critici e ai maestri assegnato dagli artisti Segnalazioni entro il 31 gennaio 2010 di Comune di Radincondoli - Associazione Radicondoli Arte
Solitamente sono i critici a giudicare, a premiare compagnie, spettacoli. Comprensibilmente: una questione di ruoli...
Ma in realtà si conosce sempre molto poco della ricchezza del teatro: anche chi cerca di seguire il più possibile vede sempre una piccola parte della vasta, fitta originalità creativa così vivace in questi anni nel nostro paese.
Abbiamo bisogno di sinergie, di individuare anche chi sa affiancare le nuove formazioni, riconoscerne in tempo il valore, aiutarle nel comporre la loro identità.
Abbiamo bisogno di confrontare gli sguardi, artisti e critici.
Ricordando Nico Garrone.
Il Sindaco del Comune di Radicondoli, il Presidente dell’Associazione Radicondoli Arte e la giuria composta da Anna Giannelli - che ha lavorato a fianco di Nico Garrone, curando anche l’edizione speciale del festival 2009 - e dai critici teatrali Sandro Avanzo, Rossella Battisti, Enrico Marcotti e Valeria Ottolenghi, promuovono due nuovi premi, proprio in nome di un critico davvero speciale, Nico Garrone, presenza fondamentale per il teatro, sensibile alla contemporaneità che muta, alle esperienze nuove di valore. Ma vorremmo che ad aiutare la giuria ad individuare chi merita tali premi
Premio Nico Garrone ai critici più sensibili al teatro che muta
Premio Nico Garrone a maestri che sanno donare esperienza e saperi
siano proprio gli artisti, chi vive le difficoltà del teatro nel ricevere attenzione, instaurare dialoghi con le precedenti generazioni, nell’ottenere la presenza di critici, esperti di teatro che, nell’esprimere diverse valutazioni, favoriscono la riflessione intorno alla propria poetica, i contenuti messi in campo, i linguaggi utilizzati.
Avremmo proprio bisogno che rispondiate a queste domande:
. ci sono stati/ ci sono maestri di teatro lungo il vostro percorso che vi hanno aiutato a crescere, figure particolarmente disponibili, capaci di ascoltare, di mettersi a confronto con generosità?
. ci sono stati/ci sono critici che hanno scritto di voi - magari anche su riviste, giornali periferici - che hanno contribuito al vostro percorso attraverso il loro sguardo, le loro analisi?
Sarebbe importante che insieme ai nomi ci indicaste quanto è possibile per noi contattarli, specie quei critici forse meno noti da cui pensavamo quindi di farci mandare una parte dei loro scritti da leggere insieme come giuria.
La giuria - affiancata magari da altre figure per la fase finale, l’ultimissima tappa - valuterà le indicazioni pervenute e assegnerà i premi al prossimo Festival di Radicondoli, estate 2010, con momenti d’incontro, di analisi dei dati pervenuti, di confronto con le compagnie che hanno partecipato al percorso, tema centrale naturalmente maestri e critici come compagni di viaggio...
Dovreste mandare le risposte entro la fine di gennaio!!! mi raccomando non oltre!!! Ci sarà poi molto lavoro da fare...Potete spedire tutto a: Anna Giannelli, e.mail: anna.giannelli@virgilio.it, ma per informazioni e chiarimenti potete chiedere, oltre che ad Anna Giannelli, anche a Valeria Ottolenghi, valott@tin.it.
Carmina dant panem ovvero il teatro al tempo dei G.A.S. Orti insorti spettacolo a baratto di Elena Guerrini
“I miti aborigeni sulla creazione narrano di leggendarie creature totemiche che nel tempo del sogno hanno percorso in lungo e in largo il continente, cantando il nome di ogni cosa in cui si imbattevano: uccelli, animali, piante, rocce e pozzi, e con il loro canto avevano fatto esistere il mondo.” (Bruce Chatwin 1989)
Avrei dovuto farla con il carro questa tournée.
Ho recitato nei poderi, sotto l'enorme chioma di una quercia, come i cantastorie di antica memoria, in viaggio...
Narrare, ascoltare, riraccontare.
Facendomi pagare in prodotti della terra: pane, farina, cibo, uova, cacio, vino, ma anche storie, memorie, sorrisi, emozioni.
Ho capito che non c’è differenza tra scrivere e creare uno spettacolo e crescere un cavolo.
ORTI INSORTI, REPLICA NUMERO 104!
Ho iniziato la mia avventura tra gli orti e le mie radici nel 2008, dopo aver smesso di lavorare con la Compagnia di Pippo Delbono con cui ho condiviso dieci anni di percorso artistico.
In questa ricerca ho “camminato” con mio figlio nel marsupio e una valigia con pochi oggetti, dai poderi della Maremma a quelli della Puglia,dal teatro di paglia di Montevarchi agli orti urbani di New York, dagli ecovillaggi ai centri sociali, dalle aule delle scuole e delle accademie ai teatri con i velluti rossi di Milano.
In molti poderi del centro e del sud Italia, dove mi recavo la domenica pomeriggio con mio figlio (che veniva affidato alle cure della nonna di casa!), con la mia sedia e la mia storia, ho dovuto spegnere la televisione sintonizzata su Domenica In.
“Spegnete la televisione e aprite la porta al teatro” era il mio motto. E’ diventato anche lo slogan di “A veglia”, il festival del teatro a baratto che dirigo da tre anni a Manciano (GR) a settembre,
Ho trovato anfiteatri naturali in valli e boschi, e gente che con la sedia in mano veniva ad ascoltare la mia narrazione. Sono stata nelle nuove comuni, nei condomini solidali, in isole lontane e piccolissime, e in ogni luogo c’era un grande ascolto.
Avrei voluto farla con il carro, la tournée di Orti insorti, trainata da quattro cavalli maremmani e fermarmi in sosta a bere nei casali,ascambiare parole e farmi pagare con la biada per i cavalli prima di proseguire il percorso…
Invece siamo andati in auto, io e l’elfo musicista Davide Orlando, l'organettista dei Jurnater. Davide suona l’organetto dei pastori e il flauto dei boschi, che ha costruito con un legno forato. Siamo andati in tutta Italia, da nord a sud, a nord est e a sud ovest, complici di un rito che si svolge fuori dai teatri. Ho incontrato bei volti rugosi di veri maestri, ho capito che il mi' nonno contadino maremmano che ha lottato per la terra era simile a molti nonni pugliesi, campani, siciliani, emiliani, che lavoravano la terra con le mani e si facevano i semi da soli.
Realtà simili e paesaggi diversi.
Porte aperte, tavole apparecchiate, condivisione.
Il mio teatro è civile e conviviale, ci si racconta davanti a una minestra fumante e a un bicchiere pieno dal sapore antico.
In Puglia ci hanno offerto le orecchiette fatte con il grano bruciato, che sono i chicchi che rimangono dopo la trebbiatura e che i mezzadri raccoglievano per il loro desco.
Abbiamo replicato Orti insorti in cascine, poderi, camini, aie, e anche valli, prati e boschi se non pioveva. Qualche volta perfino in qualche teatro più illuminato, ma non perché aveva molte luci.
Del resto, le luci ce le portiamo noi. Abbiamo una scheda tecnica contadina: un filo di lampadine trovate in un podere, due sedie e un tavolino, uno stereo piccolo con cd, la mia voce e le note dell’elfo.
Di podere in podere, pagati a baratto: olio, vino, formaggio, farina, farro, prosciutto, uova…
Ricordo uno degli incassi più alti: 75 litri di olio biologico toscano, che poi abbiamo diviso, 50 a me e 25 al musicista, oltre alla cena e al dormire. Mezza paga se il giovane musico trova quella sera la donzella con cui coricarsi, rapita dalle sue dolci note.
Questa narrazione con musica che dura quarantacinque minuti è il nostro pane quotidiano.
Su un giornale un giorno un critico ha scritto di Orti insorti: “Un teatro che sa di terra e di pane”. E’ vero, il mio teatro è il mio pane, il mio vino, il mio cacio, il mio olio.
Un giorno di fine estate del 2008 mi chiamano a fare questo spettacolo per la festa del Gas di Calci: “Ci sarà una cena per il gas del paese e vorremmo il tuo spettacolo”, mi spiega una ragazza al telefono. Calci è un paese in provincia di Pisa ma anche vicino a Lucca.
Sì, ci andrò, così prima mi fermo a prendere un tè e una torta con Pia Pera nel suo giardino. Poi penso: “Ma che gli dico io ai dipendenti dell’azienda cittadina del gas?”
“Il mi’ nonno Pompilio nato a Pratolungo il 14 di dicembre del 1904 usava il carbone, lo andava a fa’ alla macchia e faceva pure la legna pe scaldassi...”
Mi sento fuori luogo, all’azienda del gas municipale. E che direbbe poi la mi’ nonna, la Gina,
“Lei ha sempre usato solo la cucina economica che co’ la legna drentro ci scaldava la casa,cucinava,asciugava i panni e bolliva l’acqua pe’ lavassi tutti.”
Che c’entra Orti insorti alla festa del gas municipale. Poi sinceramente io al metano preferisco le energie alternative e rinnovabili!
E invece, che energie alternative ho scoperto quella sera a Calci! Ho capito che i gas sono i G.A.S, e non c’entrano nulla con il gas inteso come metano. Sono i Gruppi di Acquisto Solidale, dove si raccolgono persone che la pensano più o meno nello stesso modo su vari argomenti: solidarietà, commercio equo, consumo critico, cibo, alimentazione, biologico, ambiente, inquinamento... Insieme, decidono di non servirsi più dalla grande distribuzione, cioè non fanno più la spesa al supermercato, ma si uniscono per comprare prodotti genuini, biologici e freschi e soprattutto a chilometro zero dai contadini o da piccoli produttori della filiera corta. Poi si ridistribuiscono la spesa a seconda delle loro esigenze, con un risparmio a volte anche del cinquanta per cento su alcuni prodotti rispetto ai supermercati. Alcuni G.A.S. adottano anche i campi di grano per avere il loro pane dal seme.
Hanno nomi curiosi e fantasiosi, questi gas: Il filo di paglia, Gasati, A tutto gas, Gaspiterina, Gasgrilli, Gastone, Non solo gas, Gasiamoci, Gasotto...
Sono convinti che ogni cosa sia possibile, persino vivere in un mondo diverso, dove la persona venga prima del denaro. GASPITA!
Alcuni sono costituiti da pochi amici, altri da moltissime famiglie. Sono nati in Emilia Romagna alla fine degli anni Novanta e adesso con la crisi economica sono sbocciati ovunque.
Per lo più i G.A.S. sono composti da famiglie con bambini, insegnanti, medici, impiegati, ma anche studenti e giovani al di sotto dei trent’anni e operai o casalinghe che hanno fatto la sana scelta alimentare e politica di non nutrirsi più dalla grande distribuzione, e poi decidono cosa e come mangiare a partire dal seme e dalla terra, famiglie consapevoli della crisi che stiamo vivendo e capaci di reagire in modo solidale e culturale, persone che scelgono il giusto grano per il loro pane, l’olio bono, il vino genuino, la verdura senza ogm e anche il mio spettacolo.
Da allora, dopo Calci, grazie al libro (Orti insorti, Stampa Alternativa) e al passaparola tra i G.A.S., ho iniziato queste strane tournée. A TUTTO G.A.S.!
Loro,”il popolo dei G.A.S.”, hanno deciso di nutrirsi di Orti insorti. E io ho accettando di nutrirmi di loro: di questo pubblico così bello, genuino e familiare. Un pubblico che abitualmente non va a teatro ma è colto e curioso, che da due anni compra puntualmente, in tutta Italia, una o più volte al mese lo spettacolo come se fosse pane: il loro pane, il mio pane.
“Fa che ovunque io vada, lì sia casa, sia pane, sia bere, sia fuoco, sia sedia.”
Appena arrivo sono accolta a tavola come in casa.A volte si mangia insieme, tutti quanti, in una sede di quartiere o in un circolo A.R.C.I, oppure in un podere della filiera corta. Poi si passa al vino, alla musica, alle parole. Mi bastano una sedia, un tavolo e un prato o l’aia, sempre se non piove, se no si sta dentro.
Il pubblico, il mio pubblico, quello che ha deciso, in una o più riunioni, di comprare lo spettacolo, lo ha scelto come se fosse un prodotto alimentare: teatro da mangiare e dono da condividere. Alcuni avevano letto il libro, altri avevano visto lo spettacolo e lo hanno proposto identificandosi nel mi’ Nonno Pompilio che lui
“Non ha mai comprato un cavolo, per davvero, comprava solo lo zucchero, il sale, il caffè e il baccalà ‘na volta l’anno alla fiera d’agosto, doppo la trebbiatura. E se gli avanzava qualche soldo, pure l’ombrello, e un paio di scarpe a ruota: un anno a uno e un anno all’altro dei su’ figlioli.”
Altri hanno sentito parlare dello spettacolo dai contadini dove andavo a fare le mie Veglie e loro a comprare l’olio o il cacio, così ne hanno parlato ai loro G.A.S. e poi si sono tassati con una cena di autofinanziamento per avere Orti insorti. A loro, fedeli abbonati, facciamo un prezzo speciale.
In questa bella rete diffusa in tutta Italia, da Aosta alla Sicilia, incontro gente che si riconosce nel mio narrare, e che in una riunione per la scelta dei prodotti o per lo smistamento delle verdure, mentre i volontari preparano i sacchi per ogni gasista, fanno comunità toccando temi etici, politici e sociali: dalla scuola, al teatro, all’inquinamento G.A.S. SI’, NO GAS!
Riuniti davanti a una torta alle carote, assolutamente bio e a chilometri zero, o a biscotti fatti in casa con farina di grano della filiera corta.
Le sedi del G.A.S. dove replico lo spettacolo sono spesso una stanza con cassette di frutta e di verdura, un tavolino e poche sedie, disadorna ma piena di calore umano, un po’ come una piazza-mercato. Crea comunità soprattutto nelle grandi città, dove è difficile incontrarsi e scambiarsi opinioni.
E così grazie alle energie alternative del popolo dei G.A.S., Orti insorti vive, e vivo anche io, grazie a loro del mio teatro e delle mie parole. Mi sembra incredibile, soprattutto di questi tempi, quando i teatri chiudono e i festival saltano. Grazie a loro, che mi sostengono in questa impresa, mi sento portavoce di un teatro davvero resistente, militante e sperimentale, una moderna cantastorie che fa del teatro il suo pane.
“Carmina dant panem”, oso dire contraddicendo l’antica massima usata dall’ Ariosto e dal Petrarca.
“Carmina non dant panem” esprime la difficoltà di trovare lavoro e denaro per chi sceglie l’arte come lavoro per vivere.
Per me con Orti insorti “Carmina dant panem”, davvero!, grazie alle numerose associazioni culturali, ai centri sociali riconvertiti in mercati, ai direttori e agli insegnanti delle scuole che hanno l’orto e che mi chiamano a fare lo spettacolo, al movimento Campi Aperti di Bologna, all’Associazione Samarcanda per l’iniziativa + Futuro in provincia di Belluno, al collettivo Gustonudo di Bologna, ai soci di Buon Mercato di Corsico, ai ragazzi di “Il pane e le rose” del centro di economia etica e solidale del comune di San Giuliano Milanese, alle ragazze dell’Associazione Namastè che hanno organizzato la rassegna “Mangiare è un atto agricolo” a Locate Triulzi, sfidando la bufera di neve, e a tutti gli altri sparsi nella penisola, e ultimo ma non ultimo al distretto di economia solidale della Brianza in provincia di Monza che ha adottato un capo di grano dove ci sarà la prossima replica di Orti insorti il 23 maggio 2010.
Mi sento davvero una moderna cantastorie che vorrebbe muoversi per le campagne in groppa al cavallo o all’asino e invece gira su una vecchia Ford.
La prossima replica di Orti insorti sarà domenica 23 maggio 2010 alle ore 18:30 a Mezzago (MB), in occasione della settimana dell’agrobiodiversità organizzato da Retina Gas Brianza in conclusione dell'iniziativa "Il mondo nel piatto, la vita nei campi storie di terra, cibi e contadini", una serie di incontri e di eventi per capire e condividere l'importanza di preservare e "coltivare" la biodiversità agricola .
Lo spettacolo si svolgerà sull’aia di un contadino coltivatore biologico presso l’azienda agricola Scarabelli. L’ingresso è a offerta libera, i G.A.S. porteranno da mangiare e a fine spettacolo merenda sull’aia per tutti.
INFO: 338 2871854 www.acra.it
"Non ti fidare del governo,di nessun governo.
E abbraccia gli esseri umani.
Nel tuo rapporto con ciascuno di loro riponi la tua speranza politica.
Approva nella natura ciò che non capisci e loda quest'ignoranza, perché ciò che l'uomo non ha razionalizzato non ha distrutto.
Fai le domande che non hanno risposta. Investi nel millennio.
Pianta sequoie. Sostieni che il tuo raccolto principale è la foresta che non hai piantato e che non vivrai per raccogliere.
Afferma che le foglie quando si decompongono diventano fertilità.
Chiama questo "PROFITTO". Una profezia così si avvera sempre.
Poni la tua fiducia nei 5 centimetri di humus che si formeranno sotto gli alberi ogni mille anni".
Wendel Berry (manifesto del contadino impazzito, trad. Giannozzo Pucci)
Elena Guerrini, Orti insorti, Stampa Alternativa.
Letizia Bernazza, Frontiere di teatro civile, Editoria & Spettacolo.
Davide Biolghini, Il popolo dell’economia solidale. Alla ricerca di un’altra economia, Emi.
Gabriele Bindi, Il teatro vicino alla terra, AAM terra nuova, agosto 2008.
Giuseppe Ortolano, La cultura insorge e canta le vecchie culture, “ Il Venerdì di Repubblica”, 22 agosto 2008.
Laura Antonimi, Nell’orto di Elena crescono pagine di vita contadina, “Corriere della Sera” (Firenze), 6 gennaio 2010.
Severo Marco, Grana e lambrusco per entrare. Al Museo Cervi
torna il baratto, “la Repubblica” (Parma), 14 luglio 2009.
Federico Raponi, Andiamo tutti a veglia… a Manciano dove il teatro si fa paese, “Liberazione”, 23 settembre 2008.
Massimo Marino, I giorni del cibo, “Corriere della Sera” (Bologna), 24 aprile 2010.
BP2010 La fusione Teatro Nuova Edizione/Teatro delle Moline e Nuova Scena-Arena del Sole-Teatro Stabile di Bologna Un nuovo progetto culturale di Paolo Cacchioli e Luigi Gozzi
Paolo Cacchioli, direttore artistico Arena del Sole
La stima e la collaborazione che hanno sempre caratterizzato i rapporti tra Teatro Nuova Edizione/Teatro delle Moline e Nuova Scena - Arena del Sole - Teatro Stabile di Bologna hanno portato oggi alla decisione di integrare il TNE/Moline e il suo patrimonio artistico nel progetto culturale di Nuova Scena - Teatro Stabile di Bologna.
Questa sicuramente è una significativa novità nel panorama teatrale cittadino e non solo e rappresenta un evento molto importante per il nostro stesso teatro poiché è la prima volta che affrontiamo la problematica di integrare nella nostra attività artistica e imprenditoriale il patrimonio storico e le attività di un’altra struttura. Anche se di piccole dimensioni a livello quantitativo si tratta di una realtà di grande rilevanza culturale per la nostra città, riconosciuta per la sua qualità artistica anche in ambito nazionale. Va considerato comunque che la collaborazione tra il nostro teatro e il Teatro Nuova Edizione, e in particolare con il suo fondatore e leader storico Luigi Gozzi e con Marinella Manicardi, è sempre stata attiva attraverso la condivisione delle linee culturali e anche, più concretamente, attraverso azioni promozionali e collaborazioni nella realizzazione di progetti. D’ora innanzi lavoreremo insieme anche per la realizzazione dei programmi produttivi, delle ospitalità, dei laboratori teatrali previsti per il 2006 e infine sui progetti di promozione della nuova drammaturgia e delle compagnie giovani, distribuendo l’attività negli spazi della Sala Grande, della Sala InterAction, del Chiostro dell’Arena del Sole e del Teatro delle Moline.
Bologna, 19 gennaio 2006
dalla comunicazione di Luigi Gozzi alla Conferenza stampa
Le ragioni che hanno spinto me e Marinella Manicardi e tutt’intero Teatro Nuova Edizione a rivolgerci a Nuova Scena per integrare il nostro lavoro e la nostra attività più che trentennale con quello della loro impresa sono state dettate, come succede spesso in questi casi, da considerazioni al negativo e da altre al positivo.
Al negativo bisogna ascrivere il crescente appesantimento burocratico del lavoro teatrale che di volta in volta rende difficile, complessa e pesante l’attività scenica di una piccola impresa quale è sempre stato il Teatro Nuova Edizione.
Un’altra ragione negativa più specifica riguarda le mie personali condizioni di salute: non tanto o non solo l’età, quanto la malattia da cui sono affetto da più di un decennio e che nel quotidiano è di ostacolo al mio impegno.
D’altra parte, e cioè al positivo, il TNE e Nuova Scena hanno da tempo buoni rapporti di compresenza nella città – anzi in una zona della città – e in specifici casi di buona collaborazione; ricordo, una per tutte, l’occasione di Bologna 2000.
BP2010 Gli Amici di Sentieri selvaggi, dalla community all'autofinaziamento. Una buona pratica dalla musica di Andrea Minetto – Sentieri selvaggi
L'attività di fund raising e di coinvolgimento dal basso del pubblico potenziale è attualmente di uso comune in molte istituzioni culturali e artistiche internazionali. In Italia questa consuetudine non è ancora particolarmente sviluppata per diversi motivi, tra i quali innanzitutto la mancanza di incentivi legislativi e fiscali ad hoc, ma anche le modalità di richiesta del sostegno che spesso rischiano di sfociare nella domanda di pura "elemosina".
Sentieri selvaggi ha intrapreso un percorso di autofinanziamento con il progetto "Amici di Sentieri selvaggi" con lo scopo di rendere l'Associazione sempre più indipendente dal sistema del finanziamento pubblico ora in grave crisi, e nel contempo di coinvolgere maggiormente il pubblico nelle proprie attività.
Il progetto "Amici di Sentieri selvaggi" è nato nel 2007 in occasione del decennale della fondazione dell'Associazione Culturale Sentieri selvaggi e nel corso degli anni successivi è stato portato avanti con diverse azioni mirate alla creazione di una vera propria comunità per la musica contemporanea.
Lo scopo dell'iniziativa è duplice: mira infatti non solo a consolidare una presenza di pubblico numericamente costante e significativa ai concerti e alle manifestazioni promosse da Sentieri selvaggi ma anche a generare una quota di auto-finanziamento che sia significativa per lo sviluppo dell'attività dell'Associazione. Il progetto negli anni 2007/08 ha riscosso una discreta adesione sia in termini numerici che di donazioni.
Nel 2009 però, grazie a un importante contributo della Fondazione Cariplo nel quadro di un bando rivolto al miglioramento gestionale di enti teatrali e musicali, si è potuto sviluppare con maggior organicità una serie di benefici concreti per coloro che decidono di sostenere l'attività di Sentieri selvaggi: si sono realizzati infatti prodotti editoriali specifici a tiratura limitata in omaggio agli Amici e sono stati organizzati momenti conviviali e di approfondimento con i protagonisti dei concerti. Per aumentare il numero effettivo degli Amici è stata inoltre potenziata la strategia comunicativa svolta dall'Associazione sul web, con l'apertura e il potenziamento dei principali strumenti di social networking.
Lo sviluppo del progetto "Amici di Sentieri selvaggi" si sta dimostrando una pratica utile e "necessaria" per aumentare la quota di auto-finanziamento dell'attività artistica e si è inoltre rivelato uno strumento validissimo per l'ampliamento del bacino di pubblico.
Ci sembra quindi utile poter condividere questa esperienza affinché possa rappresentare uno spunto di riflessione per gli operatori del settore, non solo musicale, come stimolo di sviluppo della propria attività e soprattutto della propria indipendenza.
Milano, 7 gennaio 2010
BP2010 Ritorno in Senegal. Quando spuntano le ali Formazione, produzione, circuitazione di uno spettacolo in Senegal di Massimo Luconi
un progetto di Appi - Milano
realizzato con il contributo di Regione Lombardia
in collaborazione con Compagnia Bousaana e Alliance Francaise (Ziguinchor Senegal)
ed inoltre con la collaborazione di Università degli Studi di Milano-Bicocca
Direzione artistica Massimo Luconi
Direzione organizzativa Sandra Cristaldi
con
Moussa Badji, François Coly, Ngone Gueye
assistente Cinzia Galliani
L’obiettivo del percorso di formazione, durato circa tre anni, è stato quello di sviluppare le capacità progettuali e artistiche dei giovani senegalesi in campo teatrale, incrementando la formazione del mestiere dell'attore e inoltre le loro competenze organizzative e tecniche.
La parte finale del progetto è stata la produzione e messa in scena, in maniera qualificata e professionale, di uno spettacolo realizzato per la parte artistica, tecnica e organizzativa da giovani attori e tecnici senegalesi.
La prima fase si è svolta nel novembre 2006 a Ziguinchor, con la direzione artistica di Massimo Luconi e la partecipazione di Sandra Cristaldi per la parte organizzativa e Mauro Forte per fonica e luci e ha coinvolto circa 60 giovani attori e tecnici.
Nel giugno 2007 si è svolta la seconda fase in Italia presso l'Università degli Studi di Milano - Bicocca a Milano, con un gruppo selezionato di 3 giovani attori e 3 organizzatori e tecnici che ha lavorato per due settimane insieme a studenti italiani che frequentavano un master sull'organizzazione dello spettacolo.
Il laboratorio è continuato con altre sessioni in Senegal nel novembre 2008 e maggio 2009 ed è stato incentrato sull’analisi e la messa in scena di un testo di autori africani” Quando spuntano le ali” che sviluppa tematiche estremamente attuali come il rapporto fra tradizione e modernità nell’Africa di oggi.
Dopo tre anni di laboratorio lo spettacolo si è confrontato con la realtà teatrale italiana, debuttando in anteprima l’ 8 luglio 2009 a Milano alla scuola civica di teatro Paolo Grassi, e quindi in Toscana, a Vaiano all’interno del festival Taccuini e a Scandicci nella rassegna Trasmigrazioni ideata dalla compagnia Kripton.
Dopo il confronto con la realtà teatrale italiana, nel novembre 2009 lo spettacolo è stato riallestito a Dakar e con una tournee in alcune città del Senegal e in Gambia E’ prevista una vita futura dello spettacolo in Francia, dove il teatro africano viene normalmente rappresentato.
BP2010 Un punto di non ritorno. La pratica costruzione dell'impossibile Kilowatt, l’energia del nuovo teatro di Teatri della Contemporaneità (Davide D'Antonio e Roberta Niccolai)
Dal 29 al 31 luglio 2009 si sono riuniti a Sansepolcro (Ar) oltre 100 operatori teatrali italiani: direttori artistici e organizzativi di teatri e festival, nonché curatori di rassegne, oltre a qualche compagnia, tutti impegnati nella diffusione della creazione contemporanea. L’occasione è stato il convegno “Vietato parlare dell’aurora, Proposte concrete per il lavoro delle giovani compagnie e dei teatri e festival che le programmano”, inserito all’interno del festival “Kilowatt, l’energia del nuovo teatro”.
Dopo tre giorni di relazioni e dibattiti, ma soprattutto di gruppi di lavoro ristretti, nei quali ogni operatore si è potuto confrontare con altri colleghi sulle proprie pratiche d’azione, è emerso un panorama nazionale profondamente frastagliato e disomogeneo. Accanto a piccole strutture molto attive e orgogliosamente fiere della loro alterità, coesistono grandi teatri e circuiti che si occupano, seppure in maniera non esclusiva, di nuovo teatro e creazione contemporanea, e poi festival e vetrine che stanno crescendo di anno in anno, teatri stabili d’innovazione che non hanno rinunciato alla loro missione di farsi promotori di un cambiamento del sistema, piccole e medie strutture profondamente radicate nei propri territori d’appartenenza che affiancano all’ospitalità e alla valorizzazione del nuovo un meccanismo di laboratori e azioni formative che permettono la sussistenza del loro progetto complessivo. Queste differenze – è stato detto – sono una ricchezza, dimostrano che il sistema italiano dei teatri della contemporaneità esiste in quanto tale ed è profondamente duttile e in grado di rispondere alle sue croniche ristrettezze economiche con idee, fantasia, arte di arrangiarsi, senso del risparmio, tutte qualità preziose nell’epoca della crisi.
Spesso si guarda alla cultura, e in particolare allo spettacolo del vivo, come spreco. Al di là della considerazione puramente politica su quanto divenga povero un Paese che non investe in cultura, è certo che non sono i teatri che programmano la contemporaneità i responsabili di un eventuale sperpero delle risorse. Piuttosto è vero il contrario: i teatri della contemporaneità costano pochissimo alla collettività, e quel poco viene regolarmente fatto fruttare molto.
Dentro e intorno al sistema teatrale italiano sembrano farsi strada bisogni nuovi e differenti rispetto a quelli emersi nei decenni scorsi. Primo fra tutti, il ritorno al pubblico. I teatri della contemporaneità, pur consapevoli della loro vocazione minoritaria, sono tutti alla ricerca di formule e modalità di lavoro che aprano lo spettacolo dal vivo all’incontro con la società circostante e, in generale, con il mondo. E così, assistiamo al finire di vecchi modelli – la stagione invernale con gli abbonati, il meccanismo della tournée delle compagnie di giro – e al farsi strada di nuove formule di lavoro, come il sistema delle residenze, oppure i centri di programmazione che si prendono cura del lavoro di un certo numero di giovani compagnie, con un’attenzione che dura nel tempo.
Di fronte a esigenze e bisogni nuovi, la gran parte degli operatori riuniti a Sansepolcro ha concordato nell’affermare che è una responsabilità degli operatori (direttori artistici, organizzativi e curatori) farsi carico di una proposta concreta di cambiamento del sistema teatrale italiano, che arrivi a coinvolgere anche le giovani compagnie.
Per intervenire in maniera attiva in questo cambiamento, è necessario che il sistema italiano dei teatri della contemporaneità arrivi a parlare in maniera più unitaria di quanto non riesca a fare adesso.
Pertanto, il primo obiettivo individuato è stata la costituzione di un soggetto che abbia la forza di essere un interlocutore riconosciuto da tutti, per portare avanti istanze ritenute comuni all’intero sistema.
Abbiamo immaginato un percorso di lavoro, condiviso per adesso da 26 operatori, ma che si sta infoltendo sempre di più, che porti alla convocazione di una sorta di “Stati Generali dei Teatri della Contemporaneità” in cui venga votata la costituzione di un soggetto unitario nazionale che rappresenti il nuovo teatro.
Gli obiettivi che sin da ora sono stati individuati per un coordinamento di questo genere sono:
1 – Creare un organismo realmente rappresentativo e concretamente influente, che faccia emergere l’esistenza di un sistema che già c’è ma non riesce mai a parlare con una voce unica;
2 – Individuare strumenti di valorizzazione della qualità, della professionalità e della continuità dei progetti (fuori dalla politica degli “eventi”);
3 – Difendere i diritti dei lavoratori dello spettacolo, la loro dignità professionale e la loro rappresentanza della quale oggi nessun sindacato si fa concretamente carico;
4 – Favorire la conoscenza delle normative vigenti e intervenire su quelle che si stanno immaginando per il futuro;
5 – Formulare delle proposte relative alle modalità di finanziamento del sistema teatrale italiano, nonché al monitoraggio dei risultati ottenuti con tali finanziamenti;
6 – Incentivare la diffusione e il riconoscimento di quelle pratiche (come le residenze) che il nostro teatro sta già attuando da tempo;
7 – Avvicinare tra loro i territori e le esperienze territoriali;
8 – Redigere un codice deontologico degli operatori italiani che garantisca alle giovani compagnie il rispetto di alcuni parametri minimi sotto i quali non è dignitoso che gli operatori facciano proposte di ospitalità.
A partire da settembre 2009, gli operatori dei Teatri della Contemporaneità sta lavorando su queste idee per formulare proposte concrete, specifiche e approfondite, relative alle modalità di formazione e ai futuri compiti di un organismo come quello che si sta immaginando.
Questo percorso ha effettivamente preso avvio, con un’energia umana e un rigore tecnico e di studio che a noi sembrano belli e necessari a raggiungere risultati che possano essere utili per tutti.
Al momento sono 26 le persone che hanno aderito al tavolo di lavoro, abbiamo fatto un primo incontro tra il 6 e l’8 novembre scorsi, ospiti di Massimo Paganelli a Castiglioncello, e un secondo incontro il 19 e 20 dicembre scorsi, ospiti del Teatro Furio Camillo, a Roma. Il prossimo incontro si terrà tra Milano e Campisrago, in Lombardia, il 14 e 15 marzo 2010.
Al momento, tra un incontro e l’altro, lavoriamo in sotto-gruppi di lavoro che si occupano dei seguenti temi:
• Identità e Manifesto dei Teatri della Contemporaneità;
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• Analisi e proposte per un nuovo modello di finanziamento dello Spettacolo dal vivo in Italia;
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• Realizzazione di un codice deontologico dei curatori / operatori teatrali italiani;
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• Analisi e proposte per la tutela dei diritti dei lavoratori dello spettacolo.
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Ci siamo fissati come obiettivo quello di un incontro di nuovo comune e collettivo, che vorremmo chiamare Stati Generali dei Teatri della Contemporaneità, da convocare per i primi giorni di settembre 2010, in luogo da definire.
Durante l’anno, queste proposte saranno portate a conoscenza di tutti gli operatori presenti a Sansepolcro e di quelli che vorranno condividere questo percorso. L’obiettivo è la convocazione di un nuovo incontro generale dove si costituisca questo nuovo soggetto, nella forma che sarà ritenuta giusta ai più.
Un progetto così ambizioso – si è detto –, tante volte ipotizzato, ma mai realizzato, potrà avere una qualche possibilità di successo solo se il percorso di avvicinamento e di fondazione saprà essere plurale e condiviso.
BP2010 Festival Voci di Fonte & Premio Lia Lapini Un progetto di accompagnamento per giovani compagnie di Elena Lamberti
Il Premio Scrittura di Scena Lia Lapini organizzato dal Festival Voci di Fonte di Siena è giunto quest’anno alla terza edizione.
Il Premio, dedicato alla memoria del critico teatrale Lia Lapini, docente di Storia del Teatro presso le università di Siena e di Firenze, da sempre impegnata nel sostegno delle giovani realtà italiane, intende raccogliere l'eredità del suo sguardo critico attento e lungimirante sul presente del teatro, cercando giovani artisti per aiutarli a sviluppare la propria progettualità e a portare il proprio talento all’attenzione del pubblico e della critica.
Il Premio Scrittura di Scena Lia Lapini vuole essere uno strumento di indagine su come i giovani artisti scolpiscono il tempo della scena e ricercano le visioni più intense e gli spunti più innovativi.
Si tratta di un premio di produzione finalizzato alla realizzazione di nuovi spettacoli che Voci di Fonte si impegna a sostenere nel percorso produttivo della durata di un anno (dalla selezione al debutto).
Il Festival aiuta, inoltre, i vincitori nella ricerca di altri co-produttori e li assiste nella nascita e nella ‘vita’ dello spettacolo stesso fino e oltre il suo debutto grazie ad un percorso di accompagnamento, concordato fra gli operatori del Festival e i membri della compagnia secondo le loro esigenze.
Possono essere attivate, quindi, residenze teatrali a Siena, nella sala Lia Lapini, incontri con operatori teatrali e con i membri della giuria per visionare lo stato del progetto, un piccolo corso di formazione sulla distribuzione e sull’amministrazione di compagnia.
Il bando per partecipare al Premio è scaricabile dal sito www.vocidifonte.org.
Le compagnie che vogliono partecipare possono inviare i loro progetti all’indirizzo presente nel bando, viene fatta una prima selezione da parte dei membri della compagnia LaLut, organizzatrice del Festival, e, successivamente, una giuria esterna visiona i progetti. La selezione finale è inserita all’interno del Festival, con una dimostrazione dal vivo di circa 15 minuti alla presenza della giuria, che era composta, lo scorso anno, da Filippo De Dominicis (regista de laLut e direttore artistico del Festival Errances, Conques, Francia), Dario De Luca (regista e direttore artistico del Festival Primavera dei Teatri di Castrovillari), Simona Gonella (direttrice artistica Cerchio di Gesso/Oda Teatro di Foggia), Fernando Marchiori (critico teatrale), Debora Pietrobono (direzione del Progetto Punta Corsara a Scampia - membro del CdA del Teatro di Roma), Alfonso Postiglione (attore), Luigi Ronda (direttore artistico del Festival Il Grande fiume - Emilia Romagna), Attilio Scarpellini (critico teatrale), Isabella Valoriani (operatore culturale - Teatro Affratellamento (FI) - Fabbrica Europa (FI).
BP2010 Alla ricerca di un’armonia: le radici di una scelta Altri Percorsi 2006-2009: Città luogo d’incontro di Maria Grazia Panigada
Tra il 1303 e il 1305 Giotto, su incarico di Enrico degli Scrovegni, affresca a Padova la Cappella intitolata a Santa Maria della Carità, dando vita ad un ciclo pittorico destinato a diventare uno dei massimi capolavori dell'arte occidentale. Con un’incredibile rapidità di esecuzione, le pareti accolgono le Storie di Cristo e della Vergine, mentre in basso una fascia, con finti quadri marmorei, incornicia le rappresentazioni dei Vizi e delle Virtù. Tra queste rappresentazioni monocrome si trova la Giustizia, figura femminile che assisa in trono regge i piatti della bilancia. Al di sotto, la sapienza medioevale, per sintetizzare in pochi tratti gli esiti della retta autorità, rappresenta tre fanciulle che danzano e suonano. L’iconografia viene ripresa da Ambrogio Lorenzetti nel magnifico affresco della sala della Pace del Palazzo Comunale a Siena (1338-1339): al centro degli effetti del Buon Governo nella città, l’artista dipinge delle giovani donne intente a danzare, suonare e cantare. I mestieri, gli uomini affaccendati negli affari, i cantieri dove si edifica la città sono in secondo piano, davanti ci sono loro, le fanciulle che intrecciano una danza per comunicare al visitatore il senso dell’armonia raggiunta.
Questa immagine di quasi settecento anni fa può servire a capire le motivazioni per cui un’Amministrazione Pubblica, il Comune di Bergamo, ad un certo punto decida di rispondere ad un problema di emergenza sociale anche tramite l’elemento culturale. E risaputo che l’arrivo di molti immigrati stranieri nelle nostre città richiede un’attenzione specifica dei servizi, ma è altrettanto vero che l’incontro sul piano della cultura e dell’arte immediatamente sovverte le percezioni, e ciò che era ostacolo diventa scambio di saperi, risorsa aggiuntiva. Dopo i primi due anni (Tracce straniere, 2006 e Città luogo d’incontro, 2007), i progetti sono proseguiti su temi di interesse globale (Fra case di tutti i giorni, 2008 e Foto di famiglia ed altri incidenti, 2009), senza più un’attenzione specifica al tema dell’immigrazione: ormai i gruppi che si erano formati, hanno proseguito naturalmente i propri laboratori, dando come dato naturale la multi etnicità iniziale.
Un anticipazione si era avuta nella stagione 2004-2005 con l’avvio di alcune proposte di coinvolgimento del territorio. In particolare si era lavorato intorno allo spettacolo La Leggenda Aurea di Tonino Conte con le bellissime scenografie di Emanuele Luzzati (Teatro della Tosse) . Il testo medioevale con i suoi racconti, che fanno parte di un bagaglio che la cultura dell’occidente si porta dietro ed è solo all’apparenza nascosto, ha permesso di creare una progettualità di esplorazione sia in termini di contenuti, sia in termini di relazioni di territorio (ventuno sono stati gli enti e le associazioni che hanno partecipato). È nato così un progetto pilota che poi è proseguito negli anni successivi: lo spettacolo teatrale diventa input culturale per realizzare una rete di iniziative. Sempre dello stesso anno una rete di progetti sulla cultura rom e un viaggio fra poesia, arte e musica in quattro monasteri di clausura della città.
In gioco è la vita della città come luogo di sapere condiviso e di crescita sociale. La scelta di una cultura diffusa che non privilegia grandi eventi, ma percorsi mirati ad alcuni ambiti del territorio, promuove possibilità di continuità per operare davvero dei processi di cambiamento. Fattore essenziale è la stabilità amministrativa che ha permesso una progettualità quadriennale, tempo minimo necessario per pianificare una rete di interventi collegati da una politica culturale unitaria.
Negli anni si è innescato un circolo virtuoso: se nei primi anni (2005-2006) la proposta era arrivata dal Teatro Donizetti e dall’Assessorato alla Cultura e Spettacolo del Comune di Bergamo, negli anni successivi sono i soggetti del territorio a chiedere di essere coinvolti e a proporsi come partner di lavoro.
Non è un caso che il motore propulsore sia un teatro ed Altri Percorsi, una rassegna teatrale, perché il teatro è un mezzo che per sua natura rivela le potenzialità di un altrove, a volte non prevedibile prima. In teatro anche un singolo il gesto si carica di attesa, è scrutato dagli occhi degli spettatori, diviene, nella finzione, altro. Fingere, brutto verbo che risveglia nella nostra mente immagini di nascondimenti, tradimenti, la paura di dirsi per quello che si è, ma verbo che, nella sua origine etimologica, racchiude significati sorprendenti: l’idea del dare forma, del plasmare, in altre parole della possibilità data alla creatura di creare. L’atto teatrale è icona di corpi e voci che rimandano ad altro, ad un mondo interiore che non è mai uguale a se stesso perché ogni volta incontro unico ed irripetibile: attori, pubblico non si ripeteranno mai uguali a se stessi... Lo stupore del teatro sta nell’incontro diretto, immediato che non si può rimandare, ma che sempre rievoca un altrove, assenza e presenza al tempo stesso. È questo è ancora più vero in un teatro nato dalla città per raccontarsi, come quello sperimentato in questi anni durante le attività collaterali di Altri Percorsi, un teatro che raccoglie ed ascolta le storie individuali e le storie collettive, racconta i gruppi, ma anche i quartieri, un teatro che alla fine può sfociare nella festa (2 giugno 2007, Carnevale 2009) per un bisogno dirompente di comunicazione, perché teatro è innanzitutto l’urgenza dell’incontro, la necessità di dire ad altri ciò che nel proprio percorso si è incontrato e scoperto.
Il teatro, in fondo, non si occupa della verità, o meglio si occupa delle possibili verità, e questo lo fa essere uno strumento prezioso per la creazione di una cultura della tolleranza forse per questo nell’antichità le grandi città democratiche avevano sempre al centro un teatro.
Il modello, che in questi anni si è andato precisando affonda le proprie radici nelle esperienze di animazione teatrale degli anni Settanta-Ottanta e nel teatro sociale degli anni Novanta. La sua originalità sta nella diffusione sul territorio e nella ricerca di continuità fra teatro e altri momenti di formazione culturale: il teatro è fattore fondante delle attività proposte, ma fin dall’inizio è affiancato, grazie alla ricca collaborazione di enti culturali, da incontri e percorsi proposti nei musei o itinerari artistici. Elemento unificatore diviene il tema che permette ogni anno di creare una politica culturale e teatrale ben definita. La scelta tematica facilita sinergie fra realtà diverse e permette ai cittadini di leggere i singoli eventi proposti come parte integrante di un progetto unitario. Ne nasce una triangolazione fra l’istituzione (l’Assessorato alla Cultura del Comune di Bergamo, attraverso l’azione del Teatro Donizetti), il territorio (associazioni, scuole, quartieri…) e gli enti (privato e pubblico) con competenze specifiche (in ambiti teatrali e culturali).
Certamente il Teatro Donizetti ha avuto la fortuna di trovare un territorio, quello bergamasco, ricchissimo di realtà teatrali, molte delle quali impegnate per vocazione nell’ambito della formazione. Lo sforzo è stato quello di valorizzare ogni compagnia rispetto agli ambiti privilegiati dalla propria poetica e dalla propria attenzione educativa, ma nello stesso tempo provocare, con nuove proposte, itinerari inediti ed inusuali, scommesse nuove rispetto a percorsi professionali consolidati nel tempo. È il caso del percorso tutto al femminile compiuto dal Teatro del Vento, a partire dal tema della maternità con un gruppo di donne per arrivare all’intenso progetto compiuto con le suore domenicane del monastero di clausura di Matris Domini, o il comune confronto fra le compagnie ed un’artista di arti visive, Marcello Chiarenza, per il Carnevale, momento integrante dei progetti di Altri Percorsi 2009.
Una rassegna teatrale ed una rete di progetti
Partendo dalla scelta di approfondire il tema dello straniero l’Assessorato alla Cultura e Spettacolo del Comune di Bergamo dà avvio nel 2005 ad una rete di progetti, dal titolo Tracce straniere. Il lavorio nasce ancorato ad una rassegna teatrale ormai ben radicata nel nostro territorio, gli Altri Percorsi. La rassegna era nata nel 1980-1981 su una geniale intuizione di Benvenuto Cuminetti con la volontà di inserire nella programmazione di un teatro Comunale la sperimentazione, permettendo così a Bergamo di divenire una delle prime città in Italia dove, in modo sistematico, il teatro di ricerca viene presentato con la stessa dignità del teatro tradizionale.
Va precisato che dal 2000-2001, anno in cui la sottoscritta ha assunto la direzione artistica di Altri Percorsi, il cartellone ha un tema specifico di riferimento annuale. Questa scelta ha permesso da una parte il confronto su unico argomento da parte di realtà teatrali anche molto diverse fra loro, dall’altra, fin dall’inizio, ha creato possibilità di approfondimento .
I temi sono scelti di anno in anno, rispetto ai tantissimi spettacoli visti in giro per l’Italia. Ovviamente la priorità nella scelta è data dalla qualità artistica del prodotto teatrale e, solo successivamente, dal legame tematico che emerge via via che i titoli si vanno definendo.
Con questa precisa modalità per la stagione 2005-2006 viene scelto il titolo Tracce straniere: in cartellone sono ospitati spettacoli che parlano di immigrazione, ma anche di diversità, perché l’idea di fondo è che esistono stranieri di terra, ma anche stranieri per pensiero, stranieri per la propria specificità. Ci interessa approfondire il tema perché essere stranieri è una cosa che riguarda tutti, che serve a ricordare come tutto ciò che è dato non è di nostro possesso, ma dono da difendere dall’intolleranza, dal pregiudizio, dalla guerra… In cartellone c’è anche uno spettacolo come le Troiane di Euripide, uno dei testi più belli mai scritti per dare voce al canto e al dolore dei vinti, che dice la follia della guerra. Da questo input tutto teatrale decidiamo che la scommessa è alta e che il Teatro Donizetti è pronto a giocare il proprio ruolo sul territorio. L’Assessore alla Cultura, Enrico Fusi, dal cui assessorato il Teatro Donizetti dipende, decide di scommettere su questo tipo di attività ed accoglie di buon grado il tema, tanto da riproporlo come tema unificante per l’assessorato nell’anno successivo (2007). Per questo motivo l’argomento viene mantenuto anche nel 2007, grazie anche a convergenze di spettacoli favorevoli.
Alle spalle, come si è detto, si aveva un anno (2005) in cui avevamo già sperimentato alcune esperienze di lavoro di rete che ci rassicurano sulla possibilità che la città possa rispondere alla provocazione del teatro: la rassegna teatrale diviene luogo di riflessione per la città, attivando percorsi artistici e culturali nei quartieri, nei musei, presso enti ed associazioni, scuole e biblioteche…
Criteri fondamentali: condivisione e continuità
I criteri principali di lavoro vengono specificati fin dal primo anno e nascono dall’esperienza che ho maturato sia in ambito teatrale (come animatrice e studiosa di teatro ragazzi), che in ambito culturale e sociale (progetti museali, coordinamento di tavoli territoriali, formazione adulta nell’ambito del volontariato, conduzione di corsi sull’educazione alla cittadinanza…).
La prima azione è il coinvolgimento di ogni singolo ente nel rispetto e nella valorizzazione delle sue specifiche competenze. Questo aspetto è molto delicato, soprattutto, durante il primo anno. Poi, negli anni successivi, la conoscenza reciproca permette di dare per scontati alcuni passaggi iniziali e di iniziare immediatamente la fase di programmazione. Il progetto viene studiato insieme dalla sottoscritta, rappresentante del Teatro Donizetti, con il responsabile e gli operatori dell’ente coinvolto. Molto tempo è dedicato alla fase di progettazione condivisa, per poi proseguire nell’affiancamento dell’esperienza in itinere.
Durante il primo anno al centro sono le singole realtà in sinergia con il lavoro compiuto dal teatro, e solo in un secondo momento si avviano intrecci fra i vari progetti. Nel caso di iniziative legate ai quartieri, però, si cerca fin dall’inizio, di creare collaborazione fra più enti.
Non avere prefigurazioni del lavoro da compiere, nella fase iniziale, permette una costruzione il più possibile attinente alle vere esigenze della realtà che si andrà a coinvolgere.
Questo discorso vale, a maggior ragione, per quanto riguarda i laboratori (teatro e musica), dove un margine di libertà deve essere mantenuto anche durante il percorso, per poter cogliere le urgenze e le spinte creative che emergono dal gruppo, fino alla fase finale in cui un’eventuale spettacolo deve nascere dall’esigenza di comunicazione del gruppo e non per obbligo istituzionale.
Se la sperimentazione iniziale ha permesso di riconoscere la fattibilità della rete culturale, subito è emerso, come elemento fondamentale, il bisogno di poter dare continuità alle relazioni ed ai percorsi intrapresi. Questo, se da una parte dà visibilità e significato ai progetti per il territorio, a maggiore ragione diviene importante per l’impegno dei singoli e del loro riconoscimento identitario di appartenenza all’impegno collettivo.
Intrecci di saperi nella città
Ciascuna delle esperienze realizzate in questi quattro anni meriterebbe uno spazio di riflessione, perché ogni proposta ha una sua specificità, un proprio percorso di ricerca e di approfondimento. Nelle pagine che seguono abbiamo scelto alcuni esempi che ci sembravano significativi del percorso compiuto.
Credo però che anche i semplici numeri, sebbene non riescano a dare l’idea dell’originalità di ciascuna delle iniziative compiute, possano esemplificare la complessità su cui abbiamo operato in questi anni.
Nel 2005-2006, anno di avvio del progetto riguardante il tema dello straniero sono stati coinvolti 48 enti ed associazioni, insieme con i quali sono stati portati avanti 23 progetti e sono stati offerti alla città circa 70 appuntamenti (mostre, conferenze e seminari, una serie di percorsi storico-artistici, interventi didattici nei musei, spettacoli, percorsi teatrali e cinematografici). Nel 2006-2007 gli enti coinvolti sono stati 65 (solo una realtà non ha proseguito, mentre se ne sono aggiunte 18), 31 i progetti (8 in più rispetto all’anno precedente).
Per questi primi due anni l’importante contributo offerto dalla Fondazione della Comunità Bergamasca ha potuto garantire un ampio ventaglio di proposte. A partire dal 2008, per ragioni economiche si è dovuto ridimensionare il numero di progetti, nonostante numerose siano state le richieste prevenute da nuovi enti. Nella scelta si è privilegiata la continuità di chi già aveva aderito al progetto negli anni precedenti e i lavori con una dimensione formativa.
In questi anni la scelta di fondo è andata nella direzione opposto dei cosiddetti interventi “a pioggia”, inutile pensare ad una rotazione di enti, meglio dare la possibilità di proseguire negli itinerari intrapresi consolidando dinamiche e processi. Questo vale soprattutto, come appena detto, in ambito formativo, come si vedrà meglio nei singoli esempi di costruzione di laboratori teatrali rivolti alle fasce più deboli e con meno opportunità.
Nel 2008 la scelta di un tema come quello della casa (Fra case di tutti i giorni), di valenza universale, ha permesso una continuità in linea con gli anni precedenti. Lo sforzo progettuale si è ripetuto nella stagione 2009, legata al tema della famiglia (Foto di famiglia ed altri incidenti).
In alcuni casi i progetti si sono interrotti per un circolo virtuoso scaturito dall’esperienza: il raggiungimento dell’autonomia. È il caso ad esempio di una scuola/oratorio che coinvolge un gruppo di ragazzi con disagi psico-sociali: riconoscendo nel laboratorio teatrale un valido strumento formativo, riescono a trovare finanziamenti e risorse aggiuntive per poter proseguire da soli l’esperienza.
La festa: l’incontro nella città
Alcune delle proposte fatte nascono immediatamente con un intento comunicativo, è il caso degli itinerari culturali ed artistici nella città, degli incontri con autori ed artisti, dei percorsi di approfondimento nei musei… Per quanto riguarda, invece, l’esperienze dei laboratori teatrali ed artistici, l’incontro con il pubblico scaturisce da un’esigenza di cui il gruppo si fa carico in itinere, con modalità e tempi propri di ogni singola realtà. La libertà è elemento fondamentale della scelta, scelta che nasce dal dialogo fra il gruppo, l’artista di riferimento e, ancora una volta, il Teatro Donizetti. In questa fase il mio ruolo è sempre stato principalmente di ascolto, per poi valorizzare nel momento decisionale la scelta compiuta. Ad esempio programmando lo spettacolo finale in un momento significativo per il quartiere o mettendolo in rete con altri appuntamenti.
Vi sono state poi due occasioni in cui la città ha visibilmente accolto la fase conclusiva del lavoro compiuto: la festa del 3 giugno 2007 e l’evento centrale del Carnevale 2009.
Se ogni percorso ha avuto la sua conclusione all’interno del proprio luogo di appartenenza (ad esempio nei quartieri o nelle sedi delle associazioni), al termine del primo biennio di lavoro sul tema dello straniero (Tracce straniere 2006 e Città luogo d’incontro 2007) si è pensato di realizzare un momento comune di restituzione da proporre a tutta la cittadinanza. È nata così l’idea di proporre una grande festa il 3 giugno del 2007 per le vie e le piazze di Città Alta.
Un giornata tersa, luminosa, in mezzo a due giornate cariche di nuvoloni e di pioggia, un lavoro enorme assunto con grande generosità da compagnie teatrali, formatori, educatori, animatori, bambini, adulti, insegnanti, musicisti… Ad ogni angolo della città antica, lo spettatore o il viandante poteva trovare qualcosa di inaspettato, frutto di un lavoro di mesi, ma offerto così sulla piazza con leggerezza e con gioia, con l’emozione e lo stupore che è proprio delle cose che nascono dalla presa in cura di sé e degli altri. È stato un incontro che ha assaporato l’ascolto reciproco. Nel tempo di un pomeriggio, a scadenza temporale le azioni si ripetevano, i video ripartivano, i musicisti suonavano, ogni gruppo ha dosato il tempo a propria disposizione per poter dire, fare vedere ciò che era più importante, ciò che era riuscito meglio.
Quindici luoghi della città antica sono stati attraversati e abitati da parate, teatro di strada, spettacoli, proiezioni video, gruppi musicali… L’avvio è dato dal Sindaco della Città che consegna i diplomi di mediatori museali per la galleria d’Arte Moderna e Contemporanea progetto che ha coinvolto trentanove persone, provenienti da ventiquattro paesi diversi: testimoni dell’evento diversi ambasciatori dei paesi d’origine.
Poi la città fa riemergere la cinta sacra del rito, dove le parti vengono confuse e la partecipazione diviene azione diffusa. Luoghi suggestivi sono abitati da significati diversi rispetto alla loro originaria funzione: la polveriera diviene al tramontare del sole, il luogo ancestrale che raccoglie i racconti delle donne sulla nascita, il lavatoio di fine Ottocento fa da riparo ad un ricco banchetto preparato con cura da mani proveniente dai quattro angoli del mondo, la sala Viscontea di origini trecentesche, raccoglie le immagini di bambini che dicono il loro essere figli della complessità, dando voce ad animali di un teatrino immaginario, il terrazzo naturale che dal Chiostro minore di san Francesco si sporge sul colle di Sant’Eufemia verso il lato orientale della città bassa, diventa palcoscenico del Mito del viaggio degli Argonauti da parte di giovani che dalle loro terre hanno ricucito una vita su questa terra bergamasca.
Circa quattromila persone hanno vissuto quella giornata, dimostrando di partecipare con gioia ad un clima di festa: donne e uomini, bambini e bambine, italiani e stranieri, mettendosi in gioco, hanno fatto un pezzo di strada insieme per realizzare momenti d’arte in nome della diversa provenienza o della diversa storia personale.
Molto diversa è la genesi del rapporto nato fra i progetti di Altri Percorsi e il Carnevale 2009. Innanzitutto bisogna spiegare come dal 2006 il Comune di Bergamo ha affidato il Carnevale cittadino alla direzione artistica della prosa ed amministrativa del Teatro Donizetti. Nel 2007 si ha una svolta con Il Trionfo di Cibele - ricostruzione della Mascherata allestita dai nobili bergamaschi nel febbraio del 1733 - si ha la prima esperienza di lavoro di rete fra le compagnie, ognuna delle quali realizza una propria performance a lato della sfilata curata dalla costumista Barbara Petrecca. Nei due anni successivi si decide di affidare ad un artista di arti figurative legato al mondo del teatro il carnevale. Nel 2008 si inaugura Bergamo piazza delle meraviglie, al centro il mondo poetico e fantastico di Antonio Catalano. La gente, nei giorni precedenti la festa, vive una piazza Vecchia trasformata dalla presenza dei Padiglioni delle Meraviglie e dalla Giostra del Tempo. La domenica per il Grande Corteo di Carnevale si riversano per le vie più di cinquemila persone. Ed è in questa occasione che il Carnevale incontra per la prima volta i progetti di Altri Percorsi: due gruppi sono invitati a partecipare. Si tratta di una sorta di restituzione, dopo due anni che il Comune finanzia per loro corsi e sostiene la loro attività, ora è loro chiesto di contraccambiare con la loro presenza. Mentre il gruppo musicale Aquaba nato dall’esperienza dell’Associazione Arcobaleno (centro di alfabetizzazione e di cultura multietnica) propone le sue produzione musicali, il gruppo teatrale di giovani nato dalla collaborazione con il centro EDA e la guida di Albino Bignamini, indossa i goffi costumi disegnati per loro da Catalano e trasporta grandi statue totemiche dell’artista astigiano. A tratti le sculture vengono appoggiate e i ragazzi compiono un gesto semplice ed antico, si avvicinano al pubblico e lo abbracciano. Nessuno si sottrae a quel gesto di vicinanza che commuove. Questo carnevale compie una piccola rivoluzione: la gente diviene parte della festa, non solo osserva meravigliata, ma si lascia coinvolgere, capisce che la festa è sua, è condivisa. Sembra di essere un paese dove ci si conosce e si ha voglia di stringersi la mano, di parlare, di ridere insieme. Non è una festa urlata, ma una festa gentile, fatta di ascolto e di attenzione, e ci si diverte davvero.
L’anno successivo continuiamo in questa direzione, l’artista guida è Marcello Chiarenza, la sua è una poetica imperniata sulla creazione giocosa e fantastica di oggetti dalla forte valenza simbolica. Ma la vera novità è un’ulteriore coinvolgimento della città, proprio a partire dai gruppi nati dai progetti di Altri Percorsi: i ragazzi dei corsi professionali del Patronato San Vincenzo (associazione La Piazza per le attività pomeridiane) costruiscono delle meravigliose meduse fluttuanti che avvolgono di magie le piazza e le strade di Città Alta, i giovani attori del centro EDA, ormai compagnia teatrale No-made, sono trasformati in mosche portatori di sorprese sonore e visive, i ragazzi della Fondazione san Giorgio (centro per il doposcuola e l’attività ricreativa di circa 200 bambini del quartiere più multietnico della città) costruiscono e danno vita ad un fantastico Albero del Pane, mentre i bambini della scuola primaria Calvi provenienti da diversi paesi del mondo, creano una suggestiva sequenza narrativa sul tema della natura nello scorrere delle stagioni. Al loro fianco realtà teatrali del territorio si mettono a servizio a partire dai laboratori che vengono avviati cinque mesi prima del carnevale per la costruzione dei materiali e la preparazione delle performance. Altre realtà partecipano all’evento: scuole di teatro (Erbamil, Teatro Prova, CUT), gruppi di danza e di teatro di strada (le Molecole e il Bilico Teatro), oltre a diversi gruppi musicali (fra cui i confermati Aquaba) e bande.
Oltre duecento persone contemporaneamente, sotto la regia di Fabio Comana, danno vita alla festa.
Questo momento ha dato un senso ed un compimento ai progetti di questi anni, creati per rispondere ad alcune lacune di proposta culturale e formativa, ma ora parte integrante dell’azione culturale ed artistica del tessuto urbano.
La mappatura geografica dei progetti
La distribuzione dei progetti sul territorio aiuta a chiarire l’evoluzione che si è avuta nel corso degli anni. Il primo anno i partner di progetto sono stati:
1) gli enti appartenenti all’Amministrazione Comunale che in qualche modo interagiscono col tema dell’immigrazione, sia per ragioni sociali (es. l’Assessorato ai Servizi Sociali e l’Assessorato alle Politiche Giovanili), che per ragioni culturali (Museo di Scienze, Museo Archeologico, GAMeC, Accademia Carrara, Sistema Bibliotecario Urbano);
2)
3) le realtà che nel loro lavoro si incontrano con il tema dello straniero (i centri EDA, i corsi di alfabetizzazione, associazioni e cooperative).
4)
Nel secondo anno, pur continuando queste collaborazioni, si è accentuato il lavoro nei quartieri, luogo privilegiato dell’incontro fra cittadini italiani e stranieri. In particolar modo si è voluti intervenire nelle realtà più marginali, ad esempio quartieri periferici o ad alto livello di immigrazione. In questa scelta il criterio non è mai stata la visibilità, ma piuttosto la ricerca di senso per chi veniva coinvolto e le possibilità di creare dei ponti con la realtà circostante.
Mentre il primo anno la sollecitazione è arrivata dal soggetto promotore, cioè il Teatro Donizetti, negli anni successivi le richieste di collaborazione sono pervenute dall’esterno, segno di come l’esperienza sia vissuta positivamente e riconosciuta dalla città.
I progetti si possono dividere in due filoni di lavoro, uno riguardante la riflessione culturale intorno al tema dello straniero, ed uno legato alla produzione di laboratori teatrali e musicali. Questa sezione si è rivelata certamente quella di maggiore impatto sia per quanto riguarda il coinvolgimento dei cittadini italiani, che di quelli stranieri: i linguaggi artistici, nella loro vocazione ad una comunicazione globale, hanno permesso di creare momenti di incontro significativi.
Per quanto riguarda, invece, l’utenza del progetto, una buona parte dei laboratori riguarda i bambini (a partire dalla scuola elementare) e i giovani. Il loro protagonismo in realtà veicola la relazione anche del mondo adulto (genitori, educatori, insegnanti, animatori…) attraverso la condivisione del percorso e, soprattutto, nel momento di festa finale. Buona parte delle attività più spiccatamente culturali è rivolta agli adulti, ma siamo riusciti in alcuni casi a coinvolgere anche questo tipo di utenza nei percorsi esperienziali. Nei laboratori è privilegiata la qualità rispetto alla quantità, in tutti i casi si è mantenuto un numero di partecipanti (15/20) che permettesse di svolgere un lavoro accogliente per ciascuno e potesse aiutare la reciprocità di relazione.
Se le sezioni successive presenteranno alcuni progetti per voce degli stessi protagonisti, di seguito vengono esplicitate in termini generali i due filoni di intervento: i progetti culturali e i progetti teatrali-artistici. Vista la complessità non è possibile richiamare per scritto tutto ciò che è stato proposto, per la qual cosa si rimanda ai programmi annuali presenti in Appendice.
I progetti culturali
Di questo filone fanno parte le iniziative promosse dai musei e dagli enti culturali della città. Si è partiti dalla possibilità di rileggere il tessuto urbano attraverso le sue tracce storiche. Così i diversi gruppi di guide operanti nel territorio hanno, da una parte, proposto itinerari nelle vie e negli edifici per riscoprire i segni di presenze straniere nella storia della nostra città, ma d’altra parte hanno anche focalizzato l’attenzione su alcuni luoghi del passato deputati all’incontro, crocevia diversi per chi proveniva da altri territori, come l’accoglienza monastica o la fiera, luogo di intreccio delle vie mercatorie presenti nella provincia. Questi interventi, così come i bellissimi approfondimenti realizzati dal Museo Archeologico o i percorsi iconografici nelle sale della Pinacoteca dell’Accademia Carrara, hanno aiutato a fare emergere i segni vivi di una presenza straniera costante che ciclicamente attraversa la storia e diviene portatrice di evoluzione e cambiamento. La stessa linea è proseguita negli anni successivi sul tema della casa e della famiglia.
In questo filone rientrano anche progetti di coinvolgimento culturale degli stranieri, ad esempio nel Museo di Scienze dove griot ed artisti hanno reso viva la sala etnografica, uno spazio suggestivo dove sono esposti manufatti ed oggetti di grande rilevanza artistica e rituale attribuibili a culture tradizionali del continente africano. Nel 2008-2009 (tema la casa e la famiglia) con il Museo e l’Ufficio Scolastico Provinciale si è avviato un lavoro di ricerca nelle scuole primarie con il posizionamento di nidi e la consegna di schede di rilevamento per mappare la nidificazione degli uccelli in città. O alla biblioteca centrale Tiraboschi dove ai bambini sono state presentate storie di diversi popoli attraverso la presenza di scrittori ed illustratori stranieri, per poi proseguire con ospiti illustri come Silver e Nicoletta Costa.
Progetti di carattere culturale sono stati realizzati anche nei quartieri - in collaborazione con l’Università si sono realizzati dei momenti di confronto su temi importanti come l’assistenza sanitaria o la politica abitativa - e con la casa circondariale: all’interno del corso di alfabetizzazione del centro EDA è stato fatto un approfondimento sul tema del confine, che ha portato alla pubblicazione interna di un testo che raccoglie le riflessioni emerse.
Un lavoro mirato di approfondimento è stato compiuto anche presso alcune scuole superiori di città e provincia, in collaborazione con l’Assessorato alle Politiche Sociali e con la cooperativa Migrantes (che ha lavorato in specifico su questi temi). I percorsi proposti sono stati collegati agli spettacoli in cartellone e sono serviti ad approfondire alcuni temi suscettibili di approfondimento, come ad esempio la dimensione dei rifugiati politici e il rapporto fra emigrazione ed immigrazione in Italia. Si è deciso che al centro del lavoro ci sia l’incontro con stranieri che vivono direttamente l’esperienza che si va ad indagare, testimonianza imprescindibile per attivare un confronto sulla realtà. In altri casi si sono attivati veri e propri laboratori, come nel caso del liceo linguistico “Falcone” dove è stato proposto un laboratorio di realizzazione di video documentari .
Particolare attenzione merita il progetto quadriennale compiuto con la GAMeC (Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea) a partire da Ospiti DONOre “lo scendere e ’l salir per l’altrui scale” per arrivare alla creazione dei Mediatori Museali e al lavoro di questi ultimi nelle scuole oltre che nella Galleria (progetto teatrale Il museo dei destini incrociati)
I progetti di teatro, video e musica
Essendo le attività promosse e realizzate dal Teatro Donizetti, è logico che l’attività teatrale abbia sempre rivestito un ruolo di rilievo all’interno dei progetti. Ma non è solo questo: il linguaggio del corpo, l’espressione della voce, oltre che esperienze che coinvolgono globalmente la persona, sono anche linguaggi universali e, per questa loro natura, luogo possibile per l’incontro. Nei laboratori teatrali immediatamente ci si trova ad interagire come persone e la propria provenienza geografica viene filtrata unicamente dall’esperienza personale, attraverso la propria storia individuale ed unica. Si lasciano così fuori dal laboratorio pregiudizi e luoghi comuni, per lasciare spazio all’originalità di ciascuno. L’esperienza teatrale permette nel training e nel lavoro preparatorio di mettere in gioco i partecipanti del gruppo su un piano paritario (cosa ancora più vera quando si parte, come nella maggior parte del lavoro compiuto, con principianti), creando un clima di accoglienza e riconoscimento reciproco, mentre in un secondo momento emergono i vissuti personali, le storie singole che vengono condivise dal gruppo e si trasformano in racconto. Dalla narrazione che scaturisce dal confronto interno al laboratorio, emerge la comunicazione (spettacolo) che il gruppo proporrà all’esterno, al quartiere, alla città.
È con queste premesse che sono state proposte diverse esperienze facendo riferimento alle numerose realtà professionali presenti nel nostro territorio: ben otto compagnie teatrali operanti in bergamasca sono intervenute nei quartieri, nei CAG (centri di aggregazione giovanile), negli oratori, nei centri EDA e nelle scuole dei vari ordini… Diversi sono stati i linguaggi usati, nella scelta si è sempre cercato di valorizzare la poetica e le specificità dei linguaggi di ciascuna compagnia artistica: dai laboratori teatrali e narrativi, a quelli legati al teatro di figura, dalla creazioni di video ai percorsi a tema come quello sulla maternità (rivolto in parallelo a donne e bambini), dall’esperienze di costruzione di maschere con materiali di riciclaggio all’uso della maschera della Commedia dell’Arte. Quest’ultimo percorso (La via delle maschere), realizzato con un gruppo di ragazzi stranieri ed italiani all’interno di una collaborazione fra una scuola media statale ed un oratorio, ha evidenziato come un tema apparentemente centrato sulla tradizione italiana, attraverso il lavoro sugli archetipi, sia invece potente volano di suggestioni su temi che toccano l’immaginario comune, come l’uso del denaro, aspetto già rilevante nella preadolescenza. In parallelo una scuola primaria (Parata Pirata) ha operato sulla costruzione della maschera con materiali naturali e di riciclaggio, per arrivare al movimento del corpo individuale e alla dimensione coreutica. Due esempi per dire la potenzialità del mezzo, il primo terminato con una rappresentazione in palcoscenico, il secondo momento di teatro di strada in forma di parata.
Momento significativo, che ha segnato i progetti successivi, e ha chiuso il primo anno di attività (2006), è stata la presentazione di due spettacoli (regia di Albino Bignamini) proprio al Teatro Donizetti: Appunti di viaggio e Ci chiama il mare. Il primo realizzato da adolescenti stranieri del Centro EDA di Redona e da ragazzi italiani, il secondo proposto da un gruppo di adulti italiani e stranieri (Laboratorio Teatrale Multietnico) guidati da Silvia Briozzo. Entrambi gli spettacoli resi sul filo di una narrazione sospesa fra sogno e realtà, sono racconti, ora singoli, ora corali, sofferti o ironici, di una condizione umana difficile e poco compresa, che si fa espressione di culture diverse, ma dello stesso umano patire di lontananza e solitudine. Il primo è centrato sulla dimensione adolescenziale della scelta, a partire dall’immagine metaforica di Hansel e Gretel e del loro vagare nel bosco alla ricerca di una propria strada. Il secondo, avendo come riferimento la metafora del mare, si lega alle vicende umane attraversate dagli attori nei loro viaggi di emigrati. Entrambi i lavori nascono dal contributo emotivo esperienziale che ogni partecipante ha dato nel laboratorio.
La serata è stata preceduta di un mese dalla presenza dello spettacolo Pinocchio Nero dei ragazzi ex chokora di Nairobi. Per queste due serate italiani, bergamaschi, senegalesi, ucraini… hanno abitato il salotto buono della città per trasformarlo un po’ più casa di tutti. Significativo l’inizio di Ci chiama il mare: gli attori sono ciascuno in un palco, trasformato in abitazione dei ricordi, luogo arredato con gli oggetti più cari della stanza intima della memoria.
Due spettacoli nati tra i progetti e poi in giro per l’Italia
Due sono i progetti nati nelle attività collaterali che hanno avuto come conclusione la produzione di un lavoro teatrale professionale. Il primo, ha origine dal lavoro di rete compiuto durante la stagione 2005 intorno alla Legenda Aurea, ma che ha trovato compimento nel 2008 durante la stagione di Altri Percorsi dedicata al tema dell’abitare. Nel 2005 si è affidato a Laura Curino un lavoro di presentazione degli affreschi di Lorenzo Lotto nella Cappella Suardi a Trescore, ciclo ispirato al testo di Jacopo da Varazze. Tale progetto realizzato con la rassegna di teatro sacro DeSidera, concludeva con una performance dell’attrice sul tema. Nel 2008 la scelta da parte del teatro è concludere quel progetto con una produzione insieme all’Asssociazione Muse e l’associazione Sant’Agostino. Lo spettacolo, per la regia di Roberto Tarasco, vede in scena Laura Curino che narra le storie di Santa Barbera e del suo martirio, la trascrizione scenica crea un intreccio fra la parola e le suggestioni dell’affresco, fra la storia della giovane martire e gli adolescenti di oggi.
Più complessa è la genesi dell’altra produzione Il ritorno¸ nato da una impegnativa ricerca compiuta dall’attrice-regista romana Veronica Cruciani in due quartieri di Bergamo: la Malpensata e via Quarenghi. L’utilizzo della memoria orale per ricostruire la storia passata e presente di luoghi, ha richiesto la collaborazione di molte realtà del territorio e ha visto il suo compimento nella scrittura scenica di un drammaturgo importante come Sergio Pierattini. Il testo teatrale traspone nella finzione scenica le suggestioni della ricerca. Ne nasce uno spettacolo intenso con l’interpretazione di Gigio Alberti, Milvia Merigliano, Alex Cedron e la stessa Cruciani, spettacolo che ha avuto l’onore di ricevere nel 2008 il Premio Associazione Nazionale Critici Italiani come “Miglior testo” ed essere finalista al Premio Ubu come “Nuovo testo italiano”.
La genesi, i percorsi compiuti e i testi sono stati pubblicati nella collana “Tracce” edita dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Bergamo.
Conclusioni e ringraziamenti
Tutti i progetti realizzati sono stati possibili grazie alla passione di centinaia di persone che con professionalità ed impegno hanno dato via ad una rete di lavoro intensa. La volontà per ciascuno è stata quella di rinunciare a protagonismi e di mettersi a servizio di un bene comune, scegliendo, di volta in volta, le opzioni che rispondessero meglio ad una proposta culturale di qualità e ad un percorso formativo più attento alle singole persone, che ai risultati.
Questo è stato tanto più vero per i laboratori proposti dalle compagnie teatrali, dove registi ed attori hanno messo a servizio la propria arte in modo attento e prezioso, compiendo con gli utenti percorsi artistici, ma prima ancora umani, dimostrando di riuscire a realizzare spettacoli, video, performance di ottima qualità a partire proprio dal rispetto di chi veniva loro affidato. Il teatro non può che essere proprio questo, quando scende dalle tavole del palcoscenico e si immerge nella città: un incontro diretto, irripetibile, come un abbraccio che non può mai essere uguale. Difficile oggi capire quale segno verrà lasciato alla città da questi quattro, cinque anni di lavoro, se si proseguirà sul percorso tracciato o altre saranno le scelte che verranno compiute dalle future amministrazioni. Intanto resta la speranza che qualcosa possa restare nella vita delle persone che hanno attraversato questi percorsi e questi vissuti.
Un grazie particolare va a ciascuna delle associazioni il cui nome è riportato nell’elenco finale dei partecipanti, ciascuno di loro ha dimostrato disponibilità, curiosità e voglia di sperimentare il nuovo. Ma alla fine dire associazioni, vuole dire persone singole che con la loro passione, e spesso con un servizio discreto, operano come operatori culturali ed artistici, formatori ed insegnanti nella nostra città, portatori non solo di cultura, ma anche seminatori di tolleranza e di pace.
Grazie ad Enrico Fusi che con passione politica ha condiviso l’avvio dei progetti, e a Massimo Boffelli, direttore del teatro, che ha creduto nel lavoro compiuto e con caparbietà ha, fino ad oggi, permesso la loro prosecuzione, sostenendoli, pur fra le tante difficoltà amministrative.
Un grazie anche a chi, affiancandomi nel lavoro organizzativo e promozionale, ha permesso che la rete nascesse e potesse proseguire: Silvia Lazzari che ha condiviso con me dal 2007 gran parte del lavoro, dalla grafica alla logistica dei momenti di festa.
Un grazie a Roberta Arcelloni, questo Quaderno è stato realizzato per merito della sua generosità e della sua forza di volontà, doti che ho avuto la fortuna di ammirare nel lavoro comune della commissione prosa di questi anni.
Un grazie particolarissimo va alla mia piccola Laura che è sempre stata presente nei momenti importanti, aiutandomi e divertendosi. Anche per lei queste cose sono state immaginate e costruite nella speranza di una città che sia ogni giorno di più educata alla bellezza e al rispetto.
BP2010 Il centro del discorso Il premio nazionale di drammaturgia contemporanea (seconda edizione) di Werner Waas
“Non ho il dovere di risolvere le difficoltà che creo. Le mie idee
possono anche essere sempre un po’ sconnesse, o sembrare anche
contraddirsi: conta solo che siano idee in cui i lettori possono trovare
materia per pensare da sé”
Gotthold Ephraim Lessing
2009/2010
L’idea
Il progetto si propone di creare, attraverso il teatro, un discorso e un confronto sul tempo in cui viviamo. Siamo convinti infatti che umano sia il dialogo e quindi, in teatro, il suo mezzo principe: il testo. Se si pretende dal teatro che non faccia solo divertire o ammutolire per lo stupore ma anche pensare, non si può fare a meno di buoni testi. L’utopia che ci guida è restituire al teatro un ruolo sociale, di farlo sentire come necessario non solo per gli artisti ma per la comunità in cui esso agisce. Se è vero che il teatro ha bisogno della comunità per esistere, è altrettanto vero che la comunità, la società hanno oggi più che mai bisogno del teatro nella sua più antica e nobile funzione: quella di luogo ove riconoscersi in quanto tali, ove ritrovare di nuovo il senso dell’idea stessa di “comunità”. “Il Centro del Discorso” nasce all’interno di una più vasta riflessione sul ruolo del teatro e dell’arte nella società, già avviata dall’Associazione Induma Teatro all’interno delle Manifatture Knos attraverso una serie di altri progetti (“A cosa serve il teatro?”, “Luoghi Comuni”, “Vasi Comunicanti”, “Zona Franca”, e molti altri), e si sviluppa in stretta relazione e collaborazione con essi e con altre associazioni, in un proficuo scambio di prospettive ed esperienze che è forma e sostanza delle Manifatture Knos in quanto laboratorio interdisciplinare.
Abbiamo alle spalle la bellissima e avventurosa esperienza della prima edizione del Premio, che aspetta solo di concludersi, in marzo, con il Festival e la pubblicazione del testo vincitore e dei finalisti insieme ai materiali prodotti durante lo svolgimento del progetto. Pur nelle inevitabili difficoltà, siamo convinti di aver iniziato un processo di sperimentazione e ricerca che, oltre a mostrare già i suoi primi piccoli frutti, ci porterà negli anni sempre più vicini al punto vivo, al centro, del discorso, lì dove il teatro incontra la vita. Un punto, dopo l’esperienza della prima edizione, è infatti sempre più chiaro: la necessità di allargare la discussione e il confronto, di uscire dall’ambiente spesso autoreferenziale di coloro che “il teatro” lo fanno, degli “addetti ai lavori”, per mescolarsi al resto del mondo, e su questo tornare ad incidere. Vogliamo che il premio e il festival di drammaturgia e teatro contemporanei “Il Centro del Discorso”, producano di anno in anno semi per altri discorsi che si svolgeranno in futuro, magari in altri tempi e in altri luoghi.
Lo svolgimento
La prima edizione, 2008/09, (partita nell’ottobre 2008 con la pubblicazione del bando di concorso del Premio, consultabile sul sito www.manifattureknos.org) si è svolta nell’arco di un anno attraverso varie iniziative ed eventi distribuiti in 3 fasi principali. La prima fase (già conclusasi, per l’edizione 2008/09, in marzo, con la proclamazione dei 4 + 1 ex-aequo testi finalisti del Premio) e la seconda (anch’essa conclusasi con la proclamazione del testo vincitore) sono state dedicate alla riflessione sulla drammaturgia, agli incontri di studio, alla produzione dei testi e alla loro valutazione, ai laboratori di scrittura teatrale e messa in scena, alle residenze creative, al lavoro sui testi e sulle letture sceniche. La terza fase è in pieno svolgimento, con l’organizzazione del Festival per marzo 2010, le prove degli spettacoli (dal testo vincitore e da due dei testi finalisti), e la preparazione della pubblicazione del primo numero della collana “Il Centro del Discorso” per Lupo Editore.
Adesso, con la pubblicazione del nuovo Bando, prende quindi il via anche la seconda edizione. Si viene a creare in tal modo una visione d’insieme circolare i cui diversi momenti contribuiscono tutti, e sono tutti necessari, alla completezza e complessità di un progetto di vasto respiro.
Gli strumenti
Con lo strumento del Premio, cuore del progetto, intendiamo avviare una ricognizione dei migliori tra i nuovi talenti drammaturgici italiani, dando loro possibilità concreta di visibilità attraverso la mise en espace dei loro testi in una rete di teatri e festival (Festival Short-Theatre a Roma, Festival Teatri delle Mura a Padova, Kilowatt Festival ad Arezzo, Castel dei Mondi Festival ad Andria, etc..), partner del progetto sul territorio nazionale.
Per incoraggiare i giovani autori a cimentarsi con la scrittura drammaturgica, abbiamo riservato una sezione agli scrittori under 26 anni. I testi, ancora in forma di exposè accompagnati da brevi scene esemplicative, passeranno ogni anno una prima selezione da cui verranno scelti 4 finalisti. Gli autori di questi, più un’ulteriore rosa “allargata” di testi ritenuti comunque interessanti dalla Giuria del Premio, parteciperanno a una serie di workshop con tutor e artisti per preparare delle letture sceniche da fare girare nei festival e teatri partner del progetto. Si passerà quindi alla selezione successiva che proclamerà il vincitore. Per il testo vincitore del premio si prevede un periodo di residenza presso le Manifatture Knos a Lecce come contributo alla produzione dello spettacolo e la partecipazione al Festival in primavera in prima nazionale, nonchè un supporto per la distribuzione e circuitazione.
Il materiale prodotto durante le varie fasi del progetto sarà ogni anno pubblicato da Lupo Editore, partner per l’editoria, in una nuova collana di testi e riflessioni teatrali chiamata anch’essa “Il Centro del Discorso
BP2010 Risorse video per la promozione del teatro e delle arti performative Un progetto di portale web di Riccardo Carbutti
In breve
Il progetto rappresenta un nuovo modo di pensare il sistema di promozione e di diffusione delle opere di spettacolo dal vivo di autori sia europei che extraeuropei. Il sistema di promozione si sviluppa a partire dalla creazione di connessioni qualificate e in¬novative tra l'opera e l'operatore culturale incaricato alla pro¬grammazione. L'attività di promozione e di sharing, delle opere e delle informazioni sui loro autori, si sviluppa su due livelli conte¬stuali e cooperanti: la promozione della singola opera, cioè del singolo spettacolo, e la promozione della rete che ospita e/o può accedere all'opera stessa. Il portale infatti non sostituisce la comune attività di promozione operata dai singoli soggetti ma ne migliora e potenzia allo stesso tempo sia le modalità che gli esiti.
Per chi?
Il portale, curato e animato da una redazione, mira a coinvolgere tutti gli i soggetti che operano nel panorama dello spettacolo dal vivo europeo ed extraeuropeo: attori, compagnie, teatri, festival nonché agenzie di promozione, circuiti di distribuzione, fonda¬zioni, istituzioni pubbliche e private. Per ogni soggetto diversi e modulari sono i servizi offerti. Una compagnia di teatro, ad esempio può stabilire un contratto di abbonamento a seconda delle sue capacità economiche e delle sue necessità promoziona¬li, così come un teatro o un festival possono accedere ciascuno ad un profilo di abbonamento dedicato.
Dei servizi inediti
Il progetto pone il singolo spettacolo alla base del sistema di promozione. È il centro a partire dal quale si sviluppano tutti i servizi offerti dal portale. Lo strumento principale della promo¬zione è rappresentato invece da estratti video dello spettacolo. Per loro natura i servizi sono modulari e indipendenti l'uno dal¬l'altro. Qui di seguito sono indicati i tre servizi principali del portale.
produzione di estratti video efficaci Il video viene interamente post-prodotto, da operatori professionisti, e trova ospitalità su server capaci di restituirne una fruizione in streaming paragona¬bile alla qualità DVD e nettamente superiore alle comuni piatta¬forme di condivisione video quali YouTube e Dailymotion. Que¬sti due fattori permettono una puntuale e decisiva valutazione dello spettacolo da parte degli operatori culturali.
un'intera pagina dedicata allo spettacolo Il video viene poi in¬serito all'interno del portale e completato dai credits, una sinossi, delle note di regia e da immagini. Tutti i video sono classificati attraverso l'uso di tag e di categorie che ne permettono la ricerca e la rintracciabilità all'interno del portale. La presenza online può essere gestita dalla redazione del portale come dalla stessa com¬pagnia, o teatro, di cui si promuove uno spettacolo, in ogni mo¬mento, grazie a un sistema di accesso tramite login al portale stesso. L'indirizzo web alla pagina dello spettacolo sarà così composto: http://portale.com/titolo.
newsletter dedicata alle novità Un servizio di newsletter, redat¬to da professionisti della comunicazione in italiano e in inglese, notificherà agli utenti iscritti ogni singola novità, ogni nuovo vi¬deo e spettacolo presente all'interno del portale.
Dei servizi dedicati
In questa sezione vengono affrontati ulteriori servizi dedicati a singole specificità e esigenze.
compagnie
Nel caso in cui la compagnia non abbia ancora prodotto un video sarà cura di operatori specializzati riprendere dal vivo l'intero spettacolo, con una o più video-camere, per poi passare alla fase di editing del suono e dell'immagine, nonché al montaggio degli estratti al fine di ottenere un video efficace della durata massima di otto minuti che verrà codificato in formato DVD e in un for¬mato adatto allo streaming.
La compagnia può decidere di curare direttamente la propria pa¬gina all'interno del portale, all'indirizzo esemplificativo di http://portale.com/titolo, o lasciare questa incombenza alla reda¬zione del portale stesso. Nel caso in cui la compagnia voglia cu¬rare autonomamente e in qualsiasi momento le informazioni in¬serite online, verrà dotata di username e password univoci, non¬ché di tutte le informazioni pratiche per l'inserimento dei testi e delle immagini. La compagnia stabilisce, in anticipo, un abbona¬mento per ogni spettacolo promosso all'interno del portale.
La pagina dedicata allo spettacolo può allo stesso tempo stabilire la presenza online della compagnia che non dispone ancora di un sito internet proprio. Nel caso invece ne abbia già uno, questa può incorporare nelle sue proprie pagine il video, che natural¬mente può essere pubblicato su qualsiasi piattaforma di social network, nonché incorporato nelle proprie newsletter. La qualità dello streaming rimarrà la stessa perché sarà assicurata dai server specializzati dove è albergato il portale e lo stesso video.
teatri e festival
Il portale assicura una piattaforma specializzata ed univoca dove promuovere le proprie programmazioni con tutte le informazioni utili di contatto e eventualmente i video delle compagnie già pre¬senti sul portale che formano la programmazione stessa. Ogni teatro o festival partner sarà raggiungibile al semplice indirizzo http://nome.portale.com. Inoltre il portale per ogni singolo teatro o festival può offrire altri servizi. La redazione del portale può occuparsi di entrare direttamente in contatto con le compagnie e assicurare la raccolta dei materiali promozionali legati alla compagnia stessa nonché allo spettacolo, redarli in maniera effi¬cace, operare delle traduzioni e produrre o post-produrre i video degli spettacoli (in quest'ultimo caso i costi di editing video o di ripresa dal vivo sono a carico della compagnia).
In più due settimane prima della data di inizio della programma¬zione della stagione teatrale o del festival, immagini e link alla pagina del teatro o del festival soggiorneranno, per un massimo di visibilità, in home page, aggiornate nei contenuti a cura della redazione del portale. La pagina dedicata potrà essere redatta secondo le modalità già espresse nel capitolo dedicato alle compagnie. Le modalità di accesso ai servizi del portale sono stabilite in maniera differente per i due soggetti: se il teatro potrà accedervi dietro una quota annuale in relazione al numero della sua capacità di accoglienza di pubblico, i festival invece potran¬no concordare e accedere ai singoli servizi.
agenzie di promozione e circuiti di distribuzione
Le agenzie e i circuiti in quanto soggetti hanno accesso al portale e ai suoi servizi base, quali una pagina e un indirizzo loro dedica¬to nella forma di http://nome.portale.com nonché l'iscrizione alla newsletter in maniera gratuita. Rientrano invece nelle condizioni dedicate alle compagnie per la promozione del singolo spettaco¬lo. La pagina dedicata potrà essere redatta secondo le modalità già espresse nel capitolo dedicato alle compagnie.
BP2010 La rappresentazione dei luoghi L’insostenibile dialogo fra la natura dei progetti e la cultura dei paesaggi di Fabio Biondi
Per natura, il Terzo paesaggio costituisce un territorio per le molte specie che non trovano spazio altrove.
Il residuo di specie che non compare nel Terzo paesaggio è rappresentato dalle piante coltivate, dagli animali da allevamento e da quegli esseri la cui esistenza dipende dalle colture e dagli allevamenti.
Gilles Clément, Manifesto del Terzo paesaggio
Tempo e spazi: una relazione necessaria per la qualità dei pensieri e delle opere
Serve tempo. Servono spazi.
Tempo e spazi adeguati alle nuove esigenze delle arti sceniche contemporanee.
Tempo e spazi per sperimentare nuove e differenti modalità di studio e di ricerca dei processi creativi e di produzione delle opere.
Tempo e spazi di riflessione e approfondimento per gli artisti, soprattutto, ma anche di relazione e confronto critico fra artisti, studiosi, organizzatori e pubblico; per generare assieme nuove domande dal teatro del presente, dal presente del teatro, senza soluzione di continuità e senza contrapposizione fra un teatro e l’altro, il vecchio e il nuovo.
Oggi più che mai non alcun senso alimentare la sterile contrapposizione fra un teatro di ricerca e un teatro di non ricerca. Per una stessa natura, lo studio e la pratica del teatro muovono dall’esigenza primaria, costitutiva, di rinnovamento dei linguaggi espressivi, delle forme e dei contenuti, dell’immaginario e del reale. Diversamente, il rischio è di confezionare un teatro di routine, di ripetizione di stili e contenuti già acquisti da tempo; un teatro (solo) fine a se stesso che non sente più il bisogno di “conquistare” tempo e spazi di ricerca e produzione, quanto mai necessari, invece, per determinare un teatro di qualità e d’autore che non ha niente da spartire con il teatro commerciale e di consumo indifferenziato.
Le residenze creative, una possibilità
Il tempo e gli spazi delle residenze creative possono contribuire a innovare il sistema teatrale italiano, con la consapevolezza che non può esistere un’unica modalità, risolutiva del tutto, di residenza creativa. Le residenze creative vanno intese per lo più come progetti aperti che si modificano di continuo, nel tempo e negli spazi; progetti semplici o complessi, che riflettono su singoli aspetti della ricerca e della produzione o sulla complessità del sistema teatrale italiano. In questi ultimi anni sono nate differenti esperienze di residenza: di studio e di ricerca; di produzione; di gestione e programmazione di teatri.
In ogni caso, occorre partire dall’esigenza primaria di realizzare dei progetti di residenza per gli artisti, dalla parte degli artisti.
Altri “ingredienti” fondamentali che determinano le diverse esperienze di residenza sono le relazioni con il territorio, il paesaggio e l’ambiente, la qualità degli spazi e dei luoghi, la comunità di appartenenza e il rapporto con il pubblico.
Soprattutto, la specificità dei luoghi e la cultura del paesaggio, possono incidere notevolmente sulla natura dei progetti.
Il primo sguardo, la storia e l’identità del territorio, sono le premesse da cui partire per costruire un progetto culturale unico e irripetibile, di senso compiuto, per l’interpretazione dei tanti teatri possibili della contemporaneità.
Forse è vero che dai luoghi nascono i pensieri; che i luoghi portano con sé una “parola”, una “memoria viva” che può essere rinnovata di continuo e che si trasforma nel tempo e negli spazi, con il lavoro degli uomini, le opere e le tracce lasciate sul terreno.
Ascoltare i luoghi e il paesaggio è fondamentale per comprendere le azioni da adottare.
Per parlare dell’Arboreto, la bellezza e la particolarità del luogo ci hanno suggerito che cosa fare, ma soprattutto che cosa non fare.
Forse, la nostra idea di lavoro, di progetto, era già inscritta in quel luogo di confine, di unione e di contrasto fra l’opera della natura e le opere degli uomini che anni prima di noi avevano creato un arboreto sperimentale della flora mediterranea; un luogo naturale e artificiale, insieme, dove la guardia forestale sperimentava e osservava la crescita delle giovani piante che noi continuiamo a custodire.
Un luogo vivo e vitale, composto e rappresentato da luci e ombre, già segnato dalle ferite dell’uomo sulla natura: tentativi falliti e errori creativi che l’uomo ha praticato sulla natura, e viceversa.
Un paesaggio da vivere e rappresentare.
Un paesaggio da mettere in scena, in vita.
Qualunque sia la definizione e l’autorialità di chi le progetta, le residenze creative vanno intese principalmente come luoghi di studio e di lavoro in continua evoluzione, vitali per chi le progetta e le abita temporaneamente, insieme; officine aperte per sviluppare le relazioni e il confronto, per consentire agli artisti il “lusso di perdere tempo” e il “diritto all’errore”, in particolare per le nuove generazioni di teatranti.
La residenze creative: nuove forme di stabilità teatrale, leggera?
In un sistema teatrale bloccato e malato, come quello italiano dove i maggiori Teatri Stabili, e non solo, praticano una politica di sistematica chiusura verso tutto ciò che può essere considerato d’innovazione e di sperimentazione, c’è sempre meno spazio per le giovani compagnie e soprattutto per la ricerca.
I fattori di crisi del teatro, in generale, sono sicuramente (anche) di carattere economico, ma anche di profonda crisi culturale. Insieme ne viene fuori un quadro desolante che non consente agli artisti, ai produttori e agli organizzatori di compiere delle scelte coraggiose, a discapito della qualità delle nuove opere e soprattutto di una reale visione della scena contemporanea, del presente.
Parallelamente alle vicende dei Teatri Stabili, di tradizione e d’innovazione, in questi anni si sono “insediate” anche in Italia diverse esperienze di “stabilità” teatrale, leggera: realtà più piccole e a volte isolate, molto diverse tra loro per principi e modalità, che però hanno prodotto dei risultati straordinari.
Esperienze di confine, non solo geografico, situate per lo più nella provincia italiana, con poche risorse economiche per determinare un processo di teatro di senso, necessario; un teatro di esistenza e resistenza, a volte solo di sopravvivenza, per un teatro d’arte e di qualità. Un teatro che riflette sul proprio tempo, sulle contraddizioni della contemporaneità e per questo motivo un “teatro contraddittorio o della contraddizione”, che supera i generi e le etichette per una contaminazione dei linguaggi, del dire e del fare.
Un nuovo movimento teatrale, non sempre marginale, che nel tempo è riuscito (in parte) a modificare il sistema produttivo del teatro italiano. Identità culturali e progetti artistici che hanno generato nuove e differenti pratiche d’informazione e di produzione; percorsi di ricerca adeguati e in sintonia con l’urgenza di modificare i tempi e gli spazi del lavoro delle nuove generazioni di artisti, e non solo.
Vale a dire, in gran parte, la progettualità delle residenze creative: tempi e spazi per dare corpo e voce alle nuove visioni di chi crede che il processo di ricerca sia altrettanto importante al pari della produzione delle opere.
In cerca di residenze creative, dunque
Le residenze vanno pensate e progettate principalmente come luoghi di pensiero.
Luoghi di studio, ricerca e sperimentazione.
Nei tempi e nei modi di cui gli artisti hanno facoltà, hanno necessità.
Luoghi per dare corpo e respiro ai pensieri.
Per sostenere la crescita di processi culturali e artistici.
Con la possibilità di produrre delle nuove opere contemporanee.
Per questi motivi, le residenze vanno intese soprattutto come laboratori permanenti, officine aperte, senza pensare, subito, ai risultati e all’esito finale.
Luoghi di scoperta per verificare nuove ipotesi di ricerca.
Per concentrarsi sul proprio lavoro.
Per incontrarsi con altri artisti, pensieri, sguardi, opere.
Non prima e non dopo, insieme.
Luoghi dove sia anche possibile perdersi nella lentezza e nella bellezza della ricerca, senza raccogliere nulla, per il momento.
Senza risultati evidenti, per sé e per gli altri.
Luoghi d’incontro e di confronto dove gli artisti e gli artigiani del pensiero trovano le condizioni indispensabili per conoscere e per conoscersi.
Per imparare e per sbagliare.
Per interpretare il “diritto all’errore” come un fattore di crescita.
Le residenze creative devono favorire la libertà degli artisti di indagare territori sconosciuti, sospendendo, in quel tempo e in quello spazio, l’ansia di produrre e dimostrare subito dei risultati.
E’ possibile, ma non obbligatorio, che al termine di una residenza la compagnia senta la necessità di incontrare il pubblico per una prima verifica della propria ricerca.
E quando questo accade, quando nelle residenze si creano le premesse per un incontro non convenzionale fra gli artisti e il pubblico, allora si genera un’energia vitale per entrambi; un’energia che si moltiplica, che produce altra energia, per le persone e per il luogo di residenza.
Oggi più che mai, le residenze creative sono diventate una modalità necessaria per favorire la qualità delle nuove produzioni.
Per gli artisti, soprattutto.
Per il sistema teatrale nel suo complesso.
Per sviluppare una relazione continuativa fra gli artisti e il territorio.
Per capitalizzare le singole esperienze (processi artistici e produzione di opere) all’interno di una comunità, un paesaggio, un ambiente.
Quali sono, allora, i “nuovi pericoli” delle residenze creative?
Le residenze creative non vanno intese solo come centri servizi.
Non possono essere ridotte semplicisticamente a “merce di scambio” per gli organizzatori e i produttori.
Non si può chiedere agli artisti residenti anche di educare il territorio.
Non si può chiedere agli artisti residenti anche di organizzare il consenso.
Si può fare, evidentemente.
Esistono delle esperienze di residenza in cui alle compagnie si chiede anche di occuparsi di organizzazione e di promozione, e non solo di concentrarsi sul proprio lavoro creativo, di ricerca e di produzione di spettacoli.
In queste situazioni, le compagnie accettano il rischio di diventare dei bravi organizzatori, perdendo così di vista la centralità del proprio fare teatro, in scena.
Le residenze creative non possono essere concepite, dagli artisti e dagli enti, come una nuova modalità di lavoro per risolvere vecchie problematiche amministrative e di politica culturale del territorio, di occupazione di spazi vuoti; vuoti di memoria, idee e progetti, antichi deficit produttivi: mancanza di finanziamenti, spazi, ospitalità, ecc.
Il significato profondo delle residenze creative è quello di esprimere dei progetti profondi, complessi, difficili, critici, per condividere un pensiero tanto straordinario quanto semplice e vitale per il presente e per il futuro del teatro: difendere e proteggere il “lusso” della ricerca, soprattutto per le nuove generazioni di artisti.
BP2010 Residenze teatrali in rete Un progetto di Teatronet di Rosaria Fasiolo
PREMESSA
Nel 2006 nasce TEATRONET, un circuito nazionale dedicato al nuovo teatro di innovazione e di ricerca a cui possono accedere spazi teatrali e compagnie indipendenti.
Caratteristica del circuito è che tutti i partecipanti sono soci, l’organizzazione e la direzione promuovono e coordinano gli eventi senza essere né una compagnia né un teatro. Inoltre per entrare a far parte del circuito c’è una selezione: artistica per quanto riguarda gli spettacoli e di conformità qualitativa per quanto riguarda gli spazi. Ogni spettacolo ed ogni spazio vengono quindi visionati, selezionati e monitorati in itinere durante l’attività annuale. C’è un Regolamento interno, discusso e approvato annualmente dai soci, nato per garantire la correttezza dei rapporti tra le parti: organizzazione, spazi e compagnie.
Oltre al circuito, Teatronet da quest’anno sta organizzando altre attività quali convegni e incontri a tema che riguardano il rapporto tra arte, economia, filosofia, ambiente….
L’associazione fino ad ora non ha ricevuto sovvenzioni pubbliche.
PROGETTO
Quest’anno Teatronet intende inoltre sviluppare la propria attività organizzando delle residenze teatrali in rete rivolte sia a compagnie già socie, sia a nuove compagnie la cui selezione avverrà o tramite un bando o una stretta collaborazione tra riconosciuti premi nazionali /internazionali rivolti alle giovani realtà teatrali.
MODALITA’
Per residenze in rete si intende l’offerta di ospitalità (sala prove, vitto e alloggio) per un periodo breve (10-15 gg) da parte di alcuni spazi del circuito alle compagnie selezionate. Le compagnie potranno così programmare meglio i loro tempi di lavoro contando sull’ospitalità di più spazi in tempi diversi ed inoltre sull’incontro/confronto con diverse realtà teatrali dislocate su tutto il territorio nazionale.
Questo offre il vantaggio di ampliare i contatti e le esperienze artistiche con realtà molto diverse da quelle dell’abituale zona di residenza.
Al termine delle residenze lo spettacolo diventa una co-produzione alla quale viene garantito il regolare circuito tra gli spazi di Teatronet, in forma non retribuita solo per gli spazi co-produttori.
OBIETTIVI
Gli obiettivi sono sostanzialmente tre:
1. offrire un ulteriore servizio alle compagnie socie per produrre i loro spettacoli in situazioni di incontro, conoscenza reciproca e crescita professionale.
2. creare una linea di continuità tra premi, produzione e distribuzione. Dare quindi l’opportunità ad alcune giovani compagnie di produrre e far circuitare lo spettacolo premiato.
3. promuovere anche piccoli produttori su un vasto territorio.
RISORSE
Per reperire le risorse finanziarie necessarie alla realizzazione di questo progetto Teatronet si sta muovendo su 3 fronti diversi:
1. ogni spazio socio verifica sul proprio territorio la possibilità di chiedere e utilizzare finanziamenti locali mirati a tale iniziativa
2. l’investimento di proprie risorse associative (autofinanziamento)
3. la ricerca di finanziamenti pubblici e privati.
Udine, 04-02-2010
BP2010 Punta Corsara: verso il secondo triennio di teatro a Scampia Un progetto Fondazione Campania dei Festival di Emanuele Valenti
Punta Corsara è il progetto di impresa culturale 2007/2010 per il Teatro Auditorium di Scampia, promosso dalla Fondazione Campania dei Festival presieduta da Rachele Furfaro, co-finanziato per il primo biennio (2007/2008) dal MIBAC Ministero per i Beni e le Attività Culturali e dalla Regione Campania attraverso il Patto Stato-Regione, e dal 2009 solo dalla Regione Campania.
In un reale passaggio di consegne, alla direzione artistica e organizzativa del primo triennio, Marco Martinelli e Debora Pietrobono, succedono nel 2010 Emanuele Valenti e Marina Dammacco, rispettivi assistenti dall’inizio del progetto.
Di venti giovani borsisti corsari, coinvolti come attori organizzatori e tecnici in un percorso di formazione triennale, quindici entrano dal 2010 a far parte dello staff di lavoro.
Cambiamenti e insieme conferme del percorso fatto e del suo naturale sviluppo: trasformare l’Auditorium in un centro d’arte per il quartiere e per la città, costituire un gruppo artistico e organizzativo che possa continuare a gestire questo spazio con uno sguardo rivolto al territorio napoletano e nazionale, nell’intreccio possibile tra programmazione teatrale, produzione e formazione.
La presenza di un luogo-teatro, l’Auditorium, è questione centrale e insieme nodo complesso del progetto che prevedeva la sua ristrutturazione, destinando ad essa una parte specifica del finanziamento regionale affidato poi al Comune di Napoli in quanto proprietario dell’immobile.
Di fronte ad un rinvio costante dell’inizio del lavori e a comunicazioni vaghe da parte del Comune, in questi primi tre anni si è cercato un piano alternativo, attraverso agibilità temporanee e allestimenti provvisori. In questo modo sono nate due stagioni teatrali e all’Auditorium di Scampia, con spettacoli e laboratori, sono stati ospitati attori e compagnie nazionali, da Claudio Morganti ad Armando Punzo, da Scena Verticale ai Motus, da Marco Paolini e Ascanio Celestini a Danio Manfredini, per citarne alcuni. Sempre l’Auditorium è stato lo spazio vitale per tutto il percorso di produzione, dalle prove al debutto, dello spettacolo Fatto di cronaca di Raffaele Viviani a Scampia per la regia di Arturo Cirillo, con il coinvolgimento di alcuni attori della sua compagnia insieme ai giovani corsari che concludevano il loro percorso di formazione, iniziando poi la tournée, programmata anche per il 2010, nel circuito teatrale nazionale. Agli spettacoli, si sono affiancati laboratori per il quartiere, dalla breakdance al circo e alla pittura, collante indispensabile per unire il teatro al suo territorio, creando continuità anche attraverso la volontà di rendere fruibile e riconoscibile uno spazio.
Questo spazio, ad oggi 13 febbraio 2010, è ancora in attesa di essere ristrutturato. A partire da questa condizione, che è insieme vincolo e legame, Punta Corsara cercherà un nuovo Piano B, immaginando una programmazione, dei progetti di laboratorio sul quartiere, una nuova produzione, attingendo alle risorse possibili, alla rete di relazioni con la città e con le realtà incontrate in questi anni. Forse cambiando anche rotta, se necessario, ma cercando di proseguire con cura.
Progetto Punta Corsara
Fondazione Campania dei Festival
Via dei Mille 16 – 80121 Napoli
Tel 081.19560383
BP2010 La responsabilità sociale di impresa a sostegno della funzione pubblica del teatro Sponsorshp e Partnership di Roberto Calari
La crisi della finanza pubblica, i tagli sistematici e colpevoli del Fus da parte del Governo accompagnano una crisi mondiale dove le regole, i principi e i valori dell’etica, della responsabilità individuale, dell’interesse e del bene comune paiono essere stati improvvisamente rimossi e relegati nella cantina dei “ricordi”.
Eppure il movimento di opinione e la crescita della coscienza collettiva, a partire dagli anni ’90, aveva messo fortemente in discussione un approccio “economicistico” e “privatistico” del fare impresa, cosi’ come la disinvoltura di un fare politica per “fare affari privati”, anziché il “bene comune”.
In tutti questi processi il fare teatro e, più in generale, il produrre cultura ha dovuto e potuto far i conti con una nuova necessità di reperire risorse e di motivare una diversa disponibilità ad intervenire da parte di soggetti privati, mentre cresceva la domanda sul senso del fare teatro, sull’autonomia indispensabile della produzione culturale, sulla necessità di contenere o arginare le spinte “economiciste”, ispirate, anche quando senza colpe soggettive, sempre più all’idea della “commerciabilità” e del “possibile successo” e, quindi, del ritorno economico delle produzioni prima che al loro ruolo “sociale”, di “ stimolo culturale”, di “ricerca di senso”, di “rottura”, di “provocazione”.
In questo difficile percorso la produzione culturale ha incontrato due ben distinti tipi di interlocutori, ben diversamente collegati a queste riflessioni e problematiche e, quindi, con impatti ben differenti sulle scelte artistiche e produttive, se non sull’effettiva autonomia artistica: gli sponsor e i partner.
a) Gli interventi di sponsorizzazione, tipicamente orientati ad avere un ritorno in termine di immagine istituzionale o, più frequentemente, di prodotto privilegiano produzioni di maggior capacità attrattiva sul pubblico e di maggiore “garanzia” di successo sul pubblico. Molto spesso lo sponsor preferisce spostare l’asse dell’orizzonte comunicativo che lo riguarda più che sul legame con il prodotto culturale realizzato, sui servizi o prodotti propri che potranno essere veicolati in modo autonomo e parallelo al pubblico di quel prodotto culturale: scarso o nullo coinvolgimento di “responsabilizzazione” sul prodotto culturale ed enfasi , invece, sulla capacità di comunicare in un contesto e rispetto ad un target ben definito di pubblico il proprio messaggio promozionale e pubblicitario. L’autonomia artistica di cosa produrre da parte del gruppo, associazione o compagnia, anche in questo caso, non è direttamente messa in discussione: ma è vero che più indirettamente queste realtà produttive saranno condizionate nelle scelte del cosa produrre dalla maggiore o minore “appetibilità” del prodotto per gli sponsor e per le loro logiche di ritorno comunicativo e pubblicitario.
b) Le Partnership, ovvero, le condivisioni “ragionate” di un progetto artistico pluriennale.
In questo caso siamo di fronte ad imprese che fanno un investimento di medio periodo sulla qualità di un progetto culturale e che tendono a legare parte della loro immagine, del valore “emotivo e simbolico” del proprio marchio anche a questa capacità, volontà di essere coprotagonisti di produzioni culturali e di spettacolo di particolare qualità e innovazione, posizionandosi su una sfera non di “ritorno di immagine diretta” o di “convenienza del costo investito per ogni “contatto” di pubblico, per la propria impresa, quanto sulla dimensione sociale del “sostegno alla autonoma produzione culturale innovativa” e “di qualità”, dove la qualità sta per la credibilità acquisita, il radicamento territoriale, i curricula professionali dei gruppi o realtà titolari dei progetti.
E’ a partire da questa seconda modalità di intervento che è nata e si è sviluppata una forma di relazione “virtuosa” tra imprese private e alcune realtà dello spettacolo: una formula che connette la scelta dell’impresa privata di praticare e rendere conto della propria “responsabilità sociale” verso i propri principali interlocutori o portatori di interessi con la disponibilità- volontà dell’impresa di produzione culturale di affermare e praticare contestualmente il proprio schema valoriale e la missione condivisa della propria progettualità, a servizio della collettività e del territorio in cui essa opera; di riaffermare nelle proprie scelte e nei propri comportamenti artistici, di uso delle risorse, di rapporto con i pubblici, con le amministrazioni locali e con gli altri operatori e produttori culturali “la funzione sociale del proprio agire teatrale o nella produzione culturale”
Le principali imprese italiane sono, intanto, andate verso la predisposizione e presentazione annuale di un Bilancio di responsabilità sociale o di sostenibilità , secondo standard sempre più affinati e condivisi, che costringono a “rendere conto” all’opinione pubblica ed ai principali stakeholders dell’impresa della dimensione, non “obbligata dalle leggi vigenti”, ma perseguita e scelta tenacemente, delle proprie azioni di responsabilità sociale.
Si spiega in questo modo il passaggio dalla precarietà ed occasionalità di un intervento principalmente “comunicativo” da parte delle imprese, alla nuova dimensione progettuale e di coinvolgimento ex-ante, nel momento della predisposizione dei budget da parte delle stesse, che non può che essere la condizione per interventi importanti sul piano economico, programmati nel tempo, misurabili nei risultati o negli scostamenti da quanto dichiarato. Il Bilancio di responsabilità sociale di Ugf Banca, di Coop, di Manutencoop, di Camst, di Granlatte spa, di Cadiai, di Ansaloni o di Murri, solo per restare ad alcune grandi cooperative presenti e radicate nel territorio bolognese, comprende,in modo discusso e partecipato con i soci e con gli interlocutori principali, le azioni rivolte a dare strumenti ed alimentare un sostegno diretto alla produzione culturale e alla sua autonomia. Una scelta a rafforzare, sostenere l’autonoma produzione culturale come fattore indispensabile di ricchezza e di futuro per il territorio in cui l’impresa opera. In questo, poi, in particolare la logica insita nella cooperazione, rispetto alle realtà private, di essere ostile alla delocalizzazione in quanto, come suo valore distintivo, prevalente espressione, unitamente alla propria base sociale, di uno specifico territorio favorisce la “trasparenza”, “tracciabilità”, “verifica di coerenza” delle azioni intraprese, oltre ad una diversa stabilità di relazione con i soggetti della cultura.
Analogamente la “best practice”, di sicuro valore internazionale, della presenza di oltre 1,400.000.000 euro di capitale di rischio-capitale sociale da parte di soci sovventori, cooperative e privati, all’interno della cooperativa Nuova Scena, Arena del Sole, Teatro Stabile di Bologna, ci da conto della qualità dei risultati prodotti e della stabilità e serietà delle relazioni costruite con il territorio da parte di questa esperienza a supporto della propria straordinaria attività di produzione culturale e di programmazione. In questo modello, quello cooperativo con la presenza nella compagine sociale di soci sovventori, la governance dell’impresa non è scalfita e resta pienamente nelle facoltà dei soci ordinari. Nel contempo ogni disavanzo dell’impresa va ripianato e fa capo direttamente ai soci che devono , quindi, sviluppare una funzione “sociale”, di teatro stabile di iniziativa privata di “interesse pubblico”, con l’assoluta capacità di far convivere qualità produttiva e di distribuzione ed “equilibrio” di un conto economico annuale che, altrimenti, necessiterebbe di un immediato e doloroso ripiano da parte di tutti i soci.
La scelta dichiarata e consapevole di molte grandi imprese private e cooperative di dare conto ai propri stakeholders di un sostegno alla cultura come fattore di civiltà e di sviluppo delle comunità in cui le imprese operano fa, paradossalmente, emergere una debolezza-arretratezza del settore culturale nel definire in termini di valori e comportamenti, in tutta trasparenza, la propria missione ed il proprio uso sia delle risorse “private” o “proprie”, sia di quelle pubbliche: manca, cioè, proprio nella cultura e nel teatro, che parrebbero invece i più vicini unitamente alla cooperazione sociale e alle onlus, a poter recepire questi indirizzi, una scelta ed una pratica coerente e consapevole di “comunicazione sociale” del proprio Bilancio, che si affianchi a quello per il Ministero e civilistico. Manca la scelta consapevole ed organica di avviare una grande stagione di trasparenza e di confronto, per dare conto ai propri stakeholders delle proprie scelte, delle proprie azioni, delle proprie finalità all’interno di uno schema valoriale dichiarato e pubblico: mancano, eccetto poche e pregevoli eccezioni,quale quella encomiabile della Compagnia dell’argine e del Teatro che ci ospita, i Bilanci di responsabilità sociale delle imprese, associazioni, Fondazioni che operano nello spettacolo... Eppure potrebbe o “dovrebbe” emergere da questa capacità di uscire dalla autoreferenzialità per confrontare giudizi, e dar conto di risultati, di azioni e comportamenti misurabili e valutabili in base a parametri quantitativi e qualitativi, quella “funzione sociale” “utilità sociale” dell’impresa-associazione dello spettacolo, sempre più urgente anche per incontrare “virtuosamente” nuove disponibilità private a sostenerne le progettualità nell’interesse delle comunità locali.
BP2010 Un ragionevole sguardo al futuro Per nuove politiche culturali (spunti per una riflessione) di Francesco De Biase
Riduzione delle risorse finanziarie, diminuzione della centralità della cultura nelle agende politiche, assunzione di nuovi ruoli e funzioni da parte di soggetti privati, trasformazioni delle modalità di consumo, fruizione e partecipazione, invecchiamento delle organizzazioni culturali e situazione di emergenza in cui versa la gestione e la salvaguardia del nostro patrimonio culturale, sono alcuni dei fenomeni degli ultimi anni che richiedono sia una ridefinizione del ruolo e delle funzioni che la cultura svolge e può svolgere nello sviluppo sociale e economico del paese sia un'elaborazione di nuove politiche culturali di medio e lungo termine.
La “veduta corta”
Le politiche pubbliche per la cultura, come quelle economiche e sociali, sono gestite e realizzate con quella che Padoa Schioppa definisce “una veduta corta”,(1) intendendo con ciò “un accorciarsi dell’orizzonte temporale del pensiero e degli interventi, che riguarda i mercati, i governi, la comunicazione, le imprese, la stessa famiglia, i nostri atteggiamenti mentali”.
Un’incapacità, e in altri casi anche un’impossibilità, di andare oltre il calcolo di breve periodo. Sia nell’individuo sia nella società regna “un’ideologia del presente e dell’evidenza che paralizza lo sforzo di pensare il presente come storia, un’ideologia impegnata a rendere obsoleti gli insegnamenti del passato, ma anche il desiderio di immaginare il futuro”. “Da uno o due decenni, il presente è diventato egemonico”. Agli occhi del comune mortale, non deriva più dalla lenta maturazione del passato e non lascia più trasparire i lineamenti di possibili futuri, ma si impone come un fatto compiuto, schiacciante, il cui improvviso emergere offusca il passato e satura l’immaginazione del futuro. È da queste considerazioni che Marc Auge, si interroga su “Che fine ha fatto il futuro”. (2)
Si rischia che venga a mancare una delle funzioni principali della politica: immaginare il futuro e renderlo possibile, attraverso l’individuazione di finalità, modelli, proposte e percorsi per rispondere (sarebbe anche auspicabile qualche volta anticipare) alle mutazioni e alle trasformazioni della vita di una nazione.
Le recenti politiche pubbliche per la cultura
Diverse le fasi che hanno caratterizzato la vita culturale del nostro Paese.
Dopo quella mecenatistica pre-industriale e il passaggio alla fase delle industrie culturali si è giunti a ciò che Sacco definisce “culturalizzazione dell’economia”, l’associazione dell’arte (e più in generale i contenuti di natura culturale) ai processi di formazione del valore economico con una radicalità mai conosciuta in altre epoche. “È la combinazione tra il vivere esperienze culturali capacitanti e l’espandere le libertà positive che dà luogo al processo di acquisizione di nuove competenze, che sta alla base del meccanismo di sostegno allo sviluppo economico attraverso l’investimento in attività culturali. In altre parole, le nuove competenze si sviluppano in risposta agli stimoli provenienti dalle nuove forme di capitale legate all’azione della razionalità espressiva piuttosto che di quella strumentale, rappresentate dal capitale culturale, simbolico e identitario. Solo le società che saranno in grado di dotarsi di un livello di capitale culturale, simbolico e identitario tale da sostenere l'innata propensione degli individui a vivere esperienze culturali di stimolo alla creatività potranno competere sulla scena dell’innovazione”. (3)
Questo e molte altre trasformazioni, si sono sviluppate in seguito a una serie di fenomeni che hanno cambiato le nostre società, dalla crisi industriale ai flussi migratori, dai ai processi di globalizzazione alla nascita e diffusione di media e tecnologie con le conseguenti modifiche e moltiplicazioni delle modalità di relazione, di informazione, di scelta dei prodotti, di fruizione e partecipazione.
Di fronte all’insieme di cambiamenti avvenuti, negli scorsi decenni sono state elaborate politiche e interventi che hanno individuato nella cultura una risorsa fondamentale per la trasformazione di interi territori e della vita dei cittadini.
Tali politiche hanno mirato a:
- dotare le città, attraverso la costruzione e/o la ristrutturazione di immobili (ex fabbriche, officine, capannoni) di centri culturali, biblioteche, parchi multimediali, teatri, multisale cinematografiche, centri servizi, parchi tecnologici;
- riformulare e realizzare piani di ammodernamento e abbellimento di intere aree, restaurando monumenti, siti e palazzi storici, ampliando anche gli spazi per il tempo libero e l’aggregazione;
- favorire la partecipazione dei cittadini alla vita socio-culturale attraverso iniziative che hanno diminuito e ridotto alcuni degli ostacoli economici e sociali che vi si frapponevano. Sono nati abbonamenti, facilitazioni, card, carte dei servizi e nuove esperienze di partecipazione e fruizione culturale;
- migliorare la qualità e l’efficacia dei servizi attraverso sia loro esternalizzazione (fondazioni, consorzi, istituzioni, società) sia introducendo pratiche di management e marketing;
- incrementare la presenza turistica nei diversi territori e migliorare “l’immagine” e la “visibilità” nazionale e internazionale di Città e di intere aree, attraverso promozione delle risorse ambientali, gastronomiche e culturali e l’organizzazione di importanti eventi artistici, sportivi, politici e sociali;
- sostenere la crescita e la valorizzazione del territorio attraverso la creazione di piattaforme di azione integrata e coordinata tra diversi settori: turismo, beni culturali, spettacolo, gastronomia, tradizioni locali,
- recuperare e conservare le culture locali;
- sostenere la crescita e il radicamento e l’interscambio di soggetti artistici agenti sul territorio nazionale attraverso logiche dimensionate su aspetti progettuali, tecnici.
- incrementare la sia quantitativamente sia qualitativamente le diverse tipologie di manifestazioni culturali (festival, rassegne, fiere, saloni, sagre, ecc.)
- raccordare maggiormente l’intervento pubblico con quello dei privati.
Molti di tali interventi hanno contributo non solo al rilancio e alla promozione di città e di intere aree, ma anche a creare un ricco tessuto occupazionale, sociale e di miglioramento della vita dei cittadini.
Contemporaneamente si sono evidenziati alcuni limiti strutturali dell’intervento pubblico e privato nel settore (alcuni lungamente presenti e radicati fortemente nella realtà italiana) come:
- l’aver considerato l’investimento culturale più una spesa che una risorsa economica e sociale. Permane sostanzialmente bassa la spesa per la cultura in Italia;
- l’aver erogato i fondi pubblici per il sostegno alle attività culturali spesso con il cosiddetto meccanismo a pioggia, in assenza di criteri di valutazione dei progetti proposti e di valide procedure di verifica dei risultati. Tale modalità ha fatto sì che venissero meno elementi quali la concorrenza e il prevalere della qualità;
- l’aver privilegiato la funzione di conservazione e tutela dei beni culturali a scapito della promozione e dell’incentivazione della fruizione da parte del più ampio pubblico del nostro patrimonio artistico/culturale;
- “l’incapacità spesso di generare ed implementare politiche culturali pubbliche sensate, ragionevoli, appropriate, evitando sprechi, e disseminazioni inutili;
- l’incapacità di leggere e comprendere la contemporaneità, i fenomeni e i trend legati alle evoluzioni delle pratiche culturali, i link delle arti e della cultura con altri fatti e componenti della struttura sociale;
- l‘eccessiva attenzione a elementi come la comunicazione, la celebrazione, la costruzione di consenso giocati sul clamore degli eventi anziché sulla capacità di un loro impiego strategico e funzionale anche nel tempo;
- la visione distorta della complementarietà di altre forme e fonti di sostegno (ad esempio mondo delle imprese) a cui si è inteso retoricamente abdicare maggiori responsabilità e ruoli, non considerando esigenze e logiche che caratterizzano la realtà aziendale e di fatto offrendo pochi incentivi reali, come ad esempio benefici fiscali chiari e semplificati; (4)
- non aver considerato attentamente la sostenibilità economica a lungo termine degli interventi e delle azioni patrimoniali messe in atto. La creazione di spazi per la cultura e il conseguente aumento dell’offerta non si sono basati su analisi del consumo culturale esistente, sui suoi possibili sviluppi e sull’individuazione di strategie e metodologie per incrementarlo. L’aumento dell’offerta non genera automaticamente l’aumento della domanda.
- non aver elaborato e approvato normative generali e di settore in grado di regolamentare puntualmente e strategicamente in modo chiaro e competente interi settori del comparto;
- l’incapacità di razionalizzare la giungla dei percorsi formativi e delle normative riguardanti le professioni del comparto;
- l’episodicità di interventi tesi a integrare e far cooperare ambiti e comparti differenti quali la cultura, il turismo, il tempo libero, l’enogastronomia, l’ambiente, per la costruzione di veri e propri distretti e strategie per la concertazione di azioni e programmi.
Molti le responsabilità degli operatori:
- essersi considerati esclusivamente come dei soggetti artistici e non anche come delle imprese agenti su un mercato, (anche se in un mercato molto particolare)
- non aver sufficientemente considerato e sentito l’esigenza di reperire risorse finanziarie al di fuori di quelle erogate dagli enti pubblici e da alcuni organismi privati, non utilizzando, ritenendoli secondari, molti degli strumenti che le imprese di altri settori utilizzano per realizzare o incrementare il loro business: marketing, comunicazione, fidelizzazione dei clienti, politica dei prezzi, ecc.
- aver privilegiato, come principali referenti per il confronto nelle diverse fasi di ideazione, progettazione e verifica dei risultati, gli operatori di settore, i critici, la stampa di settore, generando circuiti autoreferenziali che ben poco ha coinvolto i visitatori e gli spettatori.
- aver agito con una scarsa cultura manageriale, arroccandosi in concezioni artistiche , pratiche organizzative e metodologie prive di visioni strategiche.
Un ragionevole sguardo al futuro
La breve analisi dei precedenti paragrafi evidenzia come non si tratta solo ed esclusivamente di una crisi temporanea inerente fondamentalmente la scarsità di risorse finanziarie, ma piuttosto di una trasformazione dei modelli e dei paradigmi culturali finora adottati.
Vi è una diminuzione oggettiva delle disponibilità di risorse e investimenti, conseguente a crisi economiche congiunturali e strutturali, a problematiche della finanza pubblica centrale e locale, ad una sostanziale ridefinizione delle priorità del pubblico intervento, ad esempio necessità di assicurare servizi basilari alla collettività
A tale diminuzione, si aggiunge anche la “perdita di vista da parte della pubblica amministrazione, e della politica in generale, di alcuni ruoli pubblici e di funzioni strategiche, identificabili nella cultura, di importanza fondamentale per la collettività, con conseguente definizione di altre priorità nell’azione pubblica”. (5)
Sempre più diffusamente, infatti, vengono espresse opinioni inerenti l’utilizzo delle risorse finanziarie pubbliche (in alcuni casi anche private, mi riferisco ad alcune importanti fondazioni bancarie), che ritengono la spesa per la cultura effimera e secondaria rispetto a quella relativa ad altri comparti della vita pubblica, quali la sanità e l’istruzione, ponendole spesso come alternative. False dicotomie? Oppure siamo effettivamente di fronte ad un ripensamento del ruolo che la cultura può e deve svolgere nella società? I finanziamenti pubblici alla cultura possono ancora essere considerati investimenti al pari di altri per una politica di welfare?
Baricco, in un intervento sulla "Repubblica" del febbraio 2009, in sostanza dice che pur condividendo le finalità che hanno motivato e sostenuto l’intervento pubblico, come il favorire l’ampliamento e la partecipazione dei cittadini alla vita culturale, la difesa e conservazione di alcuni “gesti o repertori”, l’elevare la formazione morale e civile dei cittadini, ritiene che esse tuttavia non siano state raggiunte. O quantomeno, non è grazie agli interventi ed ai fondi pubblici che sono avvenute alcune trasformazioni. Ad esempio secondo l’autore l’incremento dell’accessibilità alla cultura è avvenuto soprattutto grazie a internet, alla globalizzazione, alle nuove tecnologie, all’aumento del tempo libero, ecc. “tutte cose accadute nel campo del mercato senza alcuna protezione specifica di carattere pubblico”. Anzi nei settori dove è stato più forte l’intervento pubblico(teatro, lirica, danza,ecc.) vi è stato meno “democratizzazione”.
Da tutto ciò, sempre secondo Baricco, è evidente un indizio chiaro: “se si tratta di eliminare barriere e smantellare privilegi, nel 2009 è meglio lascia fare al mercato”.
La salvaguardia di preziosi gesti e repertori, la creazione di posizioni di monopolio, l’assenza sostanziale dei privati e della loro azione in ambito culturale, l’elitarietà di diversi ambiti e manifestazioni, l’ingessamento e la non produttività di ampi comparti e molti altri sprechi, le cristallizzazioni e le rendite di posizione, l’assenze di valutazioni fanno chiedere sempre a Baricco se “potrebbero far meglio i privati”
In un recente Forum mondiale dell’Unesco su Culture and the cultural industries è stato ampiamente sottolineato il peso crescente dell’industria culturale nell’economia odierna, per la rilevanza economica (6,4% del Pil dell’Unione Europea, superiore a quello dell’industria automobilistica e dell’ICT) alla dimensione occupazionale (5 milioni di persone nel 2005 nell’UE), per lo sviluppo e la capacità di innescare processi di innovazione e ricerca, dalla produzione di specifici significati identitari per gli individui e i territori.
Economisti e politici dichiarano da più parti che la ripresa economica per risolvere la crisi attuale può derivare dall'azione concertata di cultura, creatività e innovazione (Frattini e Bondi).
Che cosa intendiamo oggi per cultura? Quali sono gli ambiti che riteniamo debbano rientrarvi (siti, musei, concerti, teatri, festival, Facebook, televisione, lirica, scuola, le fiere. È cultura il passato? È cultura il presente?, è cultura l’innovazione e la ricerca A chi tocca promuovere e finanziarla? A chi la produce, ai cittadini, ai privati, al pubblico? Chi sceglie? In base a quali criteri, principi e prospettive? Quali devono essere le funzioni e i compiti dello Stato e degli enti locali? Quale ruolo devono svolgere gli enti privati? Quale rapporto tra culture locali, nazionali e internazionali,? Quali strumenti giuridici, fiscali, amministrativi utilizzare? Quali politiche per favorire, incrementare e qualificare l’accesso?
Tra tutti quesiti e le questioni da affrontare ve n’è anche una relativa ai soggetti e agli operatori culturali. È indispensabile superare situazioni di arroccamento, di rendita di posizione, di assenza di visioni strategiche, di azioni autoreferenziali d’incapacità, di rinnovamento e cambiamento.
Questi temi richiedono un’analisi dei modelli e delle politiche messe in atto in questi ultimi anni, valutando la loro validità attuale, e conseguentemente l’elaborazione di un orizzonte di riferimento, di strategie, di progetti e programmi per i prossimi anni. Funzione propria e specifica, questa, in primis della politica.
E se la politica agisce senza “l’ipotesi che un altro mondo è possibile, non c’è politica, c’è soltanto la gestione amministrativa degli uomini e delle cose” (E.Bloch).
NOTE
1) Tommaso Padoa-Schioppa La veduta Corta, Il Mulino Contemporanea, marzo 2009
2) Marc Augè Che fine ha Fatto il futuro, Elèuthera, ottobre 2009
3) Pier Luigi Sacco, Giovanna Segre, L’accesso alle opportunità culturali nell’economia dell’esperienza in L’arte dello spettatore, a cura di Francesco De Biase, collana Pubblico, Professioni e Luoghi della Cultura Franco Angeli, 2008
4) Lucio Argano, Paolo Dalla Sega, Nuove organizzazioni culturali, Franco Angeli 2009
5) ) Lucio Argano, Paolo Dalla Sega, Nuove organizzazioni culturali, Franco Angeli 2009
BP2010 Lo spazio dell'indipendenza: tra le radici e l'altrove Un appunto di Pietro Floridia
Quali sono i rischi maggiori per l’indipendenza di un teatro che vorrebbe essere indipendente?
Il criticare un sistema di pensiero, per esempio facendo spettacoli contro, di denuncia, oppure il dedicarsi anima e corpo alla propria ricerca mette automaticamente al riparo dal divenire dipendenti, dall’introiettare le logiche profonde di quel sistema che si critica?
Queste le domande da cui muoverà il mio ragionamento, in cui tenterò di raccontare come e perché secondo la nostra esperienza, sia necessario avere come unità di misura, come materia da plasmare per cercare di mantenere una rotta indipendente, non solo l’azione del proprio gruppo o del proprio spazio teatrale ma più in generale il contesto, l’ambiente dentro cui il teatro opera.
Nel nostro caso il territorio e la comunità che ci circonda. Comunità che però non esiste, esistono tante solitudini, tante individualità, la comunità va ricreata. Questa è la sfida di un teatro che voglia autodeterminarsi. Reinventarsi lo spazio teatrale, reinventarsi rituali teatrali che siano fucina di un agire comune, di condivisione di esperienze, ed attraverso di esse, dunque di realtà non individuale ma sociale, di mondo comune, di un ambiente in cui sia possibile emanciparsi dai valori (o disvalori) che sembrano pervasivi. Un mondo comune che se non vuole chiudersi su se stesso e finire per riprodurre le dinamiche dominanti, non può che farsi squassare, attraversare, mettere in discussione dall’altro, dal diverso, dal portatore di altrove. Nel nostro caso migranti, rifugiati politici, artisti e gruppi che arrivano dagli altrove del mondo.
BP2010 Indipendenza da cosa? Una mail alle Buone Pratiche di Laura Barbiani
In primo luogo grazie dell’invito a Bologna dove ho sperato fino ad ora di poter venire; per seguire i vostri lavori, ovviamente, ma anche per raccontare qualcosa d’una nostra “buona pratica” e cioè di quel progetto di valorizzazione del teatro veneto del Novecento condiviso fin dall’inizio (era il 2006) con Pierluca Donin di Arteven e con la Teatri spa di Treviso. Poiché ora so che non mi riuscirà d’essere con voi a Bologna, vi mando qualche considerazione (interrogativa) nata dai vostri stimoli di riflessione sul “teatro pubblico” e in particolare sulla sua indipendenza.
Ma indipendenza da cosa? – mi sono subito chiesta. Cos’è che, oggi, più minaccia la libera espressione del teatro pubblico, il suo sviluppo, e la sua creatività? Le ingerenze della politica o il sostanziale disinteresse della politica per un settore poco rilevante in termini elettorali e perciò considerato solo in termini di piccole clientele personali di questo o quel ministro, sindaco, o assessore (nessuno escluso)? La difesa strenua dei privilegi di casta di chi lo dirige o la rassicurante scelta identitaria d’essere “comunque contro” di tutti gli altri? La continua sottrazione di fondi pubblici o i diktat del mercato che premia l’intrattenimento puro, meglio se comico e preferibilmente di stampo televisivo? L’ottusità dei Consigli di Amministrazione di nomina politica, corretta o aggravata che sia dall’invadenza di eventuali presidenti-direttore, o i buchi di bilancio sempre assolti in nome dell’arte (purché propria)? La mancanza di ricambio generazionale ai suoi vertici o l’imbarazzante provincialismo ombelicale che vediamo diffuso in ogni ambito generazionale? Una società poco sensibile al valore strategico del proprio sviluppo culturale o la perniciosa autoreferenzialità dei teatranti? Una deprimente faziosità-superficialità di giudizio (pollice sempre su per gli amici e giù per tutti gli altri) o la mancanza di idee, curiosità, autocritica e coraggio? La paura di mettersi in gioco chiamato amore per le eccellenze della tradizione o quell’ignoranza fecondissima di presunzione che porta a convincersi di non doversi misurare con alcuna tradizione? La rincorsa al pubblico pagante (l’inchino a titoli e nomi di richiamo) o il fastidio di doversi confrontare con il pubblico in genere (“se non apprezza il mio lavoro è segno che deve essere educato”)? La tendenza a somigliare a una grande compagnia di giro col “giro” protetto dalla rete nazionale degli scambi o quella bandiera del “territorio” agitata con livore da chi pensa che il territorio si identifichi col proprio gruppo, lavoro o dialetto? E naturalmente si potrebbe continuare ancora e ancora, per esempio chiedendosi cosa sia peggio tra i nostri teatri che chiamano “lavoro nella scuola” la deportazione degli studenti in sala o le scuole che corrono se proponi Pirandello o Shakespeare e scappano di fronte a tutto ciò che i professori non conoscono. Insomma a me pare che si sia di fronte a un problema compesso, e perciò destinato a sfuggire completamente a chiunque pensi d’averne già la soluzione in tasca. Magari buona in sé, per tutti e per sempre, con buona pace d’ogni diversità d’esperienza e libertà di pensiero.
Detto questo, immagino vi risulterà ovvio ciò che mi spinge a vedere nelle Buone Pratiche” – e nel suo principio ispiratore “esperienze versus ricette” – un’iniziativa felice e lungimirante, e tanto più quanto più si dimostri capace di contrastare quell’inesauribile proliferare di barriere precostituite che fanno del teatro italiano uno dei più fulgidi esempi di spietatezza alla homo homini lupus... A proposito, sarà un caso che a inventarselo pare sia stato un grande commediografo?
Chiudo augurandomi che non ci si riduca a dover aspettare la prossima sessione delle Buone Pratiche per incontrarci.
Cordialmente,
Laura Barbiani
BP2010 Un pensiero sulle Buone Pratiche del Teatro Con un aneddoto di Leo di Marco Sgrosso
Vorrei innanzitutto ringraziare Mimma ed Oliviero per averci invitato a trasmettere una testimonianza relativa alla nostra esperienza, in un ambito così necessario e così “illuminato” come quello descritto con mirabile equilibrio di sintesi e di lucidità nel loro articolo del 10 gennaio sulle Buone Pratiche del Teatro.
Rispondere sulla complessità degli argomenti analizzati richiederebbe un tempo ed uno spazio eccessivi, mi limiterò quindi a sfiorare quella complessità cercando di essere sintetico, con riflessioni che scaturiscono dalla mia esperienza diretta e da una pratica teatrale appassionata e continua di oltre 25 anni.
L’incipit dell’articolo citato è il motivo che ha alimentato la mia ‘passione’ per tanti anni, permettendomi di mantenerne vivo lo smalto, a dispetto delle “cattive pratiche” che ho scoperto rapidamente in quello che l’entusiasmo giovanile mi dipingeva come un mondo incantato : il Teatro è un edificio, una casa di solida pietra!
Credo sia necessario interrogarsi sugli strumenti, sui tempi e sui modi necessari ad una solida costruzione, e non di meno sull’impegno indispensabile al mantenimento e al nutrimento di una simile costruzione.
Io ho avuto la fortuna di ‘formarmi’ con Leo, un maestro indiscutibile non soltanto dell’arte e dello stile teatrale, ma anche del pensiero ‘etico’ sotteso a questa professione.
Lavorando al suo fianco con un’indimenticabile e preziosa intesa per oltre 15 anni, ho imparato un senso del teatro dove la pulizia e il rigore della forma non erano disgiunti da altre necessità, che riguardano l’indipendenza delle scelte, la difesa dell’autonomia creativa, il rispetto profondo per la professione e per la funzione del teatro come arte capace di aprire la via alla libertà del pensiero. Tutto ciò ha comportato una chiarezza di intenti che cerco di preservare facendo i conti con una realtà che non favorisce questi percorsi, e di conseguenza la consapevolezza che questa è una via più dura e più solitaria, anche se non priva di molti compagni di percorso per i quali il Teatro è una necessità vitale ed uno strumento di unione, liberazione e civiltà.
La presenza di un pensiero ‘etico’, e non moralistico, sotteso alla prassi della professione penso sia dunque il primo indispensabile passo verso un percorso di “buona pratica teatrale”.
Esso regola il rapporto con i compagni di lavoro innanzitutto, ma anche la relazione con tutti i livelli interlocutori della produzione e della creazione.
Attraverso una fase di apprendistato coltivata con l’esortazione a definire una mia identità non solo attorale ma anche autoriale, ho imparato un ‘modo’ di concepire il Teatro che tenesse conto del rispetto profondo, non acritico e non museale, della tradizione e al contempo l’importanza della ricerca e della sperimentazione per allargare gli orizzonti creativi, nonché appunto della necessità di un’etica professionale che desse un senso più compiuto alla pratica della professione stessa.
Al di là di alcune inevitabili distanze dal pensiero di Leo maturate con la crescita e con la consapevolezza che è impossibile non fare i conti con la varietà delle condizioni e delle situazioni, questo ‘modo’ lo condivido pienamente e mi stupisco di quanto frequentemente sia difficile farne comprendere l’assoluta necessità per migliorare le condizioni del lavoro di tutti quanti sono impiegati in questo settore.
Credo sia molto importante e utile – sebbene non facile – saper definire il proprio percorso attraverso l’apertura a situazioni a volte inaspettate e difendere il proprio pensiero ‘artistico’ senza erigere barriere di incomunicabilità ma al tempo stesso senza cedere a meccanismi fuorvianti e malati che rischiano di inquinarne il percorso.
Purtroppo questi meccanismi sono vari e frequenti, e sono generati esattamente da una spinta propulsoria opposta, cioè quella di cercare di imporre il proprio interesse a dispetto del rispetto reciproco e di un senso etico della professione.
La lunga esperienza di attore nella compagnia di Leo assieme ad Elena Bucci, mi ha condotto a fondare con lei una nostra compagnia autonoma, in cui oltre che attori e autori delle nostre produzioni, siamo curatori della progettualità e responsabili dell’organizzazione, dell’amministrazione e di tutti gli altri aspetti relativi alla vita della compagnia stessa.
Accanto alla realizzazione dei nostri spettacoli, a Russi (dove la nostra associazione ha sede) abbiamo organizzato piccole rassegne teatrali a budget ridottissimi, e da Russi è partita la cura di un’attività dedicata alla conduzione di laboratori di formazione possibilmente mirati ad esperienze continuative e non occasionali, come pure l’ideazione di eventi dedicati alla valorizzazione del territorio, tra i quali una lunga e fortunata battaglia per la ristrutturazione del Teatro Comunale, convinti appunto della necessità di un ‘edificio di solida pietra’ che raccogliesse, ampliasse e sviluppasse gli sforzi, gli stimoli e i bellissimi frutti coltivati con tanta pazienza e tanta passione.
Da alcuni anni infine, dedichiamo una parte della nostra produzione alla rilettura del patrimonio teatrale attraverso la scelta di celebri testi della drammaturgia classica.
Questa progettualità si è sviluppata lavorando in stretta collaborazione con altre compagnie private o con alcuni Teatri Stabili.
La varietà di aspetti della nostra esperienza mi ha consentito di riflettere su molti degli argomenti dell’articolo di Mimma e Oliviero, poiché – pur senza la passione e le capacità che ci anima nella sfera creativa – abbiamo dovuto imparare a fare i conti con aspetti meno appassionanti ma altrettanto necessari, dal rapporto con le Istituzioni a quello con direttori artistici e organizzativi, responsabili di circuiti, personale di servizio e di ufficio, etc.
Nel nostro caso, ad esempio, la contaminazione produttiva di una compagnia indipendente come la nostra e non sovvenzionata dal Ministero (scelta, questa, voluta per sottrarsi al meccanismo infernale delle sovvenzioni statali benché sempre campo di dubbi e riflessioni in corso) con un Teatro Stabile non ‘pachidermico’ e forte di una storia produttiva da sempre vivace ed interessante come il Centro Teatrale Bresciano, credo sia il segnale molto positivo di una possibilità collaborativa che torna a favore di entrambe le strutture nonché di una progettualità non destinata ad esaurirsi in un episodio occasionale ma capace di definire un percorso, ed essere quindi il segno di una via percorribile anche per altre realtà.
Logicamente, queste formule coproduttive funzionano se alla base della collaborazione si stabilisce un rapporto reciproco di fiducia, di reale interscambio e rispetto delle reciproche necessità, e se l’attenzione alla cura per i progetti comuni è condivisa. Non sempre questo è possibile, poiché spesso i vantaggi e le agevolazioni produttive dei Teatri Stabili sono vanificati dalle difficoltà gestionali di strutture complesse, dove può accadere che le esigenze artistiche - e cioè il nucleo stesso della ragione primaria di esistenza di quegli stessi organismi - sono ostacolate da assurdità incomprensibili quali la necessità di doversi adeguare alla totale mancanza di flessibilità degli orari, dei turni, delle pianificazioni del personale, e alla mancanza di comunicazione diretta e chiara tra le categorie dei diversi settori.
In simili circostanze accade che il motivo primo dell’esistenza di un Teatro Stabile – e cioè la produzione di arte e/o cultura – sia compromesso o comunque osteggiato dalle funzioni secondarie, che invece dovrebbero fungere da sostegno ed essere pianificate e organizzate a favore della produzione stessa.
In genere ciò accade tanto più frequentemente quanto maggiori sono le dimensioni della struttura, ed in simili circostanze è quasi sempre inevitabile che la maggior parte del personale impiegato all’interno della struttura stessa sia completamente disinteressato alle esigenze e alla buona riuscita del prodotto artistico.
Si determina così una situazione paradossale: laddove ci sarebbero i mezzi e gli strumenti per un lavoro agevolato tutto diventa più difficile e faticoso, mentre - in modo inversamente proporzionale – la felicità creativa e la soluzione dei problemi fiorisce più spesso nelle situazioni economicamente meno salde delle compagnie indipendenti.
Il,motivo di questa differenza è semplicissimo: mancanza o presenza di entusiasmo, di passione e di etica nella propria professione!
Nella parte conclusiva dell’articolo di Mimma e Oliviero, vengono poste alcune domande molto importanti e molto necessarie:
quale il senso e la funzione di un teatro pubblico…
come difendere l’identità e la continuità di un progetto culturale…
come risolvere una più corretta gestione del denaro tra pubblico e privato…
come si può oggi parlare di ricerca e sperimentazione…
quali sono i limiti e i rischi nella ‘contaminazione’ delle esperienze…
fino ad arrivare all’annosa questione del ricambio generazionale…
Confesso di essere sommerso dalla quantità di riflessioni in merito a questi argomenti, le risposte possibili sono molte e complesse, ma - pur con il rischio di dire un’ovvietà - penso sia opportuno recuperare due concetti basilari, che sono appunto figli di un approccio ‘etico’ alla professione: competenza e trasparenza!
Il primo dei due mi sta particolarmente a cuore e sono convinto che andrebbe difeso con maggiore forza e complicità da parte di artisti, intellettuali e addetti al settore.
La plateale mancanza di competenza – non soltanto teatrale e culturale ma anche relativa ai meccanismi e alle necessità di una produzione creativa – da parte di molti organi decisionali e individui ‘potenti’ è un cancro micidiale e purtroppo sempre più sviluppato. E’ un problema a vasto raggio, che contamina aspetti diversi della situazione teatrale italiana.
Attori, registi, organizzatori e altri professionisti del teatro, nonché compagnie indipendenti e non, si trovano troppo spesso ad avere a che fare con l’ignoranza di amministratori, direttori, critici, consiglieri di amministrazione che hanno il potere di determinare o di influenzare i loro percorsi professionali e di giudicare il loro lavoro senza avere la minima competenza necessaria per farlo.
Questa ‘cattiva’ pratica è piuttosto recente e sempre più diffusa e riguarda anche molti altri settori e professionalità, e tuttavia continuo a stupirmi dell’indifferenza e della mancanza di reazione con cui venga accettata.
È chiaro che questa pratica va a braccetto con l’altra sua cattiva gemella, e cioè la politicizzazione delle cariche, l’ingerenza partitica in tutte le sfere della gestione pubblica e anche di quella privata, sorella a sua volta della mancanza di trasparenza nell’assegnazione dei ruoli e delle cariche, dove l’eventuale competenza in materia diventa un possibile (e purtroppo sempre più raro) valore aggiunto piuttosto che un motivo sine-qua-non, quando non è addirittura considerato una possibile ragione di fastidio!
Le conseguenze delle ‘cattive pratiche’ dovute al proliferare della mancanza di competenza e di trasparenza nell’universo teatrale italiano ammalano tutti gli argomenti delle domande poste da
Mimma e Oliviero, e ne suggeriscono per contrapposizione le risposte possibili.
Il senso e la funzione di un teatro pubblico non possono essere definiti da amministratori o assessori inetti o corrotti, la cui preoccupazione principale è spesso quella di interrompere progetti culturali in atto solo perché promossi da cariche precedenti di altro colore partitico oppure quella di favorire interessi di stampo massonico.
Lo stesso problema riguarda la difesa di quei progetti culturali che necessitano di un tempo lungo di maturazione e che invece sono spesso interrotti o sviliti appunto dalla successione di quelle cariche che dovrebbero essere preposte a favorirne lo sviluppo.
Episodi a dimostrazione di questo meccanismo malato - nemico di ogni crescita culturale e artistica, nemico di chi opera nel proprio settore con passione e dedizione, nemico di chi è fruitore e destinatario del prodotto creativo - sono purtroppo molto frequenti e l’indignazione generale che in alcuni casi provocano non sembra sufficiente ad impedirne la monotona reiterazione in altri luoghi o in situazioni simili.
Il recente caso della Civica Scuola Paolo Grassi di Milano, dove la revoca dalla carica al direttore artistico è stata imposta in modo barbaro da un Consiglio di Amministrazione ignorante o disinteressato delle reali necessità didattiche della Scuola stessa e privo di argomenti sussistenti, è parente di altri casi più o meno noti in cui direttori artistici competenti e motivati sono soffocati dal rapporto con i “poteri” che li sovrastano e che spesso ne interrompono progettualità intelligenti, senza motivazioni comprensibili, senza alternative valide e soprattutto senza la competenza e la trasparenza di cui il proprio ruolo decisionale dovrebbe essere garanzia.
Lo stesso problema si pone purtroppo anche per quanto riguarda il discorso del ricambio generazionale, questione delicata e complessa.
Il rispetto per la tradizione non va confuso con il perdurare atavico di personalità o di situazioni che hanno esaurito – per stanchezza, per comodità o per assopimento - la loro funzione-guida; ma al tempo stesso la promozione di quadri e di nomi nuovi non può essere avulsa dall’acquisizione di competenze professionali che vanno verificate sul campo.
Non basta certo la proclamazione da parte di intellettuali o critici di parte - ossessionati dall’ansia della scoperta di nuovi talenti, nuovi linguaggi e nuove proposte oppure preoccupati di dare credibilità ai propri ‘protetti’ - a rendere legittime investiture improbabili, senza contare che non basta essere ‘nuovi’ per essere significativi e che la giovinezza anagrafica non sempre è sinonimo di novità creativa.
Gran parte del sistema teatrale è oggi schiacciato nella morsa stretta tra la difesa di situazioni inamovibili da un lato e dall’affannosa ricerca di espressioni ‘nuove’ dall’altro, nella colpevole dimenticanza che il teatro è un’arte artigianale che si costruisce in un tempo lungo, paziente, necessario di approfondimenti meditati più che di rapidi risultati le cui tracce sono labilissime. Costruiamo sui frutti di quanti ci hanno preceduto, e penso sia opportuno farlo con amore e con il giusto rispetto, soprattutto quando si aprono spiragli nuovi che difficilmente non sono debitori almeno in parte delle esperienze passate. Eppure vedo prolificare più spesso situazioni di contrasti e di rivalità che non esempi di convivenza leale e di rispetto che tanto più sarebbero utili alla definizione di un fronte comune per correggere almeno in parte le ‘cattive pratiche’ citate prima.
Difendere e promuovere la propria identità artistica non implica necessariamente atteggiamenti di sufficienza per identità di segno diverso, senza contare che spesso la visione di esperienze differenti dalla nostra può aprirci utili spunti di riflessione e magari anche stimoli inaspettati.
La mia esperienza di allievo di un grande maestro, di attore, regista e pedagogo mi ha insegnato che la complicità aiuta il processo creativo tanto quanto il contrasto lo inibisce e lo irrigidisce in forme vuote di vita e di gioia. È semplice e scontato quello che dico, ma allora perché è così complesso favorire le condizioni perché ciò accada?
La politica gestionale delle grandi produzioni, i criteri più diffusi nella definizione delle programmazioni teatrali, i meccanismi ostinati e oscuri della distribuzione e della vendita, la ridicola mancanza di relazione tra accademie drammatiche e centri di formazione con teatri e centri di produzione, il rapporto assurdo e malato tra critici e artisti, basato più spesso su alleanze di segno massonico o sulla completa indifferenza reciproca che non su un dialogo aperto e utile ad entrambe le categorie…tutte queste situazioni lavorano in segno opposto alla collaborazione necessaria per la creazione di un teatro pubblico forte.
Un teatro capace di superare l’autoreferenzialità, di favorire uno scambio produttivo tra artisti, critici, intellettuali e studiosi ma soprattutto capace di parlare allo spettatore reale e non soltanto all’adepto di questa o quella setta. Un teatro necessario alla comunità e quindi più facilmente alieno da gestioni discutibili.
Leo ci raccontava spesso l’aneddoto di una sua conversazione con un personaggio ‘importante’ disposto ad aiutarlo a patto che – dopo tanti anni di “ricerca” – si decidesse finalmente a realizzare uno spettacolo vero: mi auguro che ogni commento sia superfluo, ma insidioso e birbantello riaffiora il fantasmino della competenza!
Quale competenza e trasparenza ha oggi chi è chiamato a garantire sulla validità di un progetto culturale o della programmazione di un festival o della stagione invernale di un teatro?
Come interrompere la cattivissima pratica degli “scambi” nelle programmazioni tra le produzioni dei teatri stabili, un malcostume che dovrebbe essere non soltanto vietato ma addirittura multato dal Ministero dello Spettacolo in quanto strangola la possibilità di sopravvivenza di tante compagnie e artisti privi di ‘protezione’ ma dotati di ispirazione creativa più sincera e più utile alla comunità pubblica?
E non dovrebbe forse lo stesso Ministero individuare una formula valida per dissuadere il proliferare in tante programmazioni teatrali degli stessi titoli e degli stessi autori, promuovendo attivamente la proposta di autori meno rappresentati ma non meno interessanti?
Pochissimi sono i direttori artistici capaci del coraggio e dell’intelligenza necessari a proporre cartelloni di segno diverso, così come quelli capaci di intuire con sensibilità viva la curiosità di un pubblico che da un lato sembra timoroso di avventurarsi in territori poco noti ma che in realtà è stanco di vedersi propinare sempre le stesse proposte.
E quei pochi non soltanto non sono sostenuti ma spesso addirittura ostacolati. Non dovrebbe essere funzione di un teatro ‘pubblico’ favorire questo processo?
E chi infine ha le competenze e la trasparenza necessarie per indicare una via condivisibile nel “ricambio generazionale”?
Non ho una soluzione per questi interrogativi, e non suggerisco utopie irrealizzabili, ma sono convinto che il primo passo sulla via di una ‘buona pratica teatrale’ sia da un lato quello di avere il coraggio e la determinazione di mettere a fuoco la propria identità artistica senza temere esclusioni e senza il bisogno di sentirsi omologati, e dall’altro quello di recuperare alcuni concetti semplici che – per quanto possano essere schiacciati dalle cattive pratiche – sempre riaffiorano e indicano vie percorribili con evidenza lapalissiana per il motivo semplicissimo che il teatro – a dispetto della sua fantastica “finzione” - non mente, e che quasi sempre il segno di queste buone pratiche è quello della collaborazione e della condivisione.
BP2010 Pubblico, privato, indipendente? Siamo davvero sicuri che oggi possiamo attribuire loro ruoli, funzioni, identità, progetti differenziati? di Roberto Toni
Nella domanda che pongo c’è, se non una risposta certa, un interrogativo che merita una riflessione. Sono infatti convinto che laddove, almeno fino a 15 anni fa, all’interno del sistema teatro si potevano cogliere intenzioni e progetti abbastanza evidenti, le pratiche oggi sono assai confuse.
Il passaggio da un sistema all’altro è così frequente che è difficile stabilire quali siano le identità in campo. E’ il risultato questo di anni confusi, in cui la progressiva erosione dei fondi statali a disposizione è stato soltanto l’ultimo degli accadimenti negativi; non è il sostegno pubblico che manca al teatro, o perlomeno esso è soltanto l’aspetto terminale del problema, dove causa ed effetto si confondono. Basti pensare infatti che Comuni, Province e Regioni mettono nel sistema spettacolo quattro volte quello che dà lo Stato attraverso il FUS!
La realtà è che c’è una caduta verticale delle “vocazioni”, un confuso approccio della bassa politica a tutti i percorsi teatrali, uno scollamento tra la professione e la pratica del teatro, del buon teatro, e quella che una volta era la tensione culturale e politica. Un sostanziale ristagno del ricambio generazionale che ha essenzialmente “recintato” le aree dell’innovazione, facendole diventare un genere autoreferenziale.
Quale teatro può dirsi indipendente o autogestito, come si sarebbe detto fino alla fine degli anni ’80? Mi è difficile individuarlo, se non in zone molto sommerse, non finanziate dal danaro pubblico, a cui l’intero sistema offre una visibilità assolutamente minoritaria e residuale.
La proliferazione, non necessaria, delle stabilità pubbliche e private, che fino agli anni ’80 compiuti, venivano edificati su un progetto culturale e identitario a cui la politica dava ascolto non strumentale ma partecipato e convinto; il numero di imprese produttive il cui esercizio è molto spesso quello di raggiungere gli standard quantitativi per mantenere un contributo, sono i segnali di un sistema complessivamente malato che non offre garanzie adeguate di sviluppo e di mantenimento neppure sotto il profilo occupazionale.
Una recente indagine condotta dall’Enpals ha evidenziato che la giornata media di artisti e maestranze è di 96,99 giornate in un anno lavorativo, che si riduce a 19,6 giornate per gli attori. Sono numeri impressionanti soprattutto se messi a confronto con i circa 16 milioni di biglietti venduti per il solo teatro di prosa (cos’ almeno risulta dai dati SIAE del 2007), circa 350 i soggetti che ricevono un contributo dal FUS.
Sicuramente c’è una penetrazione selvaggia di iniziative casuali, che introducono nel mercato episodi che sfuggono alle regole della buona gestione imprenditoriale e del corretto rapporto tra impresa e lavoro. E’ una piaga del sistema a cui un certo atteggiamento sufficiente e liquidatorio della politica, al limite di un generico moralismo, offre una sponda di sostegno non indifferente.
E allora quali pratiche auspicare?
Sicuramente fine dell’assistenzialismo e delle rendite di posizione.
Introduzione di standard qualitativi che consentano alla professione, e a chi la esercita con serietà, competenza, passione e rigore di rigenerarsi e approdare a certezze maggiori.
E’ un percorso questo che ha bisogno della politica ma soprattutto di noi e di un rinnovato senso di responsabilità.
Senza di ciò, senza cioè l’intreccio tra buona politica e consapevolezza dell’impresa che siamo su un pericoloso crinale dove è facile sprofondare nel dominio selvaggio di un mercato senza contenuti e senza regole, decreti e leggi serviranno a poco.
Firenze, 10 febbraio 2010
Roberto Toni
Direttore Artistico e Organizzativo Teatro Stabile di Firenze
Impresa di produzione
BP2010 Per un sistema della formazione dello Spettacolo in Emilia-Romagna La formazione professionale come leva strategica di Fonndazione ATER Formazione Ente di formazione e ricerca per la cultura e lo spettacolo
Il sistema dello Spettacolo dal vivo dell’Emilia-Romagna vede un livello qualitativo di eccellenza, un forte impatto occupazionale e una dimensione economica rilevante, rafforzata dall'indotto che ne deriva.
E’ una realtà estremamente ricca e articolata, con una concentrazione di iniziative che la pone tra le maggiori regioni europee. Tale sistema vede la presenza di 185 spazi teatrali e occupa oltre 10.000 persone (fonte: Osservatorio regionale dello Spettacolo dell’Emilia-Romagna).
Per citare solo alcuni dati, secondo la SIAE, nel 2008, relativamente allo Spettacolo dal vivo complessivamente inteso, sono state effettuate 17.799 rappresentazioni per un totale di 2.544.415 biglietti, con una spesa complessiva al botteghino di 53.749.688 Euro. Sono stati venduti 61 biglietti ogni 100 abitanti, un risultato molto superiore a quello nazionale.
L’attuale assetto dello Spettacolo rappresenta la risultante di processi di ampia portata che prendono l’avvio negli anni ’90. In tale periodo si sono diversificati e sviluppati i consumi culturali, mentre all’archetipo del pubblico inteso come unico e indistinto si è sostituita l’immagine dei “pubblici”. Oggi lo Spettacolo si confronta con altri linguaggi, attuando forme di integrazione, con conseguenti implicazioni nelle scelte delle programmazioni; il multiculturalismo e l’interculturalismo portano a individuare nuove prospettive.
L’avvento delle nuove tecnologie reinventa i modi e i tempi della comunicazione rivolta agli utenti, alle istituzioni, alle imprese. Apre nuovi orizzonti alla progettazione e alle metodologie produttive. Si impongono nuovi modelli organizzativi e distributivi, nella prospettiva di un mercato sempre più allargato, favorendo la nascita di network.
Sono dunque avvenute trasformazione che hanno coinvolto gli assetti strutturali, socio-culturali ed economici del settore.
Ciò ha comportato in primo luogo l’esigenza di ridefinire le figure professionali codificate, di individuare e mettere a fuoco quelle emergenti.
Da qui l’identificazione della formazione professionale come leva strategica per la crescita del settore e la necessità, per le aziende e per le istituzioni, di definire politiche formative conseguenti.
Le relazioni che intercorrono in Emilia-Romagna tra lo Spettacolo e le attività formative sono, di fatto, consolidate.
Grazie al sostegno della Regione e del FSE - seppure al di fuori di una predeterminazione e di strategie condivise – si è delineato, a partire dall’inizio dello scorso decennio, quello che si può definire un “sistema formativo” per lo Spettacolo, di tipo policentrico.
Ne fanno parte organismi che si propongono come scuole, imprese del settore che realizzano attività corsuali parallele a quelle prevalenti di produzione e distribuzione, enti di formazione accreditati.
Le stesse Università, a partire da quella di Bologna, hanno fornito un contribuito importante per rafforzare e ampliare l’offerta in questo campo.
Il sistema regionale dello Spettacolo riconosce il ruolo della formazione professionale nella sua centralità, nell’essere lo strumento indispensabile per adeguare le competenze alle trasformazioni in atto, per fornire alle imprese nuovi professionisti in grado di operare, all’interno di un mercato complesso, con sempre maggiore consapevolezza.
Quel progetto complessivo che per un certo periodo, seppure affrontando fasi alterne, ha rappresentato un punto di riferimento importante, fungendo anche da modello a livello nazionale, a partire da alcuni anni mostra i segnali di una sostanziale crisi.
Una crisi caratterizzata dalla discontinuità degli interventi, dalla difficoltà di sviluppare nuove progettualità e di concertare le attività a livello territoriale.
Dovuta, con tutta evidenza, ai tagli ai finanziamenti specifici del settore (come avvenuto per tutta la formazione in diverse regioni italiane), ma anche all’assenza di una reale programmazione - a medio e lungo termine – da parte delle istituzioni, ai limiti delle modalità adottate per sintonizzare gli investimenti nella formazione alle reali necessità del settore, ai nuovi fabbisogni, al mercato.
Per contro, l’attuale assetto delle attività di formazione presenti nella regione conferma e rafforza la visione di un sistema formativo, con caratteristiche di rete, di
indiscusso valore sul piano della qualità, capace di incidere in maniera significativa sullo sviluppo produttivo e distributivo, in una proiezione nazionale e internazionale.
Sono infatti presenti in Emilia-Romagna enti e imprese in grado di dare risposta alle esigenze espresse ai diversi livelli, dalla formazione superiore, alla specializzazione, all’alta formazione, sino ai master, nelle tre macro aree di riferimento, quella artistica, quella tecnica e quella gestionale, affrontando tutti i settori dello spettacolo dal vivo e non escludendo, in una visione allargata, il cinema e gli audiovisivi.
Non di meno si sono sviluppate progettualità innovative nell’ambito del disagio e dell’inclusione sociale, cogliendo le istanze dettate dalle trasformazioni più significative legate al territorio.
Esiste nei fatti un sistema formativo dello spettacolo, che trova ricchezza nella sua diversità e complessità, attualmente non riconosciuto e valorizzato.
Tale analisi vuole altresì portare ad avviare una più ampia riflessione che investa anche i beni e le industrie culturali.
Alla luce di quanto sopra esposto, la scrivente e gli altri enti che sottoscrivono questo documento ritengono utile e necessario realizzare, in tempi brevi, un incontro pubblico sull’evoluzione e sul futuro della formazione dello Spettacolo nella nostra regione. A tale incontro sono invitati a partecipare le imprese del settore, gli enti e le scuole di formazione, l’Università, le parti sociali, i rappresentanti delle Provincie e la Regione Emilia-Romagna nelle figure degli Assessori competenti.
Fondazione ATER Formazione, Modena
Agis Unione regionale dell’Emilia-Romagna
Arena del Sole - Nuova Scena - Teatro Stabile di Bologna
Arrivano dal Mare! - Centro Teatro di Figura, Cervia
ATER Associazione Teatrale Emilia-Romagna, Modena
ERT Emilia Romagna Teatro Fondazione, Modena
Fondazione Arturo Toscanini, Parma
Fondazione Nazionale della Danza, Reggio Emilia
Fondazione Teatro Due – Teatro Stabile di Parma
Fondazione Teatro Comunale di Bologna
La Baracca - Testoni Ragazzi - Teatro Stabile d'Innovazione, Bologna
Legacoop Bologna
Santarcangelo 2009-2011 - Festival Internazionale del Teatro in Piazza
Scuola di Teatro di Bologna Alessandra Galante Garrone
Scuola dell’Opera Italiana, Bologna
Teatro dell’Argine – ITC Teatro, San Lazzaro
Teatro del Pratello, Bologna
Teatro Giocovita –Teatro Stabile di Innovazione, Piacenza
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Bologna, gennaio 2010
BP2020 Preoccup-azioni La mobilitazione come buona pratica di Studenti Scuola d'Arte Drammatica Paolo Grassi
Il 21 luglio 2009, in tempi balneari, arriva la notizia della mancata riconferma di Maurizio Schmidt nel ruolo di direttore della Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi. Il giorno stesso appare sul sito di Scuole Civiche il bando per la nomina di Direttore. Questa improvvisa azione di non riconferma desta immediatamente stupore e indignazione di allievi e di docenti presenti a Milano a fine luglio.
BP2010 Progetto Cambio Palco! Aggiornamenti e novità di AmniO
Dove eravamo rimasti…
Il progetto Cambio Palco! nasce nel 2007 da un’idea della nostra compagnia, AmniO, per trovare una risposta alle esigenze di visibilità di tutte quelle realtà teatrali prive di accesso ai circuiti distributivi ufficiali su scala regionale e nazionale; un tentativo di smettere di piangersi addosso e organizzarsi attivamente. Originariamente il progetto mirava alla costruzione di una rete distributiva sperimentale che non avesse filtri qualitativi e che potesse reggersi sulla logica dello scambio dei luoghi di rappresentazione delle diverse realtà – da qui il nome Cambio Palco!
Attorno al progetto si sono raccolte una ventina di compagnie provenienti da tutta Italia che si sono incontrate una prima volta per una giornata di lavoro e confronto con esperti del settore (Maurizia Settembri, Teresa Bettarini), ed in seguito per una rassegna estiva presso Officina Giovani (Prato, 3-4-5 luglio 2008) che potesse consentire non solo una prima occasione di visibilità ma soprattutto la possibilità di presentarci artisticamente e di discutere ancora insieme sulla direzione da dare al progetto.
Sulla base di quanto emerso da questi primi incontri l’idea originaria di creare un altro circuito alternativo è stata abbandonata, sia perché molte compagnie interessate non avevano uno spazio a disposizione e sarebbero state tagliate fuori, sia perché confrontandoci con altre esperienze già attive (Libero Circuito, Teatronet) abbiamo riflettuto sul rischio di moltiplicare i circuiti indipendenti esistenti finendo per causare una dispersione delle forze. È stato invece unanimemente riconosciuto come punto originale e qualificante del progetto proprio la capacità di apertura dimostrata dalle compagnie in controtendenza con le chiusure che spesso portano le realtà giovani a riconoscersi come “nemiche” nella guerra per i pochi spazi e le poche risorse a loro destinate.
Sulla base di queste osservazioni, nei mesi successivi abbiamo cercato di elaborare un percorso possibile per Cambio Palco! che rispondesse a quanto emerso dal confronto con gli altri. Dopo una giornata di lavoro a febbraio 2009, tuttavia, la realizzazione del “nuovo” Cambio Palco! è stata sospesa perché ci è stata offerta un’occasione che ha temporaneamente assorbito ogni energia disponibile. L'amministrazione comunale del paese dove la nostra associazione è nata e opera da anni, Agliana (PT), ha completato nel 2009 i lavori di recupero del teatro cittadino e ha deciso di affidare la gestione dello spazio e la programmazione della stagione ad una realtà che conosce il territorio e può lavorare per rendere il teatro un luogo di incontro e scambio, vivo, aperto. Ci è stata quindi offerta la possibilità di diventare compagnia residente presso il nuovo Teatro Moderno di Agliana e di occuparci della gestione; la direzione artistica dello spazio è affidata a David Spagnesi, drammaturgo di AmniO.
E adesso?
Questa nuova situazione, tuttavia, non fa venire meno il nostro interesse per Cambio Palco!: anzi, crediamo che possa diventare una risorsa per rilanciare il progetto. Con queste premesse, abbiamo intenzione di tornare a lavorare per Cambio Palco! con un nuovo progetto che tenga conto di quanto emerso dal lavoro 2009 con le altre compagnie aderenti, e che comprende:
• Il manifesto del progetto “Storte sillabe e secche”, summa di quel che riteniamo lo spirito fondante il nostro impegno artistico e al quale chiediamo l’adesione di ogni compagnia che vorrà prendere parte al progetto.
• L’organizzazione di una settimana di workshop e seminari presso il Teatro Moderno di Agliana durante l’estate 2010. Gli workshop saranno gratuiti, tenuti dai rappresentanti di ogni compagnia aderente e rivolti ai membri delle compagnie stesse. Ogni compagnia proporrà uno o più laboratori di cui assumerà la conduzione e che avrà la caratteristica principale della trasmissione di informazioni, conoscenze, esperienze. Naturalmente si tratterà di seminari di breve durata (uno, due giorni al massimo) e il cui taglio dovrà essere calibrato in relazione ai tempi e agli spazi. Ciascuna realtà aderente avrà così l’occasione di imparare da tutti gli altri e di dare il proprio contributo concreto. Non ci saranno limiti settoriali né dal punto di vista delle specificità teatrali (teatro di parola, di figura, teatro danza, ecc.) né dal punto di vista degli ambiti tecnici (scenotecnica, distribuzione, amministrazione, illuminotecnica, suoni, ecc.). L’unico criterio che determinerà la realizzazione dei diversi workshop sarà il numero di iscritti che dovrà pervenire entro quindici giorni dall’inizio della settimana di lavori per permettere l’organizzazione di tempi e spazi.
• La creazione di uno spettacolo collettivo, realizzato da tutti gli aderenti al progetto: proponiamo di raccontare una storia articolata in blocchi narrativi ciascuna delle quali sarà realizzata autonomamente dalle compagnie Uno spettacolo che permetta di esprimersi secondo le dimensioni artistiche di ciascuno ma che goda della fantasmagoria di colori propria di una così variegata comunità artistica.
• In rete con la rete: naturalmente pensare di promuovere un simile progetto con le modalità consuete per uno spettacolo teatrale sarebbe velleitario e mastodontico. Per questo abbiamo pensato di sfruttare le potenzialità di internet. Sarà attraverso la rete virtuale che riusciremo a rendere effettiva la rete di compagnie che entreranno a far parte del progetto. Lo spettacolo andrà in scena in contemporanea in tutti i luoghi in cui si esibiscono le compagnie. Ogni singola compagnia, metterà in scena il proprio segmento nel proprio spazio teatrale e poi, attraverso la rete, su un grande schermo, sarà visibile per il pubblico in sala il resto dello spettacolo che sta andando in scena live in tutti gli altri teatri. Questo per cominciare. Se l’esperimento funzionerà, i passi successivi potranno far diventare il portale dello spettacolo un vero e proprio portale di Cambio Palco!, in cui ogni sera si potranno vedere in diretta gli spettacoli delle compagnie aderenti mentre sono in scena in tutta Italia. Niente sostituisce la visione di uno spettacolo in teatro, naturalmente. Il portale di Cambio Palco! avrà la funzione di far conoscere i nostri spettacoli a un numero enorme di potenziali spettatori teatrali e permetterci di promuovere ogni singola compagnia e ogni spettacolo fra gli utenti di internet. Poi, quando ci saranno le condizioni sia artistiche che organizzative potremo realizzare l’intero spettacolo in un unico spazio teatrale.
BP2010 Essere per sognare, sognare per essere Nota introduttiva al volume Recito, dunque so(g)no. Teatro e Carcere 2009, a cura di Emilio Pozzi e Vito Minoia, Edizioni Nuove Catarsi, 352 pp di Vito Minoia e Emilio Pozzi
Un chiarimento, anzitutto, sul titolo del volume: quella g inserita quasi con violenza in mezzo alla parola sono sta a significare il valore di un senso doppio, condizione di realtà e di fantasia, al tempo stesso, un modo di evadere dalla triste quotidianità. E rappresenta il filo rosso di un percorso che mentre cronisticamente raccoglie opinioni ed esperienze vissute in anni di frequentazioni delle carceri, innalzando il vessillo del teatro, al tempo stesso fornisce lo spunto per considerazioni su un mondo conosciuto male, spesso retoricamente, a volte rifiutato, altre volte volutamente ignorato. Essere e sognare, dunque. Sognare per essere. Il teatro è una piccola chiave di lettura, aiuta a decodificare sentimenti e ragioni, a rompere tabù, a mettere a nudo ipocrisie ed egoismi. La recita è una metafora, una maschera che sa diventare nuda (Pirandello docet). E si fa e si è fatto teatro in ogni luogo in cui l’essere umano perde la libertà: anche nei campi di prigionia, deposito dei vinti delle guerre, nei gulag della siberia, nei lager nazisti. La nostra attenzione si è però principalmente concentrata sui luoghi di ordinaria carcerazione, in Italia, dove scontano condanne, i ritenuti colpevoli (ma anche gli innocenti) di reati previsti dall’attuale Codice penale.
Dalle carceri continuano ad arrivare continui allarmi. il tam tam ricorrente dice che i detenuti sono troppi rispetto alle capienze: nell’estate 2009 erano registrate 63 mila presenze (stranieri il 37%), ventimila in più del lecito. É prevista la costruzione di 22 nuovi istituti, ma per il 2012. Ma è la strada giusta? non occorre magari sveltire i procedimenti e rivedere le norme?
Lasciamo gli interrogativi e occupiamoci del tema specifico che abbiamo scelto: un aspetto minore ma non trascurabile. rieducazione e reinserimento sono concetti che non sempre sono tenuti presenti.
Testimoni e protagonisti, in questo libro, esprimono liberamente il loro pensiero e aiutano a fare, sia pure provvisoriamente, il punto su un problema sociale sempre immanente, che ha avuto mille facce nei secoli e che rappresenta oggi - siamo alla conclusione del primo decen¬nio del terzo millennio del calendario cristiano - soprattutto una cartina al tornasole delle coscienze degli uomini, a qualsiasi comunità appartengano. Ha scritto Tahar Ben Jelloun, e la citazione ci appare pertinente, “Se la natura ha creato delle differenze, la società ne ha fatto delle disuguaglianze”. Appunto: alla base della convivenza non si pone più il principio della confor¬mità e dell’uguaglianza, ma quello della diversità.
Questo volume, nella sua articolazione, si è proposto di accompagnare il lettore, passo passo, dentro le mura, reali e mentali, delle carceri, con l’ausilio di voci autorevoli di esperti studiosi, di protagonisti di vita e di scena, di testimonianze e di documenti, allo scopo, che ci si augura individuato con chiarezza, di fornire un quadro sufficientemente ampio del tema affrontato. Scoprire insomma le variazioni delle diversità.
Mentre scrivevamo queste righe, il 12 settembre, ci è arrivata la notizia che il cuore di Claudio Meldolesi aveva cessato di battere e che il suo pensiero si era brutalmente interrotto.
Agiugno gli avevamo sottoposto il sommario del progetto, chiesto consigli e suggerimenti, proponendogli di scrivere la prefazione.
Nel primo saggio pubblicato nel 1996, sul primo numero di Teatri delle diversità (che allora si chiamava Catarsi) dedicato al “teatro del costringimento”, aveva cominciato con queste parole:
“Nella continuità delle storiche anomalie del teatro italiano, come mi è capitato di sottolineare più volte raffrontandolo ad altre realtà, un filone a sé è rappresentato dai teatri del disagio o, come emerge dalla impostazione di questa rivista dai teatri delle diversità; nessuna arte si presta come quella rappresentativa alla riattivazione dell’individuo nelle comunità isolate dalla vita sociale”.
E quindi anche il teatro nelle carceri. avevamo compiuto insieme un giro d’orizzonte sulle attività storiche più interessanti, individuati gli operatori, esaminate le voci del questionario. Ci parlava con un filo di voce, affaticato e minato dal male incombente, ma ebbe la forza di proporsi anche per un rilettura delle risposte dei questionari, riservandosi di scrivere una nota di commento. Non ce l’ha fatta. E noi non ci sentiamo di sostituirci a lui. Pubblicando le risposte così come sono pervenute lasciamo al lettore di esercitarsi nel confrontare opinioni, mutamenti e prospettive. sarà interessante poi pubblicarle, in omaggio a Meldolesi.
Il ringraziamento a chi ha sorretto il nostro lavoro e ha fornito pagine preziose, nasce dal profondo del cuore. Senza i contributi di Duccio Demetrio sul concetto di scrittura in carcere, senza le immagini essenziali di Maurizio Buscarino, per citare soltanto due esempi specifici, e senza le risposte al Questionario, cardine del carotaggio sulle principali attività in atto, e fulcro del volume, non avremmo potuto offrire un ampio e denso panorama.
Non si pretende, ovviamente di essere stati esaustivi, di aver messo un punto fermo. La realtà è in evoluzione (e in certi casi purtroppo in involuzione). Tuttavia, aggiungendo qualche pie¬truzza ai tasselli che molti altri hanno sin qui inserito per comporre un grande e inquietante mosaico - testi importanti sono citati in bibliografia – si spera di contribuire a un risultato: partendo dal particolare, richiamare l’attenzione, soprattutto dei giovani, sui gravi e grandi problemi della giustizia, della libertà che nel carcere, questa istituzione che vorremmo veder scomparire, sostituita da misure più civili, non trovano la giusta luce.
Non sono utopiche speranze: perché i protagonisti di quei problemi, come ha scritto Ghe¬rardo Colombo “non vogliamo siano lontano dalla nostra vita e dalle nostre coscienze”. Lo diciamo sulla base di un’esperienza personale, acquisita, in modi diversi, in più di vent’anni, nei luoghi senza tempo.
BP2010 Playing Identities: Migrazione, Creolizzazione, Creazione Progetto finanziato dal Programma Cultura 2007/2013 dell'Unione Europea di Gianni Berardino
Capofila: Scuola Superiore Santa Chiara dell'Università di Siena
“Le «Tout-Monde», c’est le monde actuel tel qu’il est dans sa diversité et dans son chaos.
Pour moi, le chaos n’est pas seulement le désordre, mais c’est aussi l’impossibilité de prévoir et de régir le monde.
La relation signifie un rapport de transversalité et non pas de causes à effets”
Edouard Glissant
Il progetto Europeo “Playing Identities: Migrazione, Creolizzazione, Creazione” intende testare nella pratica teatrale il concetto di “creolizzazione”, ovvero sia il processo attraverso cui qualcosa diviene “creolo”.
L'aspetto originale di questo progetto risiede nell'intuizione di prendere in prestito la visione poetica di creolizzazione fornita da Edouard Glissant e applicarla a due diversi processi di creazione scegliendo due diversi ambiti:
• da un lato le Arti Performative – e in particolare il teatro – con lo scopo di produrre una performance, il Creole Performance Cycle, in cui artisti con differenti ambiti di provenienza e con una diversa formazione siano in qualche modo “costretti” ad una negoziazione sui rispettivi codici espressivi, i significati, le modalità di lavoro. In questo senso la “creolizzazione” delle pratiche teatrali diventa un elemento essenziale dello spettacolo stesso.
• dall'altro le Scienze Umane e Sociali, con lo scopo di sviluppare nuovi strumenti concettuali e strutture metodologiche per l'analisi dei fenomeni di migrazione, attraverso lo scambio tra aree di studio e di ricerca con differenti approcci teoretici e metodologici.
La creazione artistica è il luogo più adatto per riprodurre un processo di creolizzazione, nella misura in cui essa miri alla costituzione di un sistema di mezzi espressivi che riorganizzino o reinterpretino le regole di precedenti atti creativi. Ne consegue, inoltre, che in un contesto di creolizzazione la “creatività” non è più una qualità della visione dell'artista o dell'autore, ma una qualità prodotta dal processo stesso. La creazione artistica è sempre un processo “creolo”, in quanto riorganizza i mezzi espressivi in un ordine inatteso.
Il Creole Performance Cycle è una performance teatrale che si trasforma e si sviluppa attraverso le tappe del suo divenire, sulla base delle condizioni imposte in ogni “porto” (inteso nell'accezione di Glissant): l'incontro con i luoghi, le diverse lingue, gli artisti e le loro poetiche. Non si tratta di una produzione definita e ripetibile ma, al contrario, di una performance in continuo mutamento. Ha origine dall'incontro di artisti che operano con differenti modalità e attraverso processi creativi diversi: questi artisti lavoreranno insieme per un breve periodo di tempo con l'obiettivo di costruire una performance dall'identità complessa e multipla, e dagli esiti incerti. L'obiettivo del Creole Perfomance Cycle è investigare l'identità del lavoro teatrale. Il risultato finale non è importante quanto il modo e il processo che saranno adottati per raggiungerlo. Le collaborazioni internazionali ed interculturali sono comuni e frequenti: non ci interessa dimostrare che artisti di Paesi diversi possono lavorare insieme in virtù del 'comune linguaggio dell'arte'; mettere in gioco l'identità del lavoro teatrale significa per noi mettere in relazione poetiche diverse in un contesto di “urgenza”, proprio come avviene nel processo di creolizzazione della lingua: essa si trasforma e si rinnova naturalmente sulla base di un'effettiva necessità.
Pubblico, privato e altro ancora Appunti per una discussione di Mauro Boarelli
Nel 1997 il Comune di San Lazzaro di Savena si apprestava a riaprire l’ITC Teatro dopo un lungo periodo di chiusura. Gli interrogativi a cui dare una risposta erano molti e complessi. Come riprendere un’attività interrotta da anni e cambiarne al tempo stesso in modo radicale la fisionomia? Quale progetto culturale proporre alla cittadinanza? In che modo qualificare il nuovo spazio come servizio pubblico? Quale forma di gestione scegliere e quale rapporto realizzare tra pubblico e privato?
La scelta venne costruita intorno a quattro punti fermi. Innanzitutto, l’ITC Teatro sarebbe diventato un teatro di produzione, e non solo un teatro di ospitalità. In secondo luogo, il Comune avrebbe elaborato degli indirizzi culturali, che dovevano precedere qualsiasi intervento sugli aspetti economici e amministrativi dell’affidamento in gestione. Inoltre, il nuovo spazio sarebbe stato caratterizzato da una politica di formazione del pubblico. Infine, il Comune non avrebbe limitato la propria funzione a quella di “controllore”, ma sarebbe diventato un interlocutore stabile del soggetto privato nella definizione e nello sviluppo del progetto.
L’intervento si snoderà intorno al racconto della riapertura del teatro, della ricerca di un modello gestionale adeguato, degli indirizzi culturali adottati, con l’obiettivo di fornire qualche spunto al dibattito sul ruolo progettuale e propulsivo dei poteri pubblici.
BP2010 Esistere, resistere una vera rivoluzione per una maggior salute del teatro può avvenire soltanto attraverso il contatto diretto tra le persone di Elena Bucci
Ho sempre seguito con molto interesse ‘Le buone pratiche’. Il fatto stesso che esista questo appuntamento e che abbia questi fini, mi fa pensare all’esistenza di un vero e proprio ‘movimento’ che raccoglie insofferenze, delusioni, progetti, invenzioni e domande di molte persone che si dedicano al teatro e che hanno assistito e partecipato agli eventi tanto precisamente descritti.
Dal mio punto di vista, partecipare con uno scritto è un controsenso, che ho proposto soltanto come ennesima necessaria mediazione al fine di mantenere in vita una compagnia che, nella giornata di oggi, è in replica a Cosenza.
Infatti sono sempre più convinta che una vera rivoluzione per una maggior salute del teatro possa avvenire soltanto attraverso il contatto diretto tra le persone e un’adeguata lucidatura delle parole che spesso significano cose troppo diverse per ognuno di noi, nascondendo la verità che tutti sappiamo e che quasi mai abbiamo il coraggio di affermare in luoghi pubblici e risonanti.
Nell’epoca del consenso obbligatorio per paura e/o apparente necessità di sopravvivenza, credo che avremmo invece bisogno di tornare a fidarci di noi, del nostro mestiere e della nostra capacità di solidarietà non soltanto per essere d’accordo, ma soprattutto per tornare a discutere, litigare, creare, inventare, sovvertire, prendere in giro, capovolgere, irritare, divertire. So bene che questo tipo di complicità si ottiene anche attraverso la conoscenza diretta, il lavoro insieme, la vicinanza.
Eppure non ci sono. I sabati di febbraio sono preziosi per le compagnie.
Ancora una volta gli impedimenti del mestiere si traducono in riflessione e creazione di sistemi di resistenza e produzione. Il contatto con gli elementi più concreti ci costringe quasi sempre a risoluzioni dove l’etica si accompagna alla salvaguardia della poetica: come contrastare il divieto di piantare un chiodo in palcoscenico, che, avallato da poteri che distolgono lo sguardo per evitare contrasti, ci obbligherebbe a rinunciare al diritto acquisito nel tempo di essere padroni del teatro nel momento in cui si deve andare in scena, liberi di usare il patrimonio della tradizione per poter fare il nostro lavoro al meglio.
Scriverò quindi di minuzie che significano per me molte cose, come accade a volte per i segni teatrali, immaginando di parlarvi.
Mi aiuto proponendovi prima qualche frase di Copeau che mi ha colpito per vicinanza e che ho passato a tutta la mia compagnia:
Capitemi bene. Non sostengo la causa di un teatro ascetico, sotto una campana di vetro riservato a pochi eletti. No. Credo che la nostra arte non attinga e non renda le sue virtù se non a contatto col grande pubblico e che non sbocci se non in una forma che possa chiamarsi popolare. Ma io tengo presente la situazione in cui si trova oggi l’arte drammatica. Non è del tutto normale. Non ha nulla di uno sboccio. Siamo certamente d’accordo nel riconoscere che questa arte è malata, o almeno, profondamente sottoposta a un travaglio di influssi, turbata da conflitti. Non voglio indagare se questa malattia dipenda dallo stato sociale e se gli sforzi di qualche artista, nell’intento di scongiurarla, siano soltanto irrisorie droghe, mi limito a dire che i nostri piccoli teatri trovano la loro ragione di essere in funzione di uno stato di crisi e dei problemi che gli sono connessi, in funzione dell’esame, della conoscenza e della soluzione di quei problemi; dico che gli stessi piccoli teatri sono altrettanti problemi, che la loro esistenza non va da sè, che il loro compito è tutt’altro che pacifico, che non possono nello stesso tempo differenziarsi dalgi altri teatri nell’essenza e somigliare ad essi nel regime, e che debbono quotidianamente preoccuparsi di metodi e di espedienti per mettere le condizioni del loro esistere in armonia con la particolare natura della missione in cui, agli occhi di tutti, sono investiti.
Si può ben dire che teatri, la cui parola d’ordine è lavoro, ricerca, audacia, non sono stati fondati per prosperare ma per resistere senza asservirsi, il che è ben diverso, e che rientrava molto meno nei loro programmi il successo che la lotta, la ricerca della lotta e della contraddizione. Ora si applaude al nostro successo. Ma se dovesse disertarci un solo giorno, c’è qualcuno che si preoccupa di difendere la nostra esistenza?
Far fronte alla richiesta quotidiana, va bene. Ma a che scopo sopravvivere se costa il sacrificio e il dispregio di quanto di più personale e di più nuovo si aveva da dire? Transigere col pubblico, d’accordo. Ricevere da lui la lezione che esso dà, niente di meglio. Ma, da questo scambio continuo, da questa quotidiana avventura della rappresentazione, capite bene che ci vengono degli spunti, delle scoperte, delle sorprese, degli inviti a rinnovarci, mille domande che si pongono, qualche risposta intravista, tutto un mondo di velleità interne e di speranza creatrice di cui voglio ammettere che, sotto la pressione della vita, nella fretta, nella fatica, nell’angoscia, nel disordine e nell’approssimativo, qualche cosa vada ad alimentare di giorno in giorno il nostro forzato lavoro, ma che darebbero frutti più ricchi e più belli se fossero maturati nella riflessione e raccolti con agio. Un’industria non può fare a meno del laboratorio. E’ chiaro che un cervello non fa i suoi calcoli in mezzo alle macchine. La pratica vale quel che vale. Se si deforma sta alla teoria di rettificarla. Solo la scena fa l’attore, come fa l’autore. Ma li distrugge anche. ‘
Jacques Copeau, Ricordi, a cura di Alessandro Gentili con un intervento di Fabrizio Cruciani, Mobydick, 2004.
trascrizione di due conferenze tenute al Vieux Colombier il 10 e 15 gennaio 1931
Non ho molto da offrire se non la mia esperienza.
Ho fondato con Marco Sgrosso la mia compagnia, Le belle bandiere, attivando subito diverse vie di esistenza: la produzione di spettacoli, l’organizzazione di rassegne (con relativa ricerca di spazi, denaro e adeguamento degli spazi stessi), la creazione di un laboratorio permanente (cercando di attivare il comune di residenza della compagnia perchè finanziasse il laboratorio al di là dei contributi individuali nel momento in cui si cominciava ad andare in scena continuativamente) e la definizione in contemporanea di una compagnia allargata (visto che non siamo in grado di garantire in modo continuativo e a tutti la sopravvivenza) che di volta in volta si potesse riunire intorno a progetti diversi, lasciando la più ampia libertà morale di creare progetti autonomi e di partecipare a lavori di altri artisti, secondo una logica di continuo arricchimento e di continua apertura.
Abbiamo tentato di riportare in vita un teatro in Romagna, pur senza avere mai avuto la possibilità di gestirvi un progetto continuativo, ma continuando a sognare un luogo che raccogliesse la ricchezza generata da progetti molteplici e multidirezionali, dalla formazione nelle scuole agli spettacoli di risonanza nazionale, ai sempre più allargati progetti di comunicazione tra artisti provenienti da diverse discipline.
Possiamo dirci senz’altro una compagnia indipendente, anche se siamo stati sostenuti dal Comune di Russi con piccolissimi interventi economici ed artigianali e disordinati aiuti di vario genere, dall’uso di spazi alla stampa dei fogli di sala, dalla Regione Emilia Romagna e Provincia di Ravenna con buona continuità e attenzione attraverso la legge 13, dal Teatro degli Incamminati e dal Teatro Metastasio di Prato attraverso la produzione di spettacoli e ora dal Centro Teatrale Bresciano, che ha abbracciato molta parte della progettualità della compagnia.
Di volta in volta cerchiamo collaborazioni con altri artisti, con altre compagnie e con altri Enti.
La nostra natura e la nostra formazione ci hanno sempre portato a privilegiare la produzione artistica, che per noi ha sempre un deciso riflesso etico, su tutti gli altri aspetti del nostro lavoro.
Questo atteggiamento ci ha reso sì indipendenti e ci ha permesso di creare i più svariati progetti, ma ci ha anche forzatamente allenato ad acrobazìe economiche ed organizzative: siamo quindi una compagnia leggerissima, quasi priva di ufficio ma dotata di variegate e molteplici collaborazioni.
Pur circuitando su tutto il territorio nazionale e pur dando lavoro a molte persone non abbiamo alcuna garanzia di continuità, pur avendo spesso a disposizione il teatro di Russi per le prove non abbiamo alcun diritto sulla gestione dello stesso, pur essendo i direttori artistici della compagnia non disdegnamo di svolgere le più piccole e minute mansioni pratiche.
Siamo un controsenso che ha ben funzionato fino a questo momento, visto che, dotati di buona salute, abbiamo pagato con un lavoro continuo e di varia natura tutta la libertà che abbiamo potuto comprare, cercando di comprendere sempre, nel nostro vagare assecondando curiosità e necessità, dove mai fossimo capitati.
Lo stessa tensione ad autonomia, consapevolezza e sorveglianza per la qualità abbiamo cercato di trasmetterla agli attori, ai tecnici e agli altri collaboratori che lavorano con noi.
Tutto bene quindi?
Certo che no. Non ci sfugge certo che anche un’influenza può compromettere questo delicato meccanismo. Nemmeno ci sfugge che una macchina di produzione che funziona anche con budget minimi pur mantenendo alto il livello di professionalità può diventare uno strumento facile da sfruttare e da manipolare, fino alla consunzione della compagnia stessa.
Sappiamo bene quanto siano importanti le repliche, il denaro e la possibilità di produrre, ma sappiamo anche quanto sia ormai difficile garantire a chi lavora con noi i livelli minimi di rispetto e di qualità del lavoro.
L’imbarbarimento e l’ignoranza a volte proterva che ne deriva ci mettono spesso in condizione di risolvere, in quanto responsabili di fronte al pubblico della qualità del nostro lavoro, innumerevoli microinadempienze che rimangono nascoste tra le ombre di moltissimi ignoti o troppo noti scaricabarile.
Allo stesso tempo rifiuto con tutta me stessa di piombare nell’abitudine al lamento, che pure avrebbe ragione d’essere.
Il mio contributo, del tutto inutile per il momento ai fini pratici, è tutto qui, nella mia esistenza.
Credo nelle persone, credo nella capacità di trasformazione che offre l’arte teatrale, credo nel talento, resisto alle scivolate della stanchezza, resisto all’omologazione, resisto alla negazione di quanto nell’arte e nella cultura da senso alla vita, credo alla possibilità di dire no a quanto ci fa vergognare e a quanto ci umilia.
Sono assolutamente convinta, come meglio di me avete scritto, che sia necessario riacquistare un aperto atteggiamento di indipendenza, che ci metta in condizioni di dialogare con l’esistente senza esserne schiacciati ed estromessi, ma nemmeno mutati fino a renderci irriconoscibili a noi stessi.
Credo che, a poco a poco, per andare incontro alle esigenze di un mondo sempre più lontano dalle anacronistiche pratiche teatrali, si siano andate modificando le più intrinseche modalità di lavoro, fino ad arrivare all’assurdo degli orari di alcuni stabili: 9 - 13 e 15 - 17. Orari da ufficio appunto.
La stessa cosa, a livello più profondo, si è attuata nei confronti del potere economico, politico e culturale. Le amicizie fondate sui progetti sono diventate connivenze di potere, come le affinità culturali sono diventate una base per alleanze obbligatorie, a prescindere dalle auspicabili diversità delle poetiche, il credo politico è diventato strumento di mercato per bandi, residenze, direzioni artistiche.
Faticando ad essere ‘specchio del mondo’ e avendo sbiadito il sogno utopico di cambiarlo, potremmo forse riflettere su come cominciare da noi e cambiare alcuni comportamenti che ci rendono sempre più deboli e poco credibili.
Non credo che si debbano inseguire modalità che non appartengono al teatro ma anzi, difendere fino in fondo quello che nel teatro amiamo: il silenzio, il lungo tempo necessario, la sintesi, l’essenzialità, il rischio della prova dal vivo, l’anacronismo, l’incontro, l’unicità di ogni persona, la singolarità dei metodi e dei non metodi, la capacità sovversiva e quella di trasformazione, la provocazione, la ricerca dell’autentico.
Accettare di modificare troppo profondamente le vie di creazione e di produzione proprie del teatro significa obbligare tutti gli altri, nel tempo presente e futuro, ad asservirsi a logiche estranee che non possono che distruggere l’essenza che si cerca di preservare con un compromesso troppo generoso. Significa anche avere la presunzione di poter controllare forze che dipendono da noi soltanto in parte e che siamo chiamati a trasmettere trasformate in arte e non a comandare.
Lo spettacolo dal vivo e le giovani generazioni. L’agenda pubblica L'intervento al convegno Spettacolo dal vivo & giovani generazioni, Siena, 15 dicembre 2009 di Marcello Flores (assessore alla Cultura del Comune di Siena)
È una sconfortante caratteristica del dibattito culturale in Italia che esso si impenni in alcuni momenti (nel nostro caso in occasione di un articolo tra l’ingenuo e il provocatorio come quello di Baricco o di fronte ai tagli ripetuti e agli attacchi volgari provenienti da membri dell’attuale governo) ma non sia capace di affrontare le questioni di fondo in modo sistematico, approfondito, aperto. La questione dei costi, dei finanziamenti, della qualità, della diffusione dello spettacolo dal vivo non è certo un problema sorto negli ultimi mesi, anche se esso ha certamente acquistato un carattere di drammaticità per via delle scelte disastrose e delle non scelte altrettanto perniciose che si sono abbattute su questo settore in termini di finanziarie, tagli drastici al Fus, contraddittorie e farraginose normative e proposte legislative, che si spera non diventino ancora peggiori nel prossimo futuro.
Anche la scelta – compiuta dall’Assessorato alla cultura del Comune di Siena e della Regione Toscana, con l’aiuto di alcune realtà che è riduttivo definire locali – di discutere questi temi nel presente forum nasce quindi, in parte, da una sollecitazione congiunturale. Essa, tuttavia, vuole evitare che questo incontro rimanga occasionale o cerchi di dare risposte immediate alla pur grave situazione di crisi emersa con maggiore asprezza negli ultimi mesi. Abbiamo scelto, infatti, di incentrare sulle nuove generazioni la discussione, per costruirla in una prospettiva di lungo respiro e per collegarla, di conseguenza, ai temi che costituiscono il fulcro delle difficoltà e dei dilemmi con cui ci troviamo a confrontare non solo nell’immediato ma nell’intera fase storica che ci si apre davanti.
Al centro della riflessione sullo spettacolo dal vivo sono, oggi, questioni in gran parte di tipo economico, legate ai finanziamenti (pubblici, privati, misti) che esso dovrebbe avere o non avere, e ai meccanismi per stabilirli e distribuirli. All’inizio dell’economia moderna Adam Smith ricordava come “le rappresentazioni teatrali riescono a dissipare nella maggior parte della gente la disposizione alla malinconia”, ritenendo quindi necessaria una retribuzione per gli artisti più elevata di quanto la sola logica di mercato avrebbe potuto indicare. Purtroppo gli economisti che siedono oggi al Governo non sembrano avere la stessa consapevolezza che il mondo della cultura e dell’arte non può essere trattato in termini riduttivamente mercantili e contabili. “Lo Stato deve finanziare la cultura, ha detto il Ministro Brunetta, altra cosa però è lo spettacolo: serve agli umani per vivere meglio, divertirsi e riflettere. Forse nel tempo diventa tradizione e cultura -come il teatro, le commedie, l'opera. Mescolare però cultura e spettacolo è un grande imbroglio.”
Ora, a parte il fatto che biblioteche e restauri (citate come “cultura” in contrapposizione allo “spettacolo”) hanno subito gli stessi drastici, orizzontali e indiscriminati tagli, il nostro Governo dimentica che i beni e i servizi culturali, come hanno dimostrato gli studi e le riflessioni compiute in Europa negli ultimi anni, costituiscono un crescente e sempre più importante comparto anche soltanto da un punto di vista prettamente economico. Del resto, un secolo dopo Adam Smith anche un altro grande economista, Alfred Marshall, sottolineava che per i beni culturali, diversamente da quelli industriali, l’utilità marginale era crescente e non calante, in quanto un maggiore consumo di beni culturali rende più colti e fa crescere il consumo di cultura.
Nel Rapporto Figel della fine del 2006 (dal nome dell’allora Commissario europeo per la cultura) si sosteneva che il fatturato complessivo del macro-settore delle industrie culturali e creative in Europa, nel 2003, era pari a circa 654 miliardi di euro, vale a dire più o meno il doppio del fatturato dell’industria automobilistica continentale. E che il differenziale di crescita tra il macro-settore culturale e creativo e l’economia europea nel suo complesso nel periodo 1999-2003 era stato del 12,3%. Il macro-settore creava occupazione anche nei momenti in cui l’occupazione complessiva in Europa si restringeva, e si rivelava come una delle più promettenti e dinamiche fucine di nuova imprenditorialità giovanile.
Il più grande economista del XX secolo, Keynes, riteneva che l’arte, in quanto uno dei principali principi di civilizzazione della società, doveva essere incoraggiata dallo stato: e ricordava che subito dopo l’architettura (l’arte più pubblica), nella speciale classificazione delle arti in base al criterio del loro carattere “pubblico”, bisognava porre la musica, poi il teatro, la scultura e la pittura, e infine la poesia e la letteratura, «per loro natura più privata e personale».
Alcuni mesi fa, all’Università di Roma Tre, si è svolto un incontro sul tema “Una nuova politica culturale dello stato”, che ha affrontato problemi in gran parte analoghi a quelli che noi vogliamo discutere nell’ottica – diversa ma più urgente, attuale e significativa – delle nuove generazioni. In quell’occasione il direttore di RomaEuropa Fabrizio Grifasi, che non ha potuto purtroppo essere presente a Siena come avrebbe voluto, ricordava come il nostro paese, che pure non ha mai brillato per le risorse destinate alla cultura, sta operando come apripista negativo almeno tra i paesi dell’Europa occidentale, dove la tradizione dell’intervento pubblico a sostegno delle attività culturali non è stata messa in discussione da governi di nessuna parte politica in conseguenza della crisi, se non con interventi e riduzioni di piccola entità. Egli aggiungeva, poi, riflessioni critiche sui meccanismi “obsoleti” e puramente quantitativi dei meccanismi di sovvenzione, che penalizzava proprio le “realtà nuove”, e quindi i giovani, rafforzando una struttura dell’attività culturale e creativa in gran parte ormai abbandonata e priva ormai di qualsiasi forza di attrazione e innovazione.
Egli proponeva, quindi, di “scegliere e sovvertire i criteri di attribuzione dei finanziamenti, destinandoli ai progetti (e quindi alle idee) attraverso scelte che tengano conto del merito e della qualità, premiando la capacità di innovare (intesa come capacità di introdurre qualcosa di nuovo) e di assumere il rischio culturale (inteso come sviluppo della sperimentazione e superamento dei confini).” Facendo, insomma, della “innovazione e creazione artistica contemporanea”, “competitività e cultura”, “qualità ed organizzazione culturale”, i concetti di una “trasformazione radicale che investe ovviamente anche l’intero settore della produzione culturale nella sua accezione più ampia.”
In un altro intervento di quel convegno – dell’economista Marco Causi – si rammentava come l’emergere di un “settore culturale niente affatto marginale, e anzi sempre più protagonista nelle dinamiche socio-economiche e di sviluppo, non solo in Italia, in Italia è avvenuta con una particolarità: mentre negli altri paesi avanzati il motore dell’espansione del settore culturale, in termini di produzione, valore aggiunto, occupazione, è stato fornito dalle industrie culturali, e principalmente dall’audiovisivo, in Italia i settori trainanti sono stati quelli che la statistica definisce “cultura in senso stretto”, e cioè beni culturali e spettacolo dal vivo. I settori, insomma, più tradizionali.”
Qui siamo di fronte a una questione importante e generalmente sottovalutata. Lo spettacolo dal vivo non appartiene, generalmente, all’ambito culturale caratterizzato da innovazione e orientamento al mercato. E tuttavia mentre le forme più tradizionali di spettacolo riescono a volte a reggere il confronto col mercato, sono quelle più giovani a costituire una realtà in cui l’innovazione propria di altri settori culturali (audiovideo, information technology) si riflette anche all’interno delle produzioni dello spettacolo dal vivo.
Se, quindi, da una parte resta inconfutabile che lo spettacolo dal vivo sia ancora afflitto dalla “malattia” individuata a metà degli anni ’60 dai fondatori dell’economia della cultura, Baumol e Bowen, e cioè la scarsa sensibilità al progresso tecnologico e all’aumento di produttività (che rimane più o meno la stessa dei tempi di Shakespeare), è anche vero che soprattutto le esperienze più giovani e di avanguardia dello spettacolo dal vivo sono riuscite spesso a inserirsi in quell’orizzonte di innovazione che ha caratterizzato gli ultimi anni della produzione culturale. È il contesto sociale fortemente orientato alla produzione e alla circolazione di informazione e conoscenza, infatti, che favorisce innovazione, mescolanza di linguaggi, globalizzazione e capacità di misurarsi con un livello che ormai è non più solamente nazionale ma sempre più internazionale.
Quando abbiamo pensato la prima volta a questo incontro immaginavamo che in esso avremmo potuto discutere la nuova legge che è tutt’oggi in discussione e che – sembra! – potrà venire approvata nei prossimi due o tre mesi (ma da cui, è notizia di pochi giorni fa, è stata stralciata la parte che riguarda la lirica). Siamo ovviamente consapevoli di quanto sia difficile poter influenzare un cammino legislativo che finora non ha dato ascolto alla maggior parte delle riflessioni provenienti dal mondo stesso dello spettacolo, e non sembra capace di commisurarsi con i problemi che una gestione certamente difficile della finanza pubblica pone di fronte a tutti.
Vorremmo, però, che la discussione di questi due giorni riuscisse a far convivere riflessioni di carattere generale e strategico, di un’idea di spettacolo capace di inserirsi nel mondo prossimo venturo della più generale produzione culturale, con indicazioni più concrete e immediate di come poter migliorare una situazione in cui vincoli, limiti, tagli, burocrazia continueranno a esistere penalizzando, presumibilmente, proprio le giovani generazioni che sono al centro di questo nostro incontro. Se riusciremo a svolgere una discussione approfondita e serrata, aperta ma anche concreta, potremmo considerare questo incontro un prologo a un forum più ampio che potrà avere luogo dopo l’approvazione della legge. In questo senso la collaborazione con la Regione, cui verranno probabilmente affidato compiti più ampi e impegni più gravosi proprio dalla legge in discussione, continuerà a essere cruciale per poter far pesare la voce di chi produce cultura nell’ambito dello spettacolo dal vivo.
Gli interrogativi più generali (quali sono i criteri migliori per finanziare le attività culturali e a chi spetta il compito di deciderlo?) trovano, nel campo dello spettacolo dal vivo, una declinazione legata a variabili particolari e non sempre omogenee. Se l’interesse maggiore deve essere quello di aumentare e incrementare la domanda e il consumo di spettacoli dal vivo (oltre che migliorare ovviamente la loro qualità), è ovvio che occorre tenere in considerazione numerosi fattori, di cui solo alcuni possono essere tenuti sotto controllo. Quindici anni fa David Throsby ha analizzato le variabili che determinano la domanda di spettacoli dal vivo - e, più in generale, di beni e servizi culturali. Tali variabili sono il prezzo del singolo spettacolo e degli spettacoli alternativi, il reddito del consumatore, le caratteristiche qualitative dello spettacolo - compagnia, allestimento e recensioni critiche - e il valore del tempo libero. Throsby distingue poi tra spettacoli di facile fruizione e quelli legati a una cultura considerata più “alta” giungendo alla conclusione che nella prima categoria, la domanda sia più sensibile al prezzo mente nella seconda categoria, invece, alle caratteristiche qualitative.
Il valore culturale incorporato in un bene, in un servizio, in un prodotto, non va mai disgiunto all’insieme degli investimenti culturali che vengono predisposti in un territorio. Sono tantissimi i casi in cui un investimento cospicuo in un solo settore (un museo, un teatro, un centro di ricerca) ha favorito la crescita complessiva di tutti gli altri comparti culturali. E non va dimenticato quanto possa valere per l’intero settore della cultura di un territorio la possibilità di usufruire di una information technology che sia davvero all’avanguardia, diffusa, chiara, bella e utilizzabile da chiunque in qualsiasi momento (una realtà che in Italia mi sembra assai lontana dall’essere raggiunta).
Dove e come investire costituirà, sempre più, un problema cruciale, che non potrà essere risolto né con criteri apparentemente ugualitari né con astratte identificazioni di realtà di eccellenza da privilegiare (perché una realtà eccellente in un territorio culturalmente depresso rischierà di deprimersi e perdere la propria capacità di eccellenza, a meno che non riesca a mettersi in una rete che possa surrogare le caratteristiche negative del territorio in cui si trova). E ugualmente decisivo risulterà stabilire i criteri con cui scegliere e distribuire gli investimenti. In questo ambito non bisogna avere paura di prendere esempio da realtà straniere, pur senza mitizzare o rendere intoccabile alcun modello. Legare, ad esempio, i finanziamenti pubblici anche alla capacità di attrarre finanziamenti privati; distribuire i finanziamenti sotto forma di voucher culturali da distribuire ai cittadini lasciando loro la possibilità di scegliere come impiegarli; introdurre il modello del giudizio di tutti gli appartenenti al settore (l’equivalente della peer review nelle università – che la usano); introdurre nei criteri di valutazione delle commissioni elementi non soltanto quantitativi ma che garantiscano e favoriscano le nuove esperienze: questi sono solo alcuni dei suggerimenti possibili di cui dovremmo riuscire, certo non in modo esauriente e definitivo, a discutere in questi due giorni i pro e i contro, cercando di trovare delle ipotesi convincenti e condivise.
Un ultimo invito a tutti coloro che interverranno: cerchiamo di essere sintetici e chiari, lasciando alla discussione collettiva la possibilità di approfondire i problemi, aggiungere temi, rivedere concetti e proporre soluzioni. È un momento, questo, in cui dichiarazioni e proteste sono certo legittime e anche utili, ma vanno accompagnate da proposte positive: e queste possono venire soprattutto da chi non solo oggi, ma nel prossimo futuro, deve prendersi l’impegno di fare in modo che lo spettacolo dal vivo – questo strano intreccio di tendenza crescente dei costi ma anche di utilità marginale crescente – possa far parte integrante della svolta che l’intera cultura si trova oggi a compiere in termini di conoscenza e innovazione.
La bambina, la belva e le maschere L'Otello di Arturo Cirillo di Dario Tomasello
Dopo i fortunali dell’accidentata Tempesta di De Rosa, la Napoli della stagione shakespeariana dello Stabile esibisce, nella cornice del San Ferdinando, il fiore venefico dell’Otello di Arturo Cirillo.
Qui, il paradosso del Bardo verifica, come altrove (e per esempio nel Mercante di Venezia), il protagonismo dell’escluso, del diverso. D’altra parte non ci si sottrae, ed è merito aggiuntivo di questo allestimento, alla sfida dell’alto coefficiente di allusività teatrale dei testi shakespeariani.
In questo senso, occorre dirlo subito, la mise en scène di Cirillo (Jago) ha qualcosa di perfidamente efficace. Nella notte inaugurale del dramma, tutte le maschere sono bianche e danno il senso dell’oscura autenticità del Moro, baldanzoso e irruento dinanzi alla maschera vermiglia del Doge (Salvatore Caruso), prefigurazione di una morte rossa e violenta. Quanto al capocomico sollecito e attento di questo fosco scenario, ci sono due modi di essere Jago: nel segno del puro divertimento del ciarlatano oppure, come accade qui, in quello della tetra, malcelata, sofferenza di chi non può non ordire la trama fatale di cui si è, al contempo, artefice e artefatto, carnefice e vittima. Da questo punto di vista, la condizione di Cirillo appare privilegiata, a partire dalla Jennifer inquietante delle Cinque rose ruccelliane. Difatti, il dramma comincia in medias res. Jago è già qualcuno che ha «un’idea» e un’idea è una festa diceva Deleuze. Solo che la festa non è qui e ciò che si celebra è un rito d’inopinata inversione. Dai fasti carnascialeschi di Venezia al clima polveroso di Cipro, dallo sciabordio placido delle acque della laguna al fragore dei tamburi di guerra, è un destino di perversione – capace di contagiare gli altri personaggi (Barbanzio/Rosario Giglio; Roderigo/Luciano Saltarelli) – quello cui si assiste e la virtù ha il volto continuamente travisato della parodia. È forse per questo motivo che Otello (Danilo Nigrelli) nel suo sapido monologo trova accenti di intensa, pornografica, comicità, destinati a culminare nell’assunto ambiguo sull’«onestà» di Jago: triste ingenuità nella realtà dell’intreccio, implicita nota di merito per il talento del suo interprete nelle nuances metateatrali. Se c’è un’ispirazione Beniana, come Franco Quadri ha creduto di poter individuare, è tutta nel senso esibito e argutamente consapevole di questo doppiofondo.
Nel teatrino delle passioni, Otello, erma bifronte (bianco/nero) quasi in una metamorfosi irrisolta, mostra entrambe le facce della sua vocazione: l’ordine e il caos, lo yin e lo yang con cui Cirillo fa coraggiosamente i conti. Per concludere con la più rischiosa ed onesta delle sentenze: l’irriducibile cifra dell’alterità del Moro, il carattere irredimibile della sua natura. Il tutto senza il benché minimo timore di apparire politicamente scorretti, giacché il clima postcoloniale da clash of civilizations è sottolineato, nell’esotica plaga cipriota, dalle cadenze cantilenanti dell’adhan e dagli abiti da legionari di Gianluca Falaschi. È vero che «in città le bestie abbondano in mezzo a tanti mostri inciviliti», tuttavia Otello non può essere che quel che è: «un barbaro ignorante», rifiutato, nel momento più cupo, dalla “civiltà” occidentale che lo ha allevato. Ciò non è senza conseguenze. Infatti, il Moro, dilaniato dalla rabbia, prima di allontanarsi carponi come un primate, si prostra nel divorare la lettera che, decretando il suo ingiusto congedo, rappresenta il simbolo di quella diplomazia che gli sfugge inesorabilmente. Il regresso è avvenuto e la gloria è solo il pretesto più efficace per questa impasse bestiale il cui mirabile contraltare è la silhouette regale e fanciullesca di Monica Piseddu, una Desdemona immersa in un dolcissimo sogno troppo lesto a tradire i suoi fumi sulfurei. Qui, a proposito di questa interpretazione magistrale, valgono proprio le parole del Bene attento all’etimologica de-ficienza della donna: «la bambina, provvidenza incosciente dell’onnipotenza, è un miracolo». Glamourous e suadente con la selvatichezza del marito e il vulnerabile contegno di Cassio (Michelangelo Dalisi), Monica Piseddu ha una grazia struggente e calma quando (nella notte della fine di Desdemona), in risposta a Emilia (Sabrina Scuccimarra) che le assicura di aver preparato le lenzuola del corredo nuziale, dice: «Tanto è uguale», spalancando un abisso, superbamente illuminato da Pasquale Mari, in cui il sussurro del canto non ci salva, ma è comunque il più celeste e innamorato dei congedi. Intanto, il tempo si chiude su di lei, come le pareti delle fascinose e lapidarie scene di Dario Gessati, come le palpebre di un sonno senza ragione che partorisce mostri degenere e la banale verità del male: Desdemona muore perché è innocente; Otello uccide perché resta un mostro assetato di sangue, rintanato, prima del suicidio annunciato, sotto il letto, come l’orco delle fiabe che vorrebbe ghermire per l’ultima volta la sua preda bella e perduta.
Vista l’allure teatrale della pièce, che si differenzia per l’avvincente regia da altre, (a nostro avviso) meno convincenti, recenti prove shakespeariane in Italia, il movimento spiraliforme dell’ordito, come un perfetto congegno, si riavvolge su se stesso e si chiude così com’era iniziato: sulla centralità abrasiva e munifica del capocomico. Nonostante la promessa di tacere, infatti, l’ultima battuta è ancora di Jago ed è un sublime inchino.
Otello
di William Shakespeare
regia Arturo Cirillo
traduzione Patrizia Cavalli
con Salvatore Caruso, Arturo Cirillo, Michelangelo Dalisi, Rosario Giglio, Danilo Nigrelli, Monica Piseddu, Luciano Saltarelli, Sabrina Scuccimarra
scena Dario Gessati
costumi Gianluca Falaschi
musica Francesco De Melis
luci Pasquale Mari
una produzione Teatro Stabile delle Marche - Teatro Eliseo - Nuovo Teatro srl
IN TOURNÉE
E chiù ‘a bestia è feroce, chiù ‘a bestia è o’ padrone The Metamorphosis del Teatro dell'Argine: Kafka in Palestina di Davide Pansera
“A’ Paura d’Israele nuje forse nunn’a capimmo, ma poiché nun simmo sciemi ‘a contestualizzammo e nà cosa ‘a capimmo,
capimmo ca n’ommo trattato trent’anni comm’ a n’animale
addiventa nà bestia affamata, impaurita e pertanto feroce e chiena ‘e cazzimma, è normale, è naturale…
E chiù ‘a bestia è feroce, chiù ‘a bestia è o’ padrone
‘a bestia chiù bestia è sempre ‘o padrone
‘a bestia è l’impero ca se fa dottrina
'a morte la bestia…
viva Palestina.”
Al Mukawama - Flowers of Filastin
La Metamorfosi/The Metamorphosis, coproduzione italo-palestinese di Teatro dell’Argine di Bologna e Al-Harah Theater, ha debuttato il 26 novembre all’ITC Teatro di San Lazzaro (Bo) ( ).
Teatro dell’Argine scrive così un ulteriore capitolo del proprio lavoro sulla Palestina dopo la sessione di drammaturgia e scrittura creativa sulla tematica I muri e le risorse idriche nei Territori Occupati in Palestina nel 2004 che ha dato vita ad uno spettacolo e ad un cortometraggio e il laboratorio La scelta dell’incontro sulle condizioni di vita sotto occupazione condotto in Italia proprio con Al-Harah Theater, compagnia che ha già frequentato spesso i palcoscenici italiani partecipando nel 2001 al Festival di Teatro per ragazzi al Piccolo Teatro, nel 2004 al Festival teatrale del Mediterraneo e con tre tournée nel 2002, 2004 e 2007.
The Metamorphosis, diretto da Pietro Floridia e recitato in arabo da attori palestinesi con sovratitoli in italiano, è nato durante il soggiorno di otto componenti di Teatro dell’Argine nei territori palestinesi. Qui la compagnia, in collaborazione con Al-Harah Theater, ha organizzato tre laboratori: uno di teatro-circo, a cui hanno partecipato i ragazzi di uno dei tanti campi profughi palestinesi; un laboratorio di scenografia condotto da Gabriele Silva durante il quale sono state elaborate le scenografie dello spettacolo; e un laboratorio di drammaturgia a cui hanno partecipato educatori, maestri e studenti universitari.
Nella scelta del testo il regista ha raccolto la volontà della compagnia palestinese di non cimentarsi in un soggetto che raccontasse direttamente la situazione nei territori occupati ma di partire da un classico attraverso il quale potessero emergere pertinenze con la violenza della vita quotidiana in Palestina.
La scelta è ricaduta su La Metamorfosi, il racconto più conosciuto e rappresentato dell’autore ebreo Franz Kafka per l’alto valore simbolico, metaforico ed etico (da notare l’adattamento teatrale di Steven Berkoff del 1969, la messa in scena del Teatro del Carretto di Lucca, quella de La Fura del Baus, passata da Milano nel 2005 e quella di Joseph Nadj, coreografo serbo residente in Francia), e ha generato un dibattito complesso all’interno della compagnia moltiplicando le chiavi di lettura: perché Gregor Samsa si trasforma? Chi rappresentano simbolicamente gli altri personaggi? Perché alla fine Gregor muore? E’ pensabile un finale differente?
Questo fermento ha portato alla scelta di simbologie volutamente ambigue che restituissero allo spettatore la possibilità delle molteplici chiavi di lettura.
Gli spazi scenici, in particolare la stanza/gabbia di Gregor, come i gesti di violenza e repressione, la fragilità della figura del padre come l’ambiguità della sorella ci rimandano alla condizione palestinese perché sollecitano le nostre aspettative, perché il pubblico sa che sta guardando lo spettacolo di una compagnia palestinese e tende ad inchiodare lo spettacolo stesso a quell’unico compito: raccontare il conflitto israelo-palestinese.
The Metamorphosis sceglie invece un carattere universale che non prescinde dal contesto in cui lo spettacolo nasce ma che vi si rapporta in modo molto sottile sviluppando il tema dell’indagine dell’altro, della complessità e violenza dei rapporti familiari, del saper andare oltre le corazze altrui, del dilemma di adattarsi o meno a condizioni di vita non umane.
Traspare in modo chiaro la volontà di Al-Harah Theater di non lasciarsi sopraffare dall’occupazione israeliana, ne in termini materiali e fisici come hanno dimostrato nel 2002 quando il loro teatro è stato distrutto da un bombardamento di una colonia vicina e dal giorno successivo hanno ripreso a fare teatro sui cassoni di alcuni camion; ne in termini artistici, non semplicemente riflettendo le condizioni di una vita sventrata dall’occupazione israeliana ma rielaborando questo vissuto all’interno di poetiche altre, in costruzione e non solamente in reazione.
Avventuriero del linguaggio Una intervista con Sergio Pappalettera di Francesca Pasquinucci
“Penso che Duchamp, come dai suoi diari, abbia girato la ruota perché si stava annoiando. Può essere anche un suo modo di dichiarare qualcosa, però ci posso credere che lui fosse a casa di sua sorella, ha preso questa ruota e l’ha girata. Altrimenti saremmo tutte persone che ogni giorno si svegliano con l’ansia di produrre qualcosa”.
Avrei voluto conoscerlo da piccola. Mi avrebbe trasmesso l’entusiasmo per la complessità, delle cose, ferme e in movimento, degli eventi, dei pensieri e delle parole, delle piante, degli animali. Delle persone. Avrei capito che per impossessarci di una qualsiasi verità della Natura, osservandola con l’occhio di artista, di scrittore o di commercialista, è inutile partire dalle cose più semplici: la semplicità non esiste. Tutto nasce complesso, tutto è intriso di una magia naturale molto più profonda di quella che ci immaginiamo. La complessità è un albero e la semplicità ne è il frutto.
Sergio Pappalettera è un avventuriero del linguaggio. E’ un artista che si “accontenta” del mondo, perché “è un posto non ancora del tutto scoperto”, e per questo crede che la fantascienza sia un porto dell’immaginazione ancora lontano.
Il Big Bang dell’universo artistico di Pappalettera, avviene ogni giorno nello Studio Prodesign di Milano, officina delle cover dei dischi dei più importanti musicisti italiani, e luogo di progettazione di comunicazione e linguaggi, legati all’evento dal vivo.
E’uno dei “guru” italiani della sperimentazione visiva, da sempre primo collaboratore per le performance live e per i progetti grafici di Lorenzo Jovanotti Cherubini.
La storia di Sergio Pappalettera è ricchissima di creazioni ed eventi.
E’ nato a Milano il 15 settembre del 1961. Ha frequentato il liceo artistico, la facoltà di architettura al Politecnico di Milano, e ha fatto parte della Scuola del Cinema di Milano. Agli inizi degli anni ‘80 ha fondato lo Studio Prodesign, orientando la propria attività nell’ambito musicale; innumerevoli le collaborazioni con i più grandi artisti italiani: possiamo citarne alcuni, tra cui Franco Battiato, Renato Zero, Laura Pausini, Giorgia, Gianni Morandi, 883 e Max Pezzali, Pino Daniele, Adriano Celentano, Irene Grandi, Timoria, Raf, Mario Venuti e Nek, per i quali ha realizzato le cover destinate alle loro produzioni discografiche. La sua collaborazione più grande rimane tutt’oggi quella con Lorenzo Jovanotti.
E’ stato scenografo per tour musicali e per il teatro. E’ stato regista di videoclip musicali, premiati dalla critica negli anni in cui sono stati prodotti: Forma e sostanza (1997)con Giovanni Lindo Ferretti dei CSI, File not found (2001) e Salvami (vincitore nel 2002 del Premio per la regia del miglio video di Ricerca) di Jovanotti. Sempre per Jovanotti ha prodotto un video sperimentale girato in super 8, dal titolo Mamillapatalla, una sorta di diario-racconto della realizzazione del disco Capo Horn del 1999.
Nel 2000 ha realizzato un cortometraggio intitolato Venceremos selezionato come film per il Sundance Film Festival e Festival di Locarno.
Molteplici sono i premi da lui ricevuti nel corso della carriera oltre a quelli già citati, tra cui il riconoscimento per le opere realizzate in campo grafico e per le videoinstallazioni ricevuto a Brescia Music Art nel 2000, e il premio per il mediometraggio Mario il Cavallo ritirato nel 2001 al Roma International Film Festival.
Nel 2004 l’Istituto di Cultura Italiana in Brasile ha organizzato una mostra su tutte le più importanti cover della musica italiana di Pappalettera, accanto ad una personale sulle sue opere, dedicandogli un intero piano del Palazzo di Giustizia Federale di Rio De Janeiro.
Il 2008 è l’anno della personale Il gioco del mondo in Triennale Bovisa a Milano: un progetto di grande successo, che ha visto la partecipazione di Lorenzo Jovanotti e Aldo Nove, il cui tentativo è stato quello di modificare la chiave di lettura dell’esposizione delle opere d’arte. Attraverso il lavoro svolto dall’artista, lo spazio dedicato alla mostra ha ospitato opere che hanno rielaborato il concetto di “gioco e i suoi oggetti”, come reinterpretazione di elementi comunicativi e simbolici.
Nel corso degli anni ha maturato esperienza nel campo dell’insegnamento: dopo aver collaborato come docente in alcune Università lombarde nei corsi di Comunicazione Visiva e Graphic Design, è attualmente titolare della cattedra di Crossmedialità e Creatività presso lo IULM di Milano. E chi meglio di Pappalettera può insegnare la materia, lui che utilizzando l’arte e i mezzi informatici è riuscito ad alternare, e forse anche a combinare, marketing artistico e show design. La crossmedialità, cioè la dimensione permessa dalla convergenza digitale per le attività di creazione e di distribuzione dei contenuti informativi o di intrattenimento, fruibili a richiesta in diversi formati e su diversi apparecchi, è la nuova frontiera dell’offerta di mercato.
Varco la porta del Prodesign in una fredda giornata di inizio Dicembre, giusto qualche giorno prima che l’Italia di fine 2009 venga completamente coperta dalla neve. Allo Studio c’è anche la cucina, che si fa posto tra le immagini de Il gioco del mondo.
E il caffè di Sergio è sempre pronto…
Qual è la tua storia? Come sei arrivato ad essere Pappalettera illustratore di copertine, regista e show designer? Come mai hai scelto questo settore particolare? Potrei dirti che la mia carriera di artista è iniziata frequentando il Liceo Artistico.
Erano gli anni ’70, e Liceo Artistico significava imparare tre forme di comunicazione ben precise: scultura, pittura, architettura.
Io ero poco interessato all’architettura e non conoscevo la scultura: per me era importante disegnare. Il liceo mi ha dato la possibilità di approfondire i rapporti con i miei professori che erano pittori, e il fatto di essere pittori impegnava noi studenti a frequentare mostre e gallerie, a entrare in contatto con la figura dell’artista vero e proprio. Così, dopo un bel periodo di frequentazioni di persone ed ambienti, ed ovviamente di studi, iniziai a sentirmi artista anche io. Fu il momento in cui dissi “ok, voglio fare questo mestiere, voglio fare l’artista”.
Poi però, quando frequentai l’Accademia, in modo un po’ presuntuoso pensai che il pittore lo potevo fare anche senza una preparazione accademica: mi volevo cercare un ruolo diverso e mi iscrissi alla Facoltà di architettura, mantenendo sempre l’interesse per il disegno, passando attraverso “fasi” come il surrealismo, l’informale… Questa è la ritengo una cosa bella, perché tutti passano le fasi, un giorno sei Dalì, poi l’altro giorno sei un Informale, poi sei Pollock e due settimane dopo diventi Fontana che taglia le tele! E’ una cosa normale, fa parte del bagaglio di esperienza personali, che va riempito il più possibile.
Oltre ad essere divertente è anche importante, perché è un percorso, una conoscenza delle varie ramificazioni della materia che diventa oro quando sei più grande. Tecnicamente è una ricchezza immensa, perché nel tempo ti accorgi veramente di saper usare le mani. A me è successo così.
Tornando agli studi di Architettura, in quel momento non capivo nemmeno io che cosa fosse la figura dell’architetto: è utile ripetere la data, inizio degli anni ’80, per ricordare che Architettura voleva dire Archittettura o Urbanistica, ancora una volta a differenza di oggi che ha vari distaccamenti che vanno dal Movie Design al Design applicato, etc.
A quel tempo dovevi diventare come Renzo Piano o Le Corbusier, o un tecnico del territorio.
In quel periodo però, presso il Politecnico di Milano, grazie a Cesare Stevan, nacque un Centro di Documentazione Video: Stevan comprò delle Betacam, io mi avvicinai a questo Centro e alle macchine da presa, e insieme ad un altro allievo e ad un assistente, cominciammo a fare dei documentari. Da qui la grande passione della ripresa. A questo punto per me poco importava che andassi a riprendere un mercato della frutta o degli elementi di architettura, era fondamentale il mezzo. Iniziammo a giocare con i mezzi a disposizione, producevamo un sacco di video, e la passione crebbe così tanto che arrivato all’ultimo anno di Architettura mi iscrissi alla Scuola di Cinema, capendo che a me interessava raccontare con le immagini.
Nel frattempo aprii uno studio di grafica per sopravvivere; con molta fortuna facevo l’assistente ad un gruppo che si chiamava Plagio con il quale, nel periodo in cui lavoravamo per Fiorucci, inventammo i famosi angeli con gli occhiali. Questa fu l’occasione per incominciare a mischiare tutti quei linguaggi imparati al liceo. Iniziò a chiudersi un cerchio sensibile e fortunato, quello dell’espressione. Vorrei aggiungere un dettaglio: studiavo chitarra classica, e avevo l’opportunità di capire il senso dell’espressione anche a livello musicale.
Facevo un sacco di cose, col rischio di farle tutte male, ma capivo che era un punto a mio favore perché sapevo fare tutto spinto dalla voglia di conoscere tutto, un tutto, s’intende, ristretto al campo dell’arte.
Il video e la fotografia entrarono prepotentemente nella mia vita, ovviamente in maniera analogica: il computer iniziò ad arrivare quando io facevo già il grafico con la colla e la carta, con le immagini prese dai libri e dalle riviste che io andavo a comprare a New York.
New York e il Giappone per me erano la base di una parte del mio lavoro: là andavo a cercare le riviste dove si trovavano i font, i caratteri, che una volta in Italia fotocopiavamo per inventarci caratteri nuovi da utilizzare nei lavori di grafica.
Avvicinarsi a tutte le tecniche, imparare più cose possibili, sperimentare più linguaggi, è come parlare una lingua universale nel momento in cui si lavora e si collabora con persone che svolgono lavori artistici diversi.
Posso fare un esempio in parallelo con la musica: da chitarrista classico non mi ero mai avvicinato alla musica elettronica, e adesso, a cinquant’anni, mi trovo ad essere innamorato della musica elettronica, non solo di quella colta, ma di quella dance! Sembra un paradosso, ma è la voglia costante di scoprire che ti porta fare questo; non credo tanto nel “mettersi in gioco”, credo piuttosto nel “divertimento” di conoscere una cosa nuova, che non ti annoia mai. Tanti sostengono che l’unico difetto può essere quello del non andare mai veramente in profondità nelle cose, ma secondo me non è vero, anche l’andare troppo in profondità può nascondere grandi mancanze. Per tornare alla similitudine musicale, l’esecuzione non è la creazione, un musicista può essere un grande esecutore, ma non vuol dire per forza che sia un grande compositore o comunque un grande comunicatore di sensazioni.
C’è un bellissimo testo di Nelson Goodman in cui si parla dell’interpretazione, dove l’autore si chiede se una canzone triste debba avere anche un interprete triste: la risposta è no, l’interprete deve essere bravo a dare quella sensazione e lo può fare conoscendo tutte le sensazione e gli stati d’animo dell’essere umano.
Questo per dirti che sin da giovane ero stregato dall’idea che la creatività fosse una dimensione superiore.
…che cosa ti attraeva del video?
Il fatto di essere duttile, veloce, che poi è il motivo per cui è diventato sostitutivo del cinema perché è più duttile. Per questo mio modo di essere molto infantile, ero e sono molto affascinato dal video perché mi dà la possibilità dell’immediatezza; ho bisogno di tempi più ristretti proprio per un fattore caratteriale. Il set fotografico, per esempio, mi annoia: la meticolosità e l’attesa per me sono fonte di noia e mi sembra di non poter esprimere al meglio delle cose che vorrei fare. Inseguo da sempre la filosofia dell’azione intesa come il “fare”: mi piace il concettuale nella fase dello studio, ma nel momento dell’esecuzione ho bisogno di immediatezza. È un po’ come accade in musica con il solfeggio, che è ritenuto dagli studenti una cosa massacrante, che ti fa quasi pensare di smettere di suonare; però poi ti accorgi che anche la fase del solfeggio è fondamentale perché non solo è una possibilità di lettura e di interpretazione della musica, ma di scrittura. Dopo un lungo studio, il solfeggio diventa come una cosa innata, non ci si chiede più i perché della posizione dei pallini neri sullo spartito, tutto diventa linguaggio libero.
Quindi ritengo che la fase dello studio metodico e noioso, anche paranoico, è la più interessante; la parte pratica non deve più essere metodica, deve essere libera.
In ogni caso non bisogna mai creare un confine tra la zona della teoria e la zona della pratica, è la regola per un buon risultato nella comunicazione!
Come è nato lo Studio Prodesign?
Lo Studio nacque negli anni ’80. Come ti ho detto andavo a New York a comprare riviste utili per i miei lavori. Acquistai una rivista di skateboard che in quel momento, in America, era un vero e proprio fenomeno.
Le riviste di skateboard avevano una grafica accattivante, ed erano bellissime da guardare, con tutte quelle immagini di ragazzi che saltavano con quell’aggeggio sotto i piedi. Io ne ero estasiato, era un mondo fantastico. In una di queste, tra gli annunci di massaggi, c’era la pubblicità di un negozio californiano di disegnatori di skateborad che si chiamava Prodesign, ed io, dentro di me, pensai “Studio Prodesign…bellissimo!!””. E così arrivò il nome dello studio.
Non è un nome da leggersi a favore del design, perché in realtà a me il design non piace, molte volte è assurdo. Io sono per il bel disegno delle cose, e penso che l’esasperazione nel disegno degli oggetti, soprattutto quelli di uso comune, sia una follia.
Sin dalla sua nascita il Prodesign ha realizzato copertine dei dischi, dopo aver lavorato nella moda con Fiorucci e Avirex, per citare due nomi.
Ci sono stati una serie di incontri che hanno permesso di svilupparci nel settore musicale: il primo fu quello di mia moglie Patrizia Ferrante nell’ ’81-’82 (all’ora non eravamo ancora sposati…) con Claudio Cecchetto, che ci chiese di rilavorare al marchio già esistente di Radio Deejay. Nel frattempo nacque Radio Capital, e venni chiamato a disegnarne il marchio e l’immagine della radio stessa.
Inizialmente, moltissimi sono stati i lavori per le produzioni dance, perché in quel periodo era quello che andava, ed era anche l’epoca in cui nascevano le radio libere: disegnavo copertine per artisti internazionali, che facevano tre pezzi e poi sparivano dalla circolazione, ma vendevano milioni di copie.
Le prime copertine veramente importanti sono state quelle per Jovanotti.
Lui aveva già un disco alle spalle, La mia moto, e fa un salto di qualità passando immediatamente a Giovani Jovanotti.
Andai a sfogliare una vecchia enciclopedia americana, tra quelle pagine vidi una persona seduta con la camicia a fiori e arrivò l’idea per la copertina. Il disco si chiamava Giovani Jovanotti e inserimmo dei bambini che volavano… era un primo tentativo di imitare le copertine fantasmagoriche dei dischi stranieri. Ero convinto che anche in Italia si potessero fare delle cose belle come quelle: con coraggio e voglia potevamo uscire dallo standard del ritratto del cantante.
Negli anni ’70 l’illustratore di copertine, abusava un po’ dell’areografo: in ogni caso si trattava di grandi artigiani dell’immagine. Il modo artigianale di produrre immagine portava sempre a dei risultati superlativi, era una possibilità di creare dei mondi, non dimenticandoci che la forma dell’Lp forniva lo spazio ottimale per arrivare a questa magia.
La varietà degli studi del liceo tornarono in aiuto ancora una volta per la mia avventura nella creazione delle cover dei dischi italiani.
L’uso di vari linguaggi e di varie tecniche, la funzionalità della comunicazione, le riflessioni sui suoi risultati sul pubblico, sono venuti fuori anche quando hai iniziato a lavorare nei concerti?
Si, e la collaborazione con Jovanotti è stata fondamentale per capire ancora meglio i segreti della Comunicazione.
Lorenzo è il primo che mi ha dato fiducia. E’ l’artista italiano più adatto a sviluppare un lavoro di concept e di elaborazione della comunicazione, all’interno della dimensione live. È uno che è molto ricco di ritmo, e la comunicazione stessa è ritmo, è movimento.
Non a caso nella fase di messa in scena le più grandi discussioni vengono fuori tra chi fa le luci e chi fa i video, perché sono due soggetti che attraverso il loro mezzo hanno la possibilità di raccontare a modo proprio la stessa storia, lo stesso messaggio. Ci potremmo quindi trovare di fronte a due narrazioni diverse dello stesso soggetto.
Le immagini sono pulsazioni, sono movimento, sono emozioni che vanno a tempo con la musica. Allora è chiaro che il ragionamento sulle potenzialità della comunicazione si fa serio quando si lavora con un personaggio come Lorenzo, che intraprende un percorso che va dalle canzoni vere e proprie, con dei testi, con dei contenuti, con delle parole, su cui io posso e fare delle considerazioni, al ritmo che funziona anche da solo, senza parole, e dona altre emozioni introducendo per esempio una serie di suoni accattivanti come tamburi africani o altri accenni di musica etnica inseriti a dovere in punti strategici e soprattutto in modi strategici. Diventa il territorio della sperimentazione pura, e accetta anche di lavorare su un territorio di un’immaginazione non stereotipata, ma piuttosto un’immaginazione che procede per contrapposizione. Il rischio che l’immagine, l’emozione non arrivino c’è sempre, ma in vent’anni acquisisci un’esperienza tale che diventa mestiere, impari dei meccanismi automatici dell’emozione stessa, sai che alcune cose funzionano sempre e altre invece non funzionano. L’esperienza è la base di tutto, ma bisogna avere la fortuna di trovare chi ci da la possibilità di farla! Parlando di live, qual è stata la vostra prima collaborazione?
Il primo tour che abbiamo fatto insieme è Carboni - Jovanotti, nel 1992. Quell’anno, e quella produzione hanno rappresentato per Lorenzo una svolta sia dal punto di vista musicale che di popolarità. Il successivo è stato il tour legato a Penso Positivo, nel 1994.
Già nel ’92 Giancarlo Sforza introdusse delle innovazioni per il concerto dal vivo. Fece scalpore veder portare sul palco un canestro da basket. Il palco, per pochi minuti diventava un campo da basket, e i due cantanti erano i giocatori di una mini partita.
Fa un po’ ridere ripensarci, perché era una cosa molto piccola, ma anche questo abbozzo di interazione di Lorenzo e Luca con la palla da basket rappresentò in quel momento una grande novità. Il concerto diventò qualcos’altro, venne abbattuta la sacralità dell’artista, della pop star.
Molto probabilmente niente era studiato dal punto di vista prettamente concettuale, ma c’erano comunque delle intenzioni per lavorare su qualcosa di nuovo.
Di li in poi è stato un crescendo…
Si, e la tecnologia è stata di grande aiuto nella nostra evoluzione.
Nei primi tour c’erano le video proiezioni, per le quali usavano delle enormi macchine che venivano dalla Francia, ed erano state utilizzate anche per proiezioni sulla Torre Eiffel.
Le prime proiezioni veramente potenti non mi consentivano di lavorare su immagini “cinematografiche”, era già un risultato se riuscivo ad animare delle grafiche. Io potevo disegnare delle figure su pellicola, e loro, i francesi, riuscivano a fare una pseudo animazione. Per noi era già un successo riuscire a proiettare delle immagini di quelle dimensioni e con quella luminosità.
La luminosità era l’aspetto tecnico più importante e più difficile. Tecnicamente era impossibile proiettare su una superficie di 25 metri per 30, non ci pensavamo neanche, non potevamo e basta.
Queste macchine riuscivamo a proiettare per 40 metri, ed era una cosa grandiosa per noi.
Col passare del tempo, piano piano, il mezzo ha cominciato a darci delle possibilità creative.
Ricordo che era un’emozione fortissima vedere il tetto del palazzetto coperto da un cielo stellato, cosa che oggi non farebbe più effetto, perché ormai il pubblico si è abituato ad un escamotage del genere.
Lo stupore viene dettato dall’ingigantimento; l’antropologo Gilbert Durand parla del concetto di “gulliverizzazione: l’essere piccoli rispetto a immagini di cose o persone gigantesche, come quelle che possono essere proiettate durante uno spettacolo, produce un’emozione molto forte.
Per esempio, noi proiettavamo una boccia di vetro con un pesce rosso, larga 25 metri. Era gigantesca.
Nei live dei più grandi artisti si è visto di tutto, secondo te c’è ancora da inventare qualcosa che possa meravigliare o le soluzioni espressive sono già state sperimentate tutte? Credi che a un certo punto bisognerà tornare al minimalismo per suscitare emozione e stupore?
Non ho una chiave di lettura precisa per questa domanda, forse nessuno potrebbe dare una risposta, ma ci sono una serie di riflessioni che si possono fare.
Io credo che sia un punto di non ritorno inteso in un senso più che positivo. Penso che non siamo ancora arrivati a sfruttare potenzialmente tutte le nostre possibilità espressive, soprattutto dal punto di vista tecnologico. L’arrivo a questo punto di non ritorno è in realtà solo un inizio.
Il “ritorno” sarà invece ciò che è sempre stato, cioè rimarrà intatto l’aspetto sacro dell’artista, del performer, che fa un evento live.
L’elemento sacrale dell’uomo, della carne, che rappresenta se stesso ci sarà sempre, e sarà un fatto valutato e rivalutato, ma siamo coscienti che la tentazione è di andare oltre la rappresentazione di quello che vediamo oggi intorno a noi.
Non abbiamo fatto tutto, e in questo caso non parlo di tecnologia, che è arrivata ad un’altissima qualità e ci potrà aiutare sempre di più, ma parlo in termini di “opera totale”.
Il dono più bello dei mezzi tecnologici è la possibilità di mischiare i linguaggi. Questo non è stato ancora fatto completamente, perché è vero che sono stati usati i video post prodotti, i video prodotti in diretta, manipolati in diretta, il balletto, la parola narrata, etc..ma tutti ancora legati a quell’area sacra della centralità dell’artista.
Credo che oggi le potenzialità di questi mezzi possono portati a dire “Io sono quello che ha pensato l’opera, ma non è necessario che io sia li, o se sono li posso essere anche virtuale.”. Sarà l’idea di espressione a contare, ovviamente insieme alla performance. Riuscire a concepire un’opera totale che funzioni con tutti i linguaggi oggi è una rivoluzione: il problema è che bisogna essere artisti molto bravi, molto preparati, per superare il concetto di artista incentrato su se stesso. Alla base ci deve essere una grande umiltà e una grande voglia di conoscenza, di collaborazione con altri artisti, e di venire in contatto con altre forme d’arte. Un artista deve anche avere il coraggio di ripensare allo spazio dello spettacolo, ancora una volta per superare il concetto di centralità: deve saper rinunciare all’essere al centro dell’universo della comunicazione.
L’uomo, inteso come pensiero e cervello, resterà comunque fondamentale per tutto, perché la tecnologia sarà sempre un qualcosa che si adatterà al cervello umano. Pensiero e idea sono ancora più avanti delle macchine.
Guardando al futuro e pensando sempre alla situazione concerto, secondo te è possibile sviluppare una vera e propria interattività’ tra palco e pubblico, con l’aiuto della tecnologia?
Certamente. Ma questa interazione non deve essere confusa con l’interazione dei multimedia. Purtroppo l’unico rischio della tecnica è quella che, parlando di interazione, ci si limiti sempre al mezzo multimediale.
Il mezzo ti illude e ti vincola a quel tipo di interazione. L’idea dell’uomo deve nascere da qualcos’altro, deve essere un’esigenza espressiva, solo successivamente il mezzo ci deve venire in aiuto.
Se è il mezzo che mi dichiara l’interazione, mi dispiace, ma è poco interessante.
È l’idea in se che funziona, l’idea che non deve essere subordinata alla tecnologia. È un passo importante e non facile, e non so se siamo ancora pronti: l’interazione in un concerto deve avere un senso, solo in questo caso possiamo dare la parola anche al pubblico diverso. Altrimenti rischia di diventare una velleità, quasi una dimostrazione di forza.
Ci deve essere un’esigenza precisa di interazione col pubblico, di comunicazione dell’informazione. Il mezzo rende tutto immediato ad è una figata, è vero, ma allora potrebbe essere interessante interagire inserendo una manipolazione dell’immagine di chi sta nel mezzo alla comunicazione: esempio, l’immagine che mi sta mandando la telecamerina che io ho dato ad uno del pubblico, oppure a cinquanta, o a mille, posso riutilizzarla come linguaggio, la manipolo e la rilancio quello stesso pubblico.
Se la ridonassi così com’è ci illuderemmo tutti di creare linguaggio, ma in realtà non lo è.
Che cosa succede quando bisogna allestire un tour di Lorenzo? Come nasce l’idea e come iniziate a lavorare?
Le prime telefonate sono quelle per dire che si inizia l’avventura, per prenderne coscienza, e ci ritroviamo per sentire i pezzi nuovi e magari riflettere anche su quelli vecchi che verranno eseguiti nel concerto.
Poi ci sono le mail.
Lorenzo è capace di inviarmi, in una sola sera, mille e cinquecento immagini diverse, senza un minimo filo logico. Inizialmente sono delle immagini e basta, delle sensazioni: la sua risposta alla mia domanda sul perché abbia scelto quelle immagini è “Perché mi piace!”. Ma allora ci sono cose che possono piacere anche a me, e Lorenzo mi dice di inserirle, di buttare dentro materiale interessante, magari anche solo a livello sensoriale.
E’ ancora una volta un po’ quello che succede ai bambini, che fanno una cosa perché a loro piace, perché funziona emotivamente.
Da questo tipo di ricerca nasce poi una strada da seguire, dettata da una selezione.
Il modo di lavorare di Lorenzo è appunto quello di propormi una quantità immensa di materiale, che poi io rielaboro nel mio studio, e gli ripropongo a mia volta per capire in che direzione creativa possiamo andare.
Potrei dirti che all’inizio c’è una specie di anarchia creativa, è il famoso sogno ad occhi aperti, poi ovviamente andiamo a studiarci tutti i riferimenti culturali, artistici, sociali delle immagini che abbiamo creato. In questa fase la presenza di Lorenzo è fondamentale perché offre degli stimoli incredibili.
Nell’intervista per l’inaugurazione della tua mostra Il gioco del mondo Lorenzo parla di una visione ludica, intesa come visione della vita. In fase di ideazione di un concerto voi pensate molto al gioco? Cercate sempre di mantenere un rapporto tra fantasia e realtà, oppure il vostro intento, utilizzando il gioco del video e dell’immagine, è quello di estraniare completamente lo spettatore?
L’aspetto ludico è molto interessante, perché rappresenta una premessa al divertimento. La componente ludica di partecipazione fa già divertire i partecipanti al gioco, prima che il gioco stesso abbia inizio.
Se tu pensi al tutto come a un gioco hai la garanzia di poter interagire, d’altra parte il gioco in se non potrebbe mai essere giocato senza i giocatori.
In primis il gioco è interessante perché ha delle regole, quasi matematiche ma non così rigide come un’equazione, e la forza del gioco è la possibilità di poterle mettere in discussione.
Seconda cosa, il gioco è l’avvicinarsi all’irrealtà: il fatto che tu possa vestirti da Superman, ti fa sentire Superman, anche se poi ti butti giù dal palazzo e ti sfracelli perché non sei in grado di volare come lui. Ma questa è la grande forza del teatro, quella dell’irrealtà della maschera tragica del teatro greco. Come in teatro, nel gioco c’è la possibilità di avvicinarsi a qualcosa di impossibile.
Anche in tour ci avviciniamo a qualcosa di impossibile, arrivano 10.000 persone, sovraeccitate da un’aspettativa che l’artista non sa bene qual è. In realtà si tratta della partecipazione ad un grande rito, che lega tutti, dai ragazzi del pubblico, all’artista, ai tecnici. La partecipazione al rito, con l’acquisto del biglietto, l’attesa di ore fuori dal palazzetto, è fortemente adrenalinica.
Dal momento in cui tutto il pubblico entra nel luogo deputato allo spettacolo inizia il nostro lavoro, noi dobbiamo dargli qualcosa che lui si aspetta. Il rito diventa necessariamente qualcosa di stupefacente: se noi non facciamo entrare queste persone in una dimensione irreale la magia non si compie. (Lasciamo per un attimo da parte il fanatismo che porta le persone a vedere più volte uno stesso spettacolo, e ovviamente a sapere esattamente quello che succederà.)
Con Lorenzo la politica, l’intenzione, è sempre quella di fare entrare gli spettatori in un grande Luna Park. La definizione di Luna park per noi è sempre accattivante, perché quando entri in quel luogo sei sempre un po’emozionato e un po’ spaventato perché andando sulle giostre metterai a repentaglio la tua vita, anche se sai benissimo che non è così perché tutto è controllato: ma c’è sempre quella possibilità su mille che il seggiolino su cui sei seduto si sganci, e questo pensiero ti da adrenalina.
Oltre al gioco pericoloso c’è quello rasserenante, poi ci può essere quello che mette alla prova la tua abilità nel fare una serie di cose, etc et...La metafora del Luna Park è bella perché esci e hai provato delle esperienze che ti sembrano uniche.
Il gioco rappresenta quindi il poter entrare un in un mondo fatto di irrealtà, costruendo dei nuovi linguaggi, perché nel gioco vale tutto: i bambini giocano inventando, sono pienamente coscienti che stanno operando di fantasia, ma si immergono completamente in quella, si immedesimano in tutti i personaggi e in tutte le situazioni da loro create.
Ciò che mi piace del lavoro con Lorenzo è che nell’immaginazione da noi sviluppata cerchiamo sempre di essere collegati alla realtà: ci piace immaginare un mondo nuovo, prendendo elementi del mondo in cui stiamo vivendo. Per capire questo concetto possiamo pensare a quanti giochi diversi si possono fare con le carte: il mazzo è sempre lo stesso, i segni sono sempre quei quattro, e i numeri hanno il loro valore sempre, ma i giochi sono svariati.
Io posso prendere due oggetti e creare una convergenza di significati tra di loro, posso prendere un leone e una madonna che accostati non vogliono dire niente per te, ma per me vogliono dire qualcosa; non inventiamo mai un animale a sette zampe, di raro arriviamo a certi livelli, prima di tutto ci interessa giocare con la realtà, con le cose che abbiamo già a disposizione. Questo rappresenta la possibilità di “descrivere” una realtà che per tutti è uguale, perché il mondo è li a nostra disposizione, però cerchiamo di trovare delle chiavi di interpretazione diverse. La mole delle cose che non conosciamo del nostro mondo è vastissima, quindi possiamo lavorare su quella, rielaborarla, senza andare a cercare la fantascienza. Operiamo con la consapevolezza di aver conosciuto e di conoscere delle cose, le abbiamo già viste e studiate, e le rimettiamo in gioco, arrivando a descrivere una realtà. Credo che sia anche una grande dichiarazione di pluralismo intellettuale, in questo modo non c’è mai una verità assoluta. Quando si ha davanti un pubblico così numeroso, che ti attende per ore, e arriva di fronte al palco carico di adrenalina, entra in gioco l’onestà intellettuale dell’artista, perché deve scegliere quali significati donare ad un gruppo di persone che in quel momento può assorbire qualsiasi messaggio. L’artista deve dare la visione del “proprio” mondo, la sua verità, che può essere diversa dalla verità di ognuno dei presenti.
Viene intrapreso un dialogo con il pubblico, che potremmo anche definire dialogo del divertimento puro: giochiamo, con degli oggetti, con dei simboli, con immagini che hanno un valore semantico molto forte, con delle visioni nostre di un elemento della realtà che ci circonda, e durante i live non stiamo mai attenti alla bellezza della ripresa, ma piuttosto all’emozione che può arrivare da un’espressione di Lorenzo. Da parte del pubblico l’analisi, le domande, i dubbi, le riflessioni, credo che vengano fuori alla fine di tutto, nel rientro a casa. Questo è il gioco come noi lo intendiamo, in un luogo deputato al divertimento, alla creazione e all’espressione come quello del palco. Tu hai lavorato per l’Albero Tour, per CapoHorn Tour, il Quinto Mondo e Buon Sangue. Qual è stata la particolarità di ogni tour dal punto di vista drammaturgico e dal punto di vista della realizzazione vera e propria, dei mezzi e delle cose usate?
La grande particolarità dell’Albero Tour è il palco centrale. E’ stata una grande intuizione di Giancarlo Sforza, e Lorenzo si è messo subito a disposizione per realizzarla nel miglior modo possibile. Il palco centrale porta ad una rivoluzione del tempo e dello spazio, è una situazione in cui la percezione del concerto cambia totalmente.
Per idea di palco centrale non intendo la visione a 360 gradi dello spettacolo, che esisteva già nella storia dei concerti, intendo un “centrale” che lancia dei flussi di energia, riconoscibili in alcuni aspetti molto tecnici, come ad esempio le passerelle che permettevano di arrivare molto più facilmente vicino al pubblico in alcune zone del palazzetto. Era un palco centrale dove avvenivano tutta una serie di sorprese, tra cui un altissimo albero gonfiabile che veniva su piano piano. C’era proprio l’intenzione di sorprendere, di non lasciare mai il pubblico concentrato su un’unica parte di spazio che è quella deputata al palco. Lì non c’era mai un’attenzione fissa, in ogni momento avvenivano cose in posti diversi: c’era una zattera da una parte, c’era un palco più piccolo dove si facevano dei pezzi in acustico, c’era ovviamente l’albero che cresceva, etc…
Quindi credo che la “frammentazione dell’attenzione” fosse la caratteristica più importante del L’Albero Tour.
L’obiettivo che ci siamo preposti in Capo Horn Tour è stato quello del coinvolgimento di tutti i sensi. Lo chiamerei il tour “sinestetico”.
Abbiamo fatto un esperimento (che poi era presente anche sul booklet del cd Autobiografia di una festa) di esaltare il senso dell’odorato: c’era il senso dell’udito, con i suoni, il senso della vista, con le immagini proiettate, il tatto, con il corpo che si muove, e stavolta c’era anche il senso dell’odorato, che era il senso che mancava in uno spettacolo, e che è una nostra caratteristica antropologica fondamentale. Era bello mettere in gioco anche senso un po’ abbandonato da tutte le forme di comunicazione.
Visivamente abbiamo continuato ed evoluto il progetto del tour precedente, infatti mentre L’Albero Tour aveva una drammaturgia frammentata, in Capo Horn invece c’è un racconto molto più uniforme, e il tentativo fu quello di creare un grande posto all’aperto, caratterizzato da un cielo stellato che copriva tutto il tetto del palasport.
Le proiezioni quindi non avvenivano più solo sul palco, ma anche in alto, sul soffitto, in modo che tutto il pubblico dentro il palazzetto avesse queste visioni intorno a se, accostate agli odori: avevamo una vista che non era più separata, ma totale. Un dimensione psichedelica, intesa come coinvolgimento di tutti i sensi. Per il Quinto Mondo Tour parlerei di “minimalismo rock”: luce bianca, annullamento di tutto.
Arrivando dalle due grandi esperienze multimediali e scenografiche precedenti, ci siamo concentrati sulla luce, sulla semplicità, e soprattutto sui contenuti video.
L’Albero Tour era molto teatrale, c’era una ancora una grande difficoltà a lavorare con le immagini digitali e si sopperiva con la scena, con le macchine vere e proprie, Capo Horn Tour era una prima opera totale, e nel Quinto MondoTour abbiamo iniziato a ripulire tutto e mettiamo su uno spettacolo della concentrazione visiva: visione e suono senza il resto.
Palco pulito, piatto, definito in gergo un palco “rock” composto da tanto ferro e un megaschermo.
Ci fu un’importante novità tecnologica: iniziammo ad usare il Gi-lec.
Una tecnica nuova, pulita, senza orpelli, senza decorazioni, senza nessun segno se non l’immagine digitale supportata da questo Gi-lec che era utilizzato dagli U2: a livello economico, il nostro era una categoria inferiore di investimento di quello utilizzato dagli U2. Era uno schermo con una grandissima luminosità, che ci consentiva di utilizzare i colori nella loro vera concretezza digitale, erano molto forti; rappresentò il superamento della rappresentazione video, perché il Gi-lec aveva dei Led che si avvicinavano più alla visione dei pannelli pubblicitari delle grandi metropoli (vedi Time Square a New York). Con il Gi-lec era inutile avvicinarsi alla realtà, tutto era molto forte, i colori erano spinti.
È stata una fase molto importante perché la realizzazione del tour è stata basica, senza orpelli, e concentrata solo sulla produzione di immagini, di colori, e di luci, e ha segnato il momento in cui abbiamo cominciato ad entrare anche in un ritmo diverso della rappresentazione e della costruzione dell’immagine: in poche parole, a quel punto erano solo due i protagonisti, da una parte la musica con Lorenzo, con il corpo, e dall’altra lo schermo. Era allora necessario creare una grammatica, costituita da saturazione del colore, montaggio serrato delle immagini etc..l’occhio doveva proprio impazzire.
In Buon Sangue Tour siamo tornati ad occuparci di spazio, e a fare delle cose diverse sugli schermi. Come direbbe Zbigniew Rybczynski, abbiamo cominciato a concepire lo schermo non solo come potenzialità video, ma anche a separarlo, a vedere che gli schermi si muovono, a capire che su uno stesso schermo si possono fare tante cose diverse, per dirla semplice.
New Book e Tango dello stesso Rybczynski, per me sono stati un esempio, li ritengo una specie di Cappella Sistina del Video.
In Buon Sangue avevamo gli schermi che si potevano muovere, e si potevano mandare in onda una serie di cose insieme a delle altre, e il linguaggio che creavamo poteva essere molto vicino a quello della video installazione.
Stavolta l’intento era quello di portare avanti un lavoro molto più sofisticato, più cool, più intelligente e più concettuale. Era tutto molto più pop.
Abbiamo concepito una narrazione che prima era assente.
Per allestire Safari Tour, io e Lorenzo ci siamo messi a riflettere.
Creare immagini nuove vuol dire creare immagini che sono comunque già vecchie nel momento in cui le creiamo: sono immagini nuove nel linguaggio, ma non nuove in se per se perché la gente le percepisce solo come uno standard. Durante lo spettacolo, che io mandi un film di Buster Keaton o un’immagine girata da noi, per il pubblico è la stessa cosa, perché il mezzo di comunicazione è sempre lo stesso, anche se può cambiare il linguaggio.
Lorenzo però mi ha detto che aveva l’esigenza di andare oltre, aveva l’esigenza di spiegare che noi produciamo immagini e lo facciamo anche in tempo reale. Facciamo i veejay.
Il problema dei tour è che la date sono diverse, ma anche il pubblico è diverso, quindi tutte le persone hanno le percezione che il tour sia uno anche se io faccio uno show diverso in venticinque città.
Anche se faccio tutte immagini nuove, e Lorenzo fa una scaletta diversa ogni sera, per il pubblico l’evento è unico.
Allora ci siamo detti che l’unico sistema era lavorare su ritmi impossibili delle immagini e sull’improvvisazione. Il modo per arrivare ad un risultato di livello era elaborare software che ci permettessero di realizzare la nostra idea di ritmo: noi tecnici dovevamo stare in regia, lui doveva fare delle azioni, nel frattempo noi preparavamo dei filmati in post produzione e le sue azioni dovevano intrecciarsi con le nostre. In modo che lui non fosse mai pre-registrato.
In questo modo l’immagine video era veramente manipolata in diretta. Perché c’era la presenza della persona, cioè c’era Lorenzo con le sue azioni e io lo usavo come oggetto, come pixel, deformandolo, colorandolo, cercando di lavorare anche sul tempo.
Facciamo un esempio: tu salti, io registro il tuo salto in tempo reale, usando dei software lo separo in pezzettini, o posso vedere cinque momenti diversi… Sostanzialmente faccio una regia televisiva del secondo millennio.
Credo che il Safari Tour sia stato più degli altri un vero e proprio live tecnologico.
Avevamo una macchina che prendeva i segnali di luce da una semplice pila che teneva in mano Lorenzo e in tempo reale poteva trasformali in una scritta, in un disegno, etc..
La cosa importante è che l’uomo è sempre necessario, se non c’è il tuo gesto non esisto neanche io, questa è la filosofia. I Ragazzi della Prateria sono stati bravissimi nel creare questi software per l’elaborazione delle immagini in diretta, molto vicini alla videoinstallazione: ci possono essere vari riferimenti, come i tappetti di Studio Azzurro, e tutto quello che è videoinstallazione interattiva. D’altra parte la videoinstallazione funziona meglio quando è interattiva, perché ci da la sensazione di partecipare all’opera.
Il live in ogni caso rappresenta il rischio, ogni cosa, ogni persona, può produrre un errore che può mandare in tilt un software, e di conseguenza non far accadere delle cose magiche; il Safari Tour può essere definita un’opera totale per la grandissima quantità di macchine e di persone impiegate, ognuno necessario all’altro, e ognuno necessariamente in perfetta sincronia con l’altro, per non arrivare all’errore. L’errore diventa creatività quando è cercato, non quando è errore vero.
Un lavoro mastodontico e difficilissimo.
Ma credo che il futuro sia questo, uno spettacolo caratterizzato dalla sempre più presente interazione con le macchine, che danno la possibilità di lavorare in mille modi sul tempo dell’azione.
Ridare la parola al teatro Conversazione tra Andrea Balzola, Giorgio Barberio Corsetti e Gioia Costa su Epistola ai giovani attori di Olivier Py con la collaborazione di Andrea Balzola in collaborazione con Silvio Combi
Conversazione tra Andrea Balzola, Giorgio Barberio Corsetti e Gioia Costa sulla traduzione e messinscena del testo “Epistola ai giovani attori” di Olivier Py, un’occasione per riflettere sullo stato del teatro e della drammaturgia in Italia a confronto con la scena francese.
AB - Nell’ambito del progetto Face à Face (promosso dall’Ambasciata di Francia per fa conoscere la nuova drammaturgia francese al pubblico italiano), Giorgio Barberio Corsetti ha realizzato uno spettacolo degno di memoria e di riflessione: Epistola ai giovani attori. Con debutto al Piccolo Eliseo e una ripresa al Teatro Nuovo Colosseo di Roma, diretto da Ulisse Benedetti e Simone Carella. Un piccolo grande evento teatrale, semplice, di una sobrietà quasi austera e nello stesso tempo molto ricco, per la qualità poetica e la portata simbolica del testo del drammaturgo-regista francese Olivier Py, con un’apposita ed eccellente traduzione di Gioia Costa, per la straordinaria interpretazione del protagonista Filippo Dini coadiuvato da Mauro Pescio, e per la sapiente regia di Corsetti. Un’opera metateatrale, che riporta al centro della scena il gusto e la pluralità semantica della parola, una parola che non solo tende a mummificarsi in repertorio nel teatro d’abbonamento, ma che nella società contemporanea viene svuotata di senso e di sensi per ridursi a stereotipo o slogan mediatico, codice barbaro di una popolazione che comunica senza più esprimersi. L’attore (Filippo Dini), si trucca e si veste da “attrice tragica” rivolgendosi direttamente al pubblico (un pubblico ideale di giovani attori) per tessere la sua apologia della parola, scontrandosi con un’antagonista tipizzato (l’organizzatore, il critico, etc.) e mutando continuamente registro: declamatorio, poetico, ironico, satirico, melodrammatico... Attraversando cioè tutti i generi del linguaggio teatrale e i modelli recitativi, in una grande prova di virtuosismo attoriale ma che non è mai gratuita, anzi fa il verso ai vizi mattatoriali di una recitazione che si compiace della parola ma di rado riesce a coglierla e trasmetterla nella sua essenza. Quello di Py è una sorta di manifesto per la Rinascita della Parola in Teatro (ma dove il teatro è microcosmo di un’utopia sociale) , con una graffiante verve critica nei confronti del Teatro Opaco gestito sempre più dai funzionari, dai manager, dagli imbonitori televisivi, dai politici e dagli “scambisti” (non solo di prestazioni sessuali ma anche di “pacchetti teatrali”), piuttosto che dagli artisti. Triste deriva che in Italia è diventata “normale”. A parte alcune eccezioni, le istituzioni e i fondi teatrali sono messi in mano ad antichi capocomici oppure a funzionari politicamente orientati, segno della mancanza di un progetto culturale sul teatro italiano.
GBC - Alcune situazioni interessanti esistono, ma sono un po’ arroccate, per il resto dilagano in effetti i funzionari, o “Faiseur”, come dicono in Francia, gente che fa tanto per fare senza nessuna idea. Diciamo che tendenzialmente è raro che in Italia si elabori un pensiero sul teatro, più che altro ci sono delle persone che fanno delle messe in scena più o meno riuscite, con attori più o meno declamanti, ma con scarso o nessun interesse sul piano della ricerca. Anche se a questo punto, non so nemmeno bene cosa desideri il pubblico, poiché si è talmente ristretta la zona di quello che viene comunemente chiamato teatro, che probabilmente quelli che vanno a teatro vogliono proprio la convenzione più scontata. Oppure la replica teatrale del modello e dei personaggi televisivi.L’impressione che ho è che noi (la mia generazione teatrale) pensavamo di partecipare all’inizio di qualcosa, invece siamo stati chiamati a testimoniare la fine di qualcosa.
Resta stranamente un margine di pubblico comunque interessato a quello che facciamo, ma c’è stata un’ulteriore corrosione degli spazi.
AB - Però si assiste anche a una contraddizione curiosa: c’è uno scollamento tra una critica che si è piuttosto atrofizzata, anche perché i media hanno ridotto le recensioni a trafiletti e iconcine più o meno sorridenti, una mancanza di progetti teatrali legati alla gestione degli spazi e il fermento di nuove idee, nuove personalità e nuovi gruppi che affiorano. Perché esistono molte giovani compagnie e anche artisti che hanno già un certo percorso alle spalle, che comunque continuano a fare ricerca in varie direzioni… E’ un paradosso tipicamente italiano…
GBC - Quello che io ho verificato preparando Vertigine - festival di teatro emergente italiano, è infatti una grandissima ricchezza di proposte, anche differenziata nei generi. Resta il fatto che non c’è un ecosistema, non c’è un terreno, i luoghi per questo tipo di teatro sono sempre più ridotti e ho l’impressione che sia necessario ricominciare da capo con altri criteri. Probabilmente non troppo legati al denaro pubblico. Bisogna pensare ancora una volta ad una maniera diversa e non so bene quale debba essere.
AB - Proprio la ricerca di nuove modalità di organizzazione, produzione e distribuzione teatrale è al centro delle varie edizioni degli incontri sulle Buone Pratiche del Teatro, curate da Mimma Gallina e Oliviero Ponte di Pino su iniziativa della rivista ateatro. Da alcuni anni a Milano, poi a Napoli, e fra pochi giorni a Bologna, si riuniscono le compagnie, sia emergenti sia quelle che hanno già una loro storia, per dare una testimonianza delle Buone Pratiche, cioè dei percorsi alternativi nella ricerca di finanziamenti, spazi pubblici o privati... mettendo a confronto queste esperienze. Il risultato è interessante perché rivela l’esistenza di una strategia della sopravvivenza che però diventa anche un laboratorio di nuove formule possibili, di relazione con gli enti pubblici e di produzione. Una dimensione molto legata al territorio, cosa che credo oggi sia molto importante. Perché c’è una sorta di bisogno identitario dei luoghi, cioè di capire chi siamo, dove siamo, qual è la nostra storia all’interno del proprio territorio, cercando di interpretarne le aspirazioni e le peculiarità.
GBC - Dipende molto dai territori, ci sono regioni che si sono spese molto, mentre altre zero. Non c’è appunto un progetto culturale complessivo, tutto è affidato all’iniziativa dei singoli ed è molto legato alle differenti situazioni, ad esempio la zona dell’Emilia Romagna è sempre stata molto munifica, anche la Toscana, mentre il Lazio lo è molto meno, Roma è ormai una città disperata. Mandano la polizia a chiudere spazi autogestiti come il Rialto SantAmbrogio, uno dei pochi spazi alternativi di questi ultimi anni, per cui alla fine rimangono pochissime situazioni legate a iniziative private, un po’ infelici e precarie, oppure rimangono situazioni più garantite sul piano istituzionale come il Teatro India ma che sono bloccate.
AB - Ma tu eri stato coinvolto in un primo periodo nel Teatro India...
GBC - Per lavorarci ho chiesto alcune cose che non mi sono state date, per cui ho salutato e me ne sono andato. Non mi interessava, preferisco non soffrire, il livello della sofferenza è già troppo alto nel lavoro quotidiano. Ci sono delle considerazioni che per me sono fondamentali, puramente artistiche, su cui non riesco a transigere, per cui se io mi occupo di qualcosa lo faccio perché credo che abbia un senso, se mi occupo di uno spazio, di un festival, inviterò sempre quelli, e soltanto quelli, di cui stimo il lavoro. Nel momento in cui mi rendo conto che invece c’è una confusione tra il piano artistico e altri criteri lontani da questo, per cui il valore artistico e quello che si fa in quel luogo è secondario rispetto ad altre logiche di scambio, non mi interessa più. C’è tanta gente che è capace di far questo, di mediare o di fare esercizio di diplomazia, io non sono disposto a farlo. Per questo all’Auditorium mi sono trovato meglio, nel mio incarico c’erano dei limiti ben precisi perché la programmazione è limitata nel tempo e c’è un ricambio continuo, c’è una logica dello spazio, per cui uno spettacolo si fa per uno, due giorni, massimo tre. Non è una logica da teatro, ma nonostante questo ho avuto carta bianca sulle scelte artistiche.
Tra l’altro sono riuscito a creare il premio Equilibrio per i giovani coreografi che non esisteva, e, a parte il festival che ho creato io, spero che questa nuova iniziativa di Vertigine possa avere una continuità nel tempo, adesso è sostenuta dalla Regione per cui non so bene cosa succederà dopo le elezioni, in ogni caso ho l’impressione di fare qualcosa di sensato. La cosa allucinante in Italia è che i teatri non siano legati a degli Artisti, o quantomeno, le considerazioni per le quali delle persone vanno a dirigere i teatri sono di altro genere, non immediatamente artistiche.
Secondo me un teatro non deve essere solo un luogo dove si esplica una politica culturale, o la politica e basta, è un luogo che deve esprimere un pensiero sul teatro, di qualsiasi genere, non necessariamente un pensiero d’avanguardia o di ricerca ma una riflessione profonda sul teatro. Per far questo c’è bisogno di un artista, di qualcuno che il teatro lo faccia, e poi ovviamente c’è bisogno di un’altra figura professionale, quella che si occupa della gestione amministrativa e organizzativa. Invece i teatri pubblici sono dei pachidermi, da una parte hanno una gestione molto complessa e sottoposta a ogni tipo di ricatto e poi tendenzialmente sono governati dalla politica. L’ingerenza della politica in Italia ovviamente è nociva in tutti i settori, ma nel teatro si è rivelata mortale.
AB - Tu che hai un’esperienza di lavoro in costante rapporto con l’estero, che tipo di confronto puoi fare?
GBC - E’ il secondo anno che preparo uno spettacolo per l’Odéon che è il più grande teatro di Parigi, il più grande teatro di Francia e forse d’Europa, ma non è solo una questione di primati. Il ministro della cultura francese ha affidato la direzione al drammaturgo e regista Olivier Py e lui svolge il suo lavoro presentando i propri spettacoli e producendo altri spettacoli all’interno di un progetto preciso, di una direzione artistica che gli corrisponde. Quindi fa dell’Odéon non solo il teatro di Olivier Py, ma il teatro in cui si sviluppa un pensiero sui testi poetici, un luogo di poesia teatrale, quindi di testi dove non prevale il realismo o la presa immediata sui problemi sociali, ma piuttosto la ricchezza della lingua poetica. Che poi tutto questo abbia anche una presa sulla realtà è inevitabile, come dimostra il testo di Py “Epistola ai Giovani Attori”, che ho portato in scena in Italia.
Sono testi scritti con una forte attenzione alla parola che diventa elemento fondamentale, la parola intesa come parola poetica, parola simbolica, parola piena, parola che si perde col suo suono e col suo significato originario nelle radici stesse della parola. E’ una scelta di Olivier che poi si deve confrontare col pubblico. L’anno scorso lui ha fatto un ciclo di lavori di Howard Baker, un drammaturgo inglese in Italia completamente sconosciuto, molto potente, e io ho messo in scena il suo Gertrude, la madre di Amleto. E’ una sua riscrittura dell’Amleto, violentissima, con un linguaggio poetico e nello stesso tempo scuro, denso, pulsionale, molto, molto forte. Quest’anno invece stiamo lavorando su Dimitriades e adesso sono alle prese con un suo testo. Py ha voluto affidarmi questo compito, di confrontarmi con questi testi un po’ enigmatici. Quindi si dà spazio alla nuova drammaturgia, assumendosi un rischio ma anche un ruolo di promozione culturale: far scoprire al pubblico degli autori sconosciuti. Nello stesso tempo si lavora in un teatro molto grande, che comunque deve rispondere a un pubblico vasto e a dei conti economici, deve mantenere e far crescere gli abbonamenti. Gli stessi problemi che hanno i nostri grandi teatri pubblici, ma loro rischiano mentre noi no... Tra l’altro all’Odéon hanno un progetto che oltre agli autori coinvolge anche registi di generazioni e provenienze diverse, che vengono messi alla prova durante la stagione. Ci sono anche registi molto più giovani di me ed ognuno di loro fa riferimento a una particolare scena nazionale, a un centro drammatico nelle diverse regioni. La Francia è piena di questi teatri, che sono anche teatri di produzione, diversamente dai nostri, che di produzioni ne fanno sempre meno e all’interno di un giro molto ristretto, dove devi rispettare certe regole di allestimento degli spettacoli, di materiali che adoperi, di interpreti, secondo dei criteri stabiliti da coloro che controllano questo circuito e che sono da questi ritenuti accettabili per il pubblico, come se il pubblico avesse un suo indice di gradimento che determina poi le scelte di programmazione, un po’ come accade in televisione. Questo abbassa il livello dei cartelloni e riduce la varietà delle offerte.
AB - Già Dario Fo aveva detto anni fa che a vedere i cartelloni degli stabili italiani sembrava di essere al cimitero perché erano tutti autori morti. Alla stagione teatrale sembra poi che siano abbonati anche i registi oltre agli spettatori. E poi sopratutto accade quello che dicevi tu, c’è un eccesso di filtri che vengono imposti sulle scelte del cartellone, innanzi tutto il filtro politico, poi il filtro dello scambio di produzioni tra teatri stabili che poi è la logica che fondamentalmente li regge. Inoltre nella prassi mi sembra che sempre di più la produzione teatrale si stia trasformando in una sorta di catena di montaggio, per cui si montano degli spettacoli anche su autori e su testi complessi in pochissimo tempo per qualcosa che poi muore li, o che comunque ha una limitata circuitazione, viene a mancare il tempo necessario per l’elaborazione artistica di un progetto di messinscena. Il mestiere prevale sull’arte.
GBC - Certo, un progetto di messa in scena ha un costo e il tempo di allestimento dipende dal budget dello spettacolo, per cui se non ci sono molti mezzi bisogna far presto. In Francia ho quasi due mesi di prove, un lusso di cui sono più che felice. Il progetto su cui sto lavorando è in preparazione da più di un anno, mi è stato commissionato con due anni di anticipo e quando sono andato a scegliere gli attori ho avuto la più totale libertà. L’attrice che per esempio rappresentava Gertrude ha vinto il Molière, per cui sono stati ben felici di farla lavorare ancora e per me è una delle migliori attrici che ci siano in Francia in questo momento.
AB - E invece una realtà più povera come quella del Portogallo, che tu conosci bene, che caratteristiche ha ?
GBC - Ci sono due teatri nazionali, uno a Lisbona e un altro a Porto, poi ci sono tante altre piccole realtà con grandi difficoltà perché comunque in Portogallo la situazione economica è ancora peggiore della nostra. Però anche là c’è una grande ricchezza di proposte e un gran fermento. Per esempio Raquel Silva, che è la mia assistente storica e alla fine dell’anno scorso ha presentato un suo lavoro all’India, adesso sta mettendo in scena uno spettacolo con un gruppo di attori che ha deciso di fare il giro delle montagne, un percorso costruito durante diversi anni di escursioni attraverso tutti i paesini delle montagne portoghesi. E’ un gruppo molto attivo e anche molto interessante e la caratteristica dello spettacolo è che può andare ovunque, in qualsiasi sala con qualsiasi caratteristica, molto flessibile, e così loro portano il teatro laddove il teatro non è mai stato. Quindi scoprono un impatto primario del teatro sulle persone, riproducendo una sorta di fase originaria dell’evento teatrale. Il Portogallo è una terra molto strana, perché da una parte è totalmente europea, ma conserva ancora un elemento arcaico fortissimo. C’è ancora quello che in Italia esisteva fino alla morte di Pasolini: un legame con la terra, con la campagna, che qui si sta perdendo, si sta sfaldando. A Porto si sente più che a Lisbona che è una città più europea. A Porto si trovano ancora quelle che Pasolini chiamava le facce da poveri, non sono ancora completamente omogeneizzati. Ma anche lì ovviamente le cose stanno cambiando.
AB - Tornando a Py, la scelta di quel testo come è avvenuta?
GBC - Il passaggio è stato abbastanza singolare, perché sapevo che lui aveva scritto questo testo, ma non l’avevo ancora letto, poi dovendo scegliere gli attori per fare Gertrude, mi ha dato il video de l’Epistola interpretata da John Arnold, un attore franco-inglese che interpretava il personaggio principale in una maniera straordinaria, nello stesso tempo mi sono innamorato del testo, per cui quando dall’ambasciata francese mi hanno proposto di fare qualcosa per Face à Face, io ho detto che mi sarebbe piaciuto moltissimo lavorare sull’ Epître. Il testo ha una potenza incredibile, Epistola ai giovani attori è una lettera, un anatema lanciato per far conoscere ai giovani attori qual è l’essenza del teatro. Il poeta si veste da attrice tragica per parlare del teatro, invocando la forza della parola nel momento in cui viene in tutti i modi calpestata, dimenticata. Non si tratta ovviamente di un’apologia della chiacchiera ma della parola intesa nel suo senso più profondo, nella sua essenza che è misteriosa, enigmatica unione di visibile, di udibile e di inaudito. Una parola legata all’invisibile all’inesprimibile come punto emergente di tutto quello che non può essere detto e non può essere espresso e nella fattispecie, il sacro, tutto ciò che ha a che fare con la poesia, con il mondo nascosto e quindi con il valore simbolico della parola. Dove per simbolo si intende quello che si può mostrare dell’invisibile. Quando Florensky parla delle icone appese sull’iconostasi nella chiesa ortodossa, le icone non sono delle immagini, ma delle finestre aperte sull’altro mondo, che è il mondo dei sogni o l’al di là o il mondo dei santi, che per lui sono la stessa cosa.
AB - Tra l’altro il termine ”simbolo” etimologicamente vuol dire unire, unione, quindi è l’unione del visibile con l’invisibile, del rappresentabile con l’irrappresentabile, e mi sembra che una chiave importantissima di quel testo sia l’idea che nel momento in cui si perde la capacità della parola, nel senso in cui la intendevi tu, non c’è più alcun ponte con l’invisibile e con il simbolico. Questo è il vero inferno, invece del simbolo c’è il “diavolo”, la cui etimologia è appunto, all’opposto, divisione, separazione...
GBC – Nella nostra società mediatizzata abbiamo inventato la cosa peggiore che possa esistere, un simbolo che non significa nulla, non un simbolo che simbolizza il nulla ma il simbolo di un simbolo di un simbolo... un rimando di specchi che non significa assolutamente nulla, uno svuotamento totale. L’universo dei significati ridotto alla piattezza della traduzione letterale: l’ A=A dell’espressione televisiva, dove si racconta soltanto ciò che è, o che appare. L’impero della tautologia. Nel testo di Py a questo mondo si contrappone la maschera dell’attrice tragica che si spende giocando su tutti i registri possibili, dal gigionismo più estremo a una componente fortemente patetica, all’ironia. E in questa sua omelia in favore della poesia e della parola poetica viene continuamente interrotta da vari personaggi che in un qualche modo rappresentano gli stereotipi della contemporaneità e contro cui poi lei si scaglia. Alla fine dice: in fondo la parola è promessa, la parola non è soltanto qualcosa che appartiene al passato, ma anche qualcosa che appartiene al nostro destino e il nostro destino è promessa, promessa di una trasformazione, di un’altra vita, di un’altro mondo anche in senso metafisico. Si ribadisce qui una funzione epifanica della parola, è molto diverso dire mi fanno male i piedi, che è l’espressione di una sensazione, e io ti sarò fedele, che è una promessa, e la parola è anche amore nel senso più ampio, un atto di appartenenza al genere umano e quindi anche alla divinità che nel genere umano si rispecchia.
AB - In questo si riprende anche la tematica espressa da Benjamin nell’Angelus Novus dove si dice che il mondo prende forma con l’atto di dare un nome alle cose, quindi la cosmogonia passa attraverso la parola, o come nelle Vie dei Canti di Chatman, dove memoria e identità di un popolo, quello aborigeno, sono legate alle parole e al loro suono originario.
GBC -E’ il potere profondo della parola che nello stesso tempo è suono. Qui si rivela l’importanza del valore fonetico, la capacità del fonema, della sonorità, di risuonare e di riempire lo spazio. Quindi il fonema anche come energia, come potenza vitale, legato al senso, legato alla composizione di una parola accanto all’altra. Di fatto ogni parola ha la sua potenza, la sua radice che si proietta nel rapporto con l’altro e di conseguenza esprime un’energia sia vocale, che mentale, che fisica legata al respiro, il soffio vitale che tu proietti in direzione dell’altro da te. In questo scambio, in questa promessa passa il non detto che c’è tra gli esseri, tutto ciò che non è esplicitato e che comunque è presente nell’atto stesso in cui questa parola viene formulata. Una straordinaria ricchezza che si perde nel bla-bla, nella degenerazione del discorso prodotta soprattutto dai mezzi di comunicazione di massa. Perché la parola oggi s’impone come rumore, mentre dovrebbe scaturire dal silenzio e non dal frastuono, è un momento di silenzio, diciamo che deve stagliarsi in esso, per questo per me il teatro parte da un momento di quiete e di silenzio, di ascolto. La parola è ascolto delle parole che risuonano dentro noi stessi e i poeti notoriamente sono attraversati dalla parola, non la possiedono, ma ne sono il veicolo.
Ricordiamoci della Lettera del Veggente di Rimbaud che diceva: io è un altro, la parola attraversa, viene da altrove, è udita, anche Olivier Py vuol dire questo nel suo testo. Rimbaud diceva non è colpa del legno se ne fanno dei violini, cioè non è colpa del poeta se a un certo punto la sua materia si mette a cantare e a suonare parole. Quando uno scrive davvero non sta più scrivendo, è scritto, non so come dire, viene scritto da qualcos’altro.
AB – Sì. È quello che ho sperimentato anche nella mia esperienza drammaturgica, che la scrittura funziona proprio quando non c’è più l’intenzione. Quando tu sei preso dalla scrittura, quando accade che le parole si scrivano da sole, allora in questa fluidità si percepisce che sta passando un’energia, si sente che c’è veramente la parola come materia vivente e significante. D’altra parte la radice della poesia è la preghiera, il mantra, unità indissolubile di significato e di vibrazione sonora, come diceva Paul Valery la poesia raggiunge il senso attraverso il suono. Perciò è così difficile tradurre la poesia.
GBC – Eppure, quando c’è veramente questa attenzione, si riesce a scavalcare anche la difficoltà di traduzione da una lingua all’altra. Questo è un altro miracolo della parola, che in qualche modo attraverso la sensibilità del traduttore riesce a far passare il suo senso intatto da una lingua all’altra.
AB – A proposito di questo, alcuni si sono domandati come mai tu non abbia usato per la tua messinscena la traduzione già pubblicata (da Editoria & Spettacolo), preferendo invece far ritradurre il testo a Gioia Costa. Leggendo l’originale francese di Py e ascoltando dall’attore la traduzione di Gioia, ci si accorge del lavoro straordinario fatto da lei.Secondo me a un certo livello il traduttore è come una sorta di medium, la traduzione diventa una specie di lucida trance, soprattutto quella per il teatro che deve poi essere espressa, deve funzionare in bocca all’attore.
GBC - Premetto che io conosco molto bene il francese, per cui riesco a rendermi conto se la traduzione risponde esattamente o meno alla mia lettura. La traduzione esistente era molto francesizzante e si perdeva secondo me il linguaggio parlato di Olivier.
Gioia è molto brava, ci avevo già lavorato, aveva tradotto per me dei testi di Artaud particolarmente difficili, scritti in un periodo in cui lui era profondamente disturbato, pieni di parole inventate, però con un senso profondo che le legava alle altre parole, una miscela esplosiva che Gioia era riuscita a tradurre in modo da consentirmi di recitarla. Quindi, nel momento in cui mi sono trovato di fronte a una lingua come quella di Olivier, che può essere estremamente raffinata e in certi momenti cercare l’opposto, scavando nel linguaggio più basso per poi di nuovo ripartire, mi serviva una traduzione molto, molto sensibile.
AB – A questo punto chiedo a Gioia: considerando che paradossalmente la forza del testo di Py è anche la sua difficoltà, un'apologia della Parola e della sua musicalità, con una stratificazione di significati e anche di livelli linguistici, qual è stato il tuo approccio iniziale alla traduzione e quali le tue principali chiavi di lettura?
G COSTA - Olivier Py scrive con lo stesso slancio con il quale recita e mette in scena: un fiume. Quando Giorgio Barberio Corsetti mi ha proposto di tradurre l’Epistola ai giovani attori per la sua compagnia questo invito è stato per me un vero dono. Sono anni che rileggo questo testo e lo faccio leggere, perché tocca la mia ricerca di una parola-parabola, una parola che è azione. Rispetto all’insieme della produzione drammaturgica di Py, questo testo è un getto, come lo sono in natura quei germogli che rompono la corteccia. È un’invettiva d’amore e di rivolta, e non differisce dalle opere più strutturate e drammaturgiche: solo, sembra esserne la filigrana.
AB - Cosa manca e cosa può esserci in più, o di diverso, nella versione italiana rispetto a quella francese?
G COSTA - Ogni testo è un particolare movimento: nello spazio, nel corpo dell’attore, nella scena. Cambiando lingua, il movimento cambia. La scommessa, traducendo, è trovare una nuova andatura, che sia corretta ma che abbia carattere: si tratta di creare un nuovo tempo per la parola. Ed è bellissimo cercare.
AB - Quali differenze riscontri tra le caratteristiche della parola drammaturgica italiana e francese?
G COSTA - Una volta Luca Ronconi, rileggendo insieme un testo, parlando delle differenze del pubblico mi ha detto: i francesi ascoltano, gli italiani guardano. Folgorante nella sua chiarezza. Credo l’origine sia qui.
AB - Vedendo lo spettacolo e rileggendo il testo sia in francese sia nella tua traduzione, mi ha colpito molto la sua forza di rilanciare il teatro come luogo di riscatto simbolico di una parola spogliata di senso dalla società. Il teatro può svolgere effettivamente ancora questo ruolo di provocazione e sensibilizzazione collettiva della collettività, soprattutto dei giovani, come accadeva tra gli anni 60 e 80?
G COSTA - Speriamo! Sono certa che abbia un grande valore e una forza che opera in profondità: è il luogo della Parola, e se Py ha saputo ricordarci quanto la parola possa modificare le cose, e fondarle, e generarle, allora sì! Credo che – con le giuste proporzioni – il teatro, come ogni autentica arte, rimetta in scena il mondo, apra uno squarcio verso l’infinito. Così l’invisibile, l’insensato, possono trovare la loro forma, e svelare quel mistero cui il palcoscenico sa magicamente dare la parola. Perché il teatro possiede un segreto: sa offrire il buio e il silenzio per un ascolto straordinario.
AB - L’Epistola ai giovani attori a tratti assume quasi il tono di un manifesto programmatico, può essere letto come una metafora forte non solo rispetto al teatro ma anche in relazione alla società attuale. Io ho sempre pensato al teatro, forse in una visione troppo utopistica-idealistica, come a un laboratorio antropologico, perché il teatro non è solo una dimensione artistica per quanto grande possa essere, ma è una sorta di sperimentazione dell’umano, di catarsi e di deposito della memoria ma anche di promessa, di una visione futura. La perdita del linguaggio simbolico e della capacità di comunicare - per esempio con altre culture - è uno degli eventi tragici centrali della nostra epoca ed è quindi molto importante che diventi soggetto dell’elaborazione drammaturgica.
GBC - Sicuramente il testo di Olivier funziona in tantissime direzioni, proprio perché centra un punto fondamentale, ovvero il valore assoluto della parola nella sua complessità di relazione con l’uso pratico e nello stesso tempo di relazione con l’indicibile, col mistero, col segreto. Coglie uno dei punti nevralgici delle nostre relazioni, della relazione tra un uomo e un altro uomo, o un uomo e gli altri uomini, la cosiddetta società. Sicuramente colpisce profondamente quelli che della parola hanno fatto la loro arte, cioè gli attori. Devo dire che le reazioni più forti, più commosse le ho sentite da parte degli attori che mi dicevano: questo testo restituisce un senso profondo al lavoro che facciamo, ci ridà uno spessore, una profondità. Tendenzialmente l’attore viene considerato come una specie di essere scimmiesco che mimagli atteggiamenti della vita quotidiana o le emozioni senza capire esattamente cosa sta scimmiottando. Dall’altra parte c’è anche il pubblico normale che sente risuonare in questo testo qualcosa che gli appartiene intimamente, il bisogno profondo che c’è in ognuno di noi di poesia, anche se la poesia è qualcosa che sembra del tutto staccata dalla vita quotidiana delle persone. Di fatto è come se quotidianamente vivessimo in una situazione di esilio, anche quando non ne siamo consapevoli, anche quando pensiamo di appartenere a questo luogo così come ci viene proposto, noi risentiamo nostalgia per un altro luogo. Questo sentimento dell’esilio può essere colmato o espresso soltanto dalla parola poetica, quest’altra terra, quest’altro luogo a cui noi veramente, profondamente, apparteniamo, che non è qua, è là. E quando incominci a far risuonare quest’altra possibilità ne sviluppi anche la coscienza.
AB - Paradossalmente la poesia è la meno letta e la meno venduta oggi ed è forse quella di cui forse c’è più bisogno
GBC - Più che bisogno, mancanza, perché il bisogno è qualcosa di cui si è consapevoli, invece si può essere mancanti di qualcosa che non si conosce. Certo si può vivere a metà, però se si riuscisse a vivere completamente sarebbe meglio. Se la vita fosse più piena sarebbe meglio. Dipende dalla coscienza e dalla consapevolezza dell’essere, dell’essere qui, dell’esserci. A me pare che il testo di Py lavori proprio su questa zona, su questo vuoto, che non è un vuoto metafisico, perché oggi ci sono delle scavatrici condotte da personaggi vivi e concreti che lavorano a togliere terreno, a creare questo vuoto giorno per giorno.
AB - La struttura del testo è un po’ mercuriale, c’è una sorta di struttura interna che disegna un possibile percorso della consapevolezza, è una parola che man mano diventa sempre più forte, man mano diventa più pregnante, si avvicina a un nucleo di senso sempre più denso...
GBC - Ci sono delle stazioni in cui intervengono dei personaggi – i disturbatori - che hanno un atteggiamento fortemente enunciatorio. Mentre la parola dell’attrice tragica ha un andamento ellittico, segue delle spirali, riviene su se stessa, riparte e poi a un certo punto scivola, invece i disturbatori hanno un loro carattere ma allo stesso tempo hanno una funzione, servono a suscitare la reazione dell’attrice. Anche la maschera dell’attrice tragica che si mette il poeta all’inizio, gli permette una moltiplicazione dei punti di vista, a volte è il punto di vista del poeta, a volte è il punto di vista dell’attrice tragica, a volte del poeta che porta quella maschera. Questa moltiplicazione dei punti di vista permette all’attore di scivolare da un’identificazione totale con quello che dice ad una grande ironia e a un distacco, c’è un gioco, si apre un terreno molto vasto in cui lui può muoversi.
AB -Infatti c’è anche molto meta linguaggio, giustamente, perché essendo rivolto agli attori, il testo sviluppa una riflessione sul teatro e sulla recitazione stessa. L’ultima cosa che volevo chiederti su questo è la scelta dell’attore che mi sembra perfetta perché Filippo Dini è davvero straordinario...
GBC - Ho fatto lo spettacolo perché sapevo che c’era Filippo Dini, altrimenti non so se avrei potuto farlo e devo dire che Filippo si è spinto in zone che non gli appartenevano, o credeva che non gli appartenessero. In genere, Filippo lavora sempre per sottrazione, ha una grandissima ironia e mira all’essenziale, però con una densità, con una voce bellissima, una presenza e un’ appropriatezza mirabili. E’ un attore molto misurato e io invece l’ho portato verso la dismisura, lui si è lanciato con grande gioia e generosità, facendo esplodere questa smisuratezza, dispiegando nel personaggio tutta la sua padronanza, la sua intelligenza e la sua grandezza d’animo. In altri testi, in altre situazioni, questa ricchezza che lui ha nelle proprie corde non la può spendere con tale profusione, sono testi che ne richiedono solo una parte, però ascoltando quella parte si può intuire tutta la sua potenzialità, qui invece ha avuto la possibilità di metterla liberamente in gioco.
Il mistero scomparso Alienazione e compulsione del teatro italiano degli ultimi anni di Antonio Syxty
Sempre più spesso mi capita di andare a teatro a vedere nuovi gruppi, nuovi autori, nuovi registi. Lo faccio per due ragioni principali. La prima è che dirigo - o meglio co-dirigo - il Teatro Litta di Milano, che negli anni ha sempre cercato con fatica di produrre nuovi registi e nuovi autori, inserendoli nella stagione di programmazione non saltuariamente o occasionalmente, ma con una linea programmatica reale, concreta e durevole nel tempo, cercando in questo modo di dare continuità quando possibile al loro lavoro e alla loro presenza sul palcoscenico del Litta.
La seconda ragione di questo mio girovagare per teatri è sinceramente dovuta alla curiosità innata in me nel cercare di scoprire e capire quelle che sono le nuove tendenze del teatro e della danza italiana di questi anni.
A margine di questo mio essere spettatore ho iniziato da tempo a rimuginare osservazioni e pensieri sulla creatività artistico/spettacolare di questi ultimi anni. Il primo pensiero è quello preponderante: ho l’impressione di trovarmi ad assistere sempre a uno stesso spettacolo, o ‘allo stesso spettacolo’. Nella realtà non è così perché i titoli sono diversi, gli artisti in scena e fuori scena sono diversi, la provenienza, la data e il luogo di creazione sono diversi. Anche le età anagrafiche dei componenti della compagnia/gruppo/ensemble sono differenti, ma è un po’ come se tutti facessero ‘lo stesso spettacolo’.
Questa mia percezione piuttosto paradossale di ‘omologazione’ me la sono spiegata individuando una stessa forma compulsiva nella creazione degli eventi a cui ho partecipato come spettatore.
Una prima istanza è l’uso del corpo, che è sempre e costantemente martoriato, sudato, abbruttito, esposto, contorto, irriso, vituperato, e così via, come se fosse necessario ridurlo o trasformarlo in uno di questi modi per renderlo ‘espressivo’, per renderlo il ‘vettore’ di un disagio dichiarato, utilizzandolo per un’estetica deforme e volutamente alienata, indicandolo ipertroficamente come l’unica possibilità drammatica di espressione.
Al corpo va unito il movimento che di solito è coatto, pseudo-danzato, parossisticamente e inutilmente reiterato in modo da creare una sorta di continuum ossessivo senza fine e generalmente noioso. Forse lo scopo della reiterazione e della ridondanza del movimento è quella di creare empatia emotiva, pietas o catarsi, ma in generale si risolve per essere una protesi emotiva quasi del tutto infantile nel suo costante stato di ebbrezza.
Sempre applicato al corpo c’è la compulsione a mostrare genitali sia maschili e che femminili. E questo ‘mostrare i genitali’ viene sempre fatto in modo anch’esso infantile e ostentato, come se ci dovessimo tutti vergognare o al contrario esaltare per il fatto che attraverso questa ‘nudità’ venga a realizzarsi una sorta di catarsi collettiva e creativa per ognuno di noi, sia officianti che partecipanti al rito espressivo/creativo.
La compulsione parossistico/espressiva del corpo viene completata con l’uso della voce che è quasi sempre anch’essa utilizzata come suono più che come interpretazione, come singulto o urlo, impedendo la fruizione - per me spettatore - della parola nell’insieme delle sue sillabe. La fatica dello spettatore è quella di ‘capire cosa stanno dicendo’, perché il più delle volte la giostra infernale dei movimenti, unita a colonne sonore altrettanto ossessive impedisce la percezione e la comprensione della parola stessa, quando viene utilizzata, come da copione o da ‘scrittura scenica’. E anche la parola – come il corpo o il movimento – finisce per essere o diventare un forma distorta di narrazione o di esposizione di messaggi più o meno decodificabili.
A tratti – come spettatori – si ha l’impressione di essere piombati in una sorta di girone dantesco dove a tutti i costi e in tutti i modi si sta svolgendo un rituale assolutamente autoreferenziale e pericolosamente patologico, molto vicino a una sorta di esperimento psichiatrico o di psico-dramma su larga scala.
Non credo di esagerare quando dico che ho visto attori/performer/interpreti farsi inondare da schiuma, acqua, piume, palline da ping pong, cereali, riso, olive, liquidi colorati, per citare solo gli ultimi spettacoli visti. E a tutti questi ‘elementi’ di scrittura scenica, si possono aggiungere anche altri strumenti scenici come asciugacapelli, macchine per fare le bolle di sapone, soffiatori da giardino, trapani e chi più ne ha più ne metta.
A mio modo di vedere, in questi spettacoli – in genere – si viene a creare per lo spettatore una sorta di transfert con i performer/attori molto simile a quello che succede nei reality televisivi - quelli più estremi - che mettono alla prova i loro partecipanti attraverso vari livelli di difficoltà. In fondo noi spettatori conduciamo una vita normale, ma lì sul palcoscenico c’è qualcuno che urla e si dibatte, mostrando anche i propri genitali, al suono di qualche musichetta straziante o irridente, atta a creare contrasto e ‘ambiente emotivo’ con l’intenzione di coinvolgerci il più possibile come voyer predestinati o prescelti da un fato culturale bizzarro e anche un po’ burlone.
Questo ‘giochi senza frontiere’ del teatro contemporaneo italiano - quello più off e quello più trendy o à la page - mettono la critica e i mètre à penser in uno stato di idillio concettuale/voyeuristico abilitandoli a una proliferazione il più delle volte entusiastica in quelle poche righe ormai rimaste a loro disposizione (ahimè!) sulle pagine della cultura e dello spettacolo dei quotidiani.
Mi viene da pensare – ed è questo uno dei punti conclusivi di questa prima parte di mie osservazioni/riflessioni – che il teatro di questi nostri anni, in Italia, stia sempre più diventando una forma di creatività completamente alienata dalla realtà, e dalle forme psicotiche ed emotive della stessa, diventando in parallelo all’arte visiva quello che Gillo Dorfles definisce ‘i fattoidi’.
Per quelli come me che hanno potuto assistere ancora giovanissimi al teatro degli anni ’80 e quelli prima di me che hanno partecipato come spettatori e osservatori del teatro degli anni ’70, viene naturale pensare che le esperienze di questi ultimi anni facciano riferimento a quel periodo: in realtà sono convinto che non è così. E mi sbilancio ad affermare che invece gli anni ’70 non c’entrano niente, perché il teatro di tendenza di questi ultimi anni – in Italia – è frutto esclusivo dei nuovi media, e dell’influenza che i media hanno nella nostra vita di tutti i giorni e quindi anche nella ‘vita creativa’. Il teatro – che da sempre negli ultimi decenni – ha voluto con forza distanziarsi come forma creativa unica, primaria e originale proprio dalla televisione, da internet, e dagli altri mezzi meccanici di riproduzione è invece diventato il naturale e alienato riferimento di questi, come per una legge del contrappasso.
Personalmente sostengo che il teatro di tendenza in Italia va sempre di più alienandosi in blog-spaces, in social networking, creando micro-community di personal bloggers in grado di convocare a se sparuti pubblici che possano postare o a loro volta essere ‘taggati’ in universi completamente minimali di narrazioni svolte per compulsione e afasìe. Tali ‘micro-raduni’ avvengono anche grazie agli stessi mezzi massivi di comunicazione come face book o twitter, per citare solo gli ultimi e più noti.
E’ come se la lezione di Amleto ai comici sul teatro come ‘specchio’ della realtà si fosse completamente cancellata, sostituendo la parola ‘specchio’ con la parola ‘finestra/finestre’ (Windows), perché forse non è un caso che il codice Da Vinci/ex codice Hammer/ex codice Leicester sia stato acquistato proprio da Lui, Mr. Bill Gates, e sia di sua proprietà in quel di Seattle (Washington), USA.
La risata musicale virtuosa e contagiosa La Repubblica di Salotti dei Virtuosi di San Martino di Francesco Urbano
Il 23 settembre 1943, in una frenetica pantomima di consultazioni e di ambizioni conflittuali tra i gerarchi del dissolto regime, sotto la diretta supervisione tedesca e in un contesto di subordinazione alle esigenze militari ed economiche del Reich, nasce la Repubblica di Salò. Il 22 dicembre 2009, in un’atmosfera ammorbata da quotidiane (in)subordinazioni mass-mediatiche, violenza sociale e atti (im)politici nasce La Repubblica di Salotto, che Roberto Del Gaudio (voce), Federico Odling (orchestrazione e violoncello), Vittorio Ricciardi (flauto), Antonio Garbardella (violino), Dario Vannini (chitarra), ovvero I Virtuosi di San Martino, hanno fatto debuttare in prima assoluta al Nuovo Teatro Nuovo di Napoli.
Accostare i due avvenimenti potrebbe suonare azzardato o forzato, ma a suggerire questa assimilazione tra il “salotto” titolante il lavoro scritto da Del Gaudio e musicato da Odling e la Salò della pre-disfatta fascista è proprio la paradossale intuizione semantica che contiene in sé devianze, soprusi, ignoranze, arroganze irrisolvibili. Ebbene sì: se “giogo” di parole deve essere, sia. Perché brani come Elegìa Marron, Il leccaculo, La Repubblica di Salotto, La presenzialista, Faccio l’off, Napule, Coro dei cocainomani, Il cantautore morto, Il moderato, La donna in forma, Disoccupato a Natale, possiedono la sardonica consapevolezza dell’analisi lucida e del ragionamento critico e indignato attraversato di politica, costume, folclore, società, teatro, intellighenzia, morale e, al contempo, vengono proposti al pubblico con il prefisso “de”. Cioè de/costruendo retoriche consolidate, de/generando significati imprevisti, de/limitando null’altro che la durata dell’esecuzione.
Roberto del Gaudio gode del dono (in realtà non gli è stato regalato proprio nulla, anzi, le cose che scrive e canta e recita sono il frutto di riflessioni affatto ponderate) dell’ubiquità del senso: i suoi testi esistono in contemporanea in più luoghi dell’intelletto pensante e della plumbea concretezza partenopea; agiscono da cinico antidoto per affrontare il quotidiano disfacimento della nostra società e da suicidante segno di civile nichilismo. L’apparente levità delle parole e la cameristica soavità delle partiture sonore sommandosi generano proprio l’effetto di abbattersi come una mannaia sulle (in)coscienze intorpidite e sonnacchiose. L’eloquenza dei titoli dei brani eseguiti e l’eloquio dei contenuti fa vicendevole contraltare ai break e ai “salotti” che compongono la scaletta di questa res pubblica. E’ un modo per far riprendere fiato ai pensieri e predisporli alle successive intuizioni, invettive, riflessioni, demolizioni; prima di un paio di bis quali ’O liberista ‘nnammurato e la celeberrima Vacaputanga di Nanni Svampa.
I Virtuosi di San Martino
in
La Repubblica di Salotto
di Roberto Del Gaudio e Federico Odling
una produzione
BAM Teatro, Associazione I Virtuosi di San Martino
in collaborazione con Nuovo Teatro Nuovo
con Roberto Del Gaudio (voce), Federico Odling (violoncello), Vittorio Ricciardi (flauto), Antonio Gambardella (violino), Dario Vannini (chitarra)
disegno luci Gaetano Piscopo
scene e costumi Nina Cefalù
Le nomination dei Premi Ubu La premiazione (e i vincitori) il 22 gennaio alle ore 18 al Piccolo Teatro di Ubulibri
I candidati al ballottaggio
Spettacolo dell’anno Sogno di una notte di mezza estate di William Shakespeare (Luca Ronconi, Piccolo Teatro di Milano-Teatro d’Europa)
Quattro atti profani di Antonio Tarantino (Valter Malosti, Teatro Stabile di Torino e Teatro Eliseo)
I demoni di Peter Stein da Fëdor Dostoevskij
Regia
Valter Malosti (Quattro atti profani di Antonio Tarantino)
Peter Stein (I demoni da Fëdor Dostoevskij)
Carmelo Rifici (I pretendenti di Jean-Luc Lagarce)
Luca Ronconi (Giusto la fine del mondo di Jean-Luc Lagarce e Sogno di una notte di mezza estate di William Shakespeare)
Scenografia
Margherita Palli (Sogno di una notte di mezza estate)
Daniela Dal Cin (… Ma bisogna che il discorso si faccia!)
Andrea Taddei (L’anima buona del Sezuan)
Attore
Giuseppe Battiston (Orson Welles’ roast)
Vittorio Franceschi (A corpo morto)
Franco Branciaroli (Don Chisciotte)
Luca Lazzareschi (Amleto e Re Lear)
Attrice
Ermanna Montanari (Rosvita)
Mariangela Melato (L’anima buona del Sezuan)
Maria Paiato (Quattro atti profani e L’intervista)
Attore non protagonista
Elia Schilton (I demoni)
Fausto Russo Alesi (I demoni e Sogno di una notte di mezza estate)
Pierluigi Corallo (Giusto la fine del mondo, I pretendenti, Sogno di una notte di mezza estate)
Attrice non protagonista
Francesca Ciocchetti (I pretendenti, Giusto la fine del mondo, La cimice, Sogno di una notte di mezza estate, Un altro Gabbiano)
Melania Giglio (Giusto la fine del mondo, Sogno di una notte di mezza estate, La cimice)
Nuovo attore o attrice (under 30)
Silvia Calderoni
Federica Castellini
Ivan Alovisio
Migliore novità italiana
(o ricerca drammaturgica) Pali di Spiro Scimone
A corpo morto di Vittorio Franceschi
Antonio e Cleopatra alle corse di Roberto Cavosi
Stranieri di Antonio Tarantino
Migliore novità straniera Giusto la fine del mondo di Jean-Luc Lagarce
Spara, trova il tesoro e ripeti di Mark Ravenhill
L’aggancio di Nadine Gordimer
Migliore spettacolo straniero
presentato in Italia Die Dreigroschenoper (L’opera da tre soldi) di Bertolt Brecht e Kurt Weill(Robert Wilson, Berliner Ensemble)
Idiotasdi Fëdor Dostoevskij (Eimuntas Nekrošius, Meno Fortas Theater)
Riesenbutzbach. Eine Dauerkolonie di Christoph Marthaler e Anna Viebrock (Wiener Festwochen, Napoli Teatro Festival Italia, e altri)
Segnalazioni per premi speciali
- Inequilibrio Festival, già Armunia, festival residenziale creato e diretto da Massimo Paganelli a Castiglioncello, per la coerenza tenace e assolutamente originale nella sua ricerca pratica con cui riunisce annualmente compagnie e gruppi non solo toscani per montare e presentare lavori vecchi e nuovi sostenendo l’originalità di una ricerca pratica.
- Primavera dei Teatri, festival ormai storico dedito alla scoperta e alla valorizzazione di giovani gruppi teatrali con speciale attenzione a quanto accade nel Meridione, diretto e guidato con amore da Scena Verticale a Castrovillari, con un’ingorda partecipazione del pubblico cittadino di ogni ceto, come raramente si verifica per queste manifestazioni.
- Santasangre, Teatro Sotterraneo, Muta Imago, gruppi guida con Babilonia Teatri dell’attuale cambio generazionale che resuscita in qualche modo gli storici fasti della scuola romana, dimostrando una capacità di rinnovare la scena, mettendo alla prova la tenuta del linguaggio e facendo emergere gli aspetti più inquieti e imbarazzati del nostro stare nel mondo attraverso l’uso intelligente di nuovi codici visuali e linguistici.
- Centro Santacristina per la sua attività di ricerca e di perfezionamento della recitazione culminante quest’anno nella recita di Un altro Gabbiano a cura di Luca Ronconi.
- Werner Strub, oggi il più grande creatore di maschere del teatro occidentale, che dalla Svizzera era già stato chiamato al Teatro di Genova in passato per una regia di Benno Besson e che per A corpo morto di Vittorio Franceschi ha realizzato per l’autore e protagonista l’effetto magico di moltiplicarne l’immagine in cinque diverse personalità.
BP2010 L'impressionante fotoromanzo delle Buone Pratiche 2010 Con i link a relazioni, interventi e Buone Pratiche e il video dell'intervento di Alessandro Bergonzoni di Redazione ateatro
Oltre 300 persone hanno affollato nella giornata del 13 febbraio l'ITC-Teatro di San Lazzaro: un successo che è andato là di ogni previsione, ottenuto - va aggiunto - con le nostre sole forze, che sono molto limitate: un sito intenet, le nostre mail, qualche telefonata, l'indipendenza e la libertà dell'iniziativa.
Per noi il vero protagonista delle Buone Pratiche è da sempre il popolo del teatro: chi ama il teatro, chi vive nel teatro e di teatro, e ha voglia di riflettere sui suoi problemi e soprattutto sul suo futuro. Artisti, organizzatori, studiosi e studenti che hanno voglia di incontrarsi, parlare, confrontarsi e magari contarsi.
Per quanto ci riguarda, abbiamo fatto del nostro meglio per soddisfare le aspettative suscitate dalla nostra convocazione: mettendo in campo presenze qualificate, memoria e progettualità, idee e pratiche.
La giornata è stata, a nostro giudizio, ricca e intensa, ricca di spunti che andranno apprfonditi: basta leggere le relazioni e i materiali pubblicati sul sito, e anche questo "impressionante fotoromanzo", redatto con pazienza da Danila Strati, Davide Pansera, Agnese Bonini e Silvia Vendraminetto (grazie grazie).
Un "fotoromanzo impressionante" anche perché nel corso di una giornata abbiamo potuto ascoltare moltissime persone che avevano moltissimo da dirci: se una giornata come quella del 13 febbraio ha un difettto, è che abbamo troppe cose da dirci, troppi temi su cui confrontarsi - e forse ogni volta ci manca il tempo per tirare le fila e magari far cristallizzare qualche proposta concreta (anche se davero non sappimo se questo sia davvero il compito delle Buone Pratiche o di ateatro: ma qualcosa forse inventeremo...).
In ogni caso, le Buone Pratiche hanno sedimentato, quest'anno e nel corso delle edizioni precedenti, una straordinaria mole di materiali: è un patrimonio che mettiamo volentieri a disposizione di tutti.
I veri protagonisti delle Buone Pratiche: il pubblico che ha affollato la platea e anche il palcoscenico dell'ITC-Teatro (foto di Lorenzo Cimmino).
Marco Macciantelli (sindaco di San Lazzaro)
Il sindaco esprime soddisfazione per il fatto che San Lazzaro e l’ITC-Teatro ospitino un’iniziativa caratterizzata da un dibattito così ampio (circa 60 interventi previsti), un’occasione di riflessione per fare il punto sulla situazione teatrale del paese. Come amministratore, vuole esprimere soddisfazione sull’esperienza dell’ITC-Teatro: una realtà ben radicata nel territorio, esperienza di teatro attivo e vivente. Anche i dati lo dimostrano: l’ITC-Teatro è al terzo posto come presenze fra i teatri sotto 250 posti, ed esprime una qualità molto alta dal punto di vista artistico e gestionale. Il massimo livello sul piano del possibile, in assenza di un intervento significativo dello Stato, e nell’impossibilità di contare seriamente sul ruolo del privato: semplicemente perché teatro è pubblica utilità. E’ fondamentale riconoscere che nel nostro paese l’attività teatrale è prevalentemente sostenuta dalle amministrazioni locali, anche per quanto riguarda gli stabili. Ma in particolare sul territorio, dove il tessuto teatrale è formato da gruppi e reti locali, con l'assenza di interventi significativi dello Stato. Le Buone Pratiche si attuano in un incrocio fra cultura, territorio ed enti locali
Il reparto fumatori: il gazebo fuori dall'ITC-Teatro (foto di Lorenzo Cimmino).
Maura Pozzani (Assessore alla Cultura, Provincia di Bologna)
In un saluto intenzionalmente breve, sottolinea come buone pratiche si attuino anche da parte degli amministratori. A Bologna e provincia se ne verificano alcune, esperienza a livello territorio, in cui la qualità è molto importante. Qualche esempio:
1. Tracce: la rassegna è arrivata alla 14° edizione. 16 spettacoli fra cui tanti premi nazionali. Giovani compagnie che si mettono in gioco.
2. Parole e Musica: un progetto che coinvolge luoghi difficili da raggiungere. Il teatro deve arrivare anche dove è difficile, per il tempo o per la lontananza.
3. Cartelloni unici: teatri che coordinano la programmazione, offrendo una circuitazione più ampia alle compagnie, e la possibilità di usufruire dello stesso spettacolo a un maggior numero di persone.
Le buone pratiche partono dall’infanzia. L’assessore ricorda anche Claudio Meldolesi e Leo De Berardinis e la loro qualità artistica e il loro lavoro sul territorio.
Bisogna evitare che i giovani scappino dal territorio, dare loro spazio. Collaborare con umiltà e con passione: così si riesce a proporre un teatro in cui le buone pratiche siano messe in pratica ogni giorno.
Andrea Paolucci (ITC-Teatro)
Il direttore dell’ ITC-Teatro ringrazia e esprime soddisfazione per l’ospitalità di Buone Prartiche.
Oliviero Ponte di Pino ricorda che nelle ultime edizioni Laura Mariani e Claudio Meldolesi hanno partecipato attivamente e con grande generosità alle Buone Pratiche, offrendo un contributo importante alla riflessione.
Claudio Meldolesi amava utilizzare una parola chiave, “riattivare” (una parola chiave), ovvero rimettere in funzione le energie: l’intervento attivo, le buone pratiche si sono rivelate costitutivo del lavoro di Meldolesi, congeniali alla pratica concreta del teatro da cui arrivava (diplomato alla Silvio d’Amico), e derivava l’ispirazione della sua attività di studioso.
Laura Mariani --> Meldolesi, un maestro
Laura Mariani legge il suo intervento. Claudio è stato un “maestro” per tutto il percorso artistico e professionale che ha svolto: portatore di un pensiero forte e originale - espresso attraverso la qualità letteraria della scrittura - ma maestro anche per l’affetto e il collegamento che ha mantenuto con i suoi maestri. Maestro per il suo modo di relazionarsi e stare al mondo. Considerava il teatro in termini unitari sul piano istituzionale, e, da uomo del 68, aveva contrastato il suo tempo.
Caffè per tutti!!! L'affollato foyer dell'ITC-Teatro (foto di Lorenzo Cimmino).
Oliviero Ponte di Pino e Mimma Gallina --> Identità, differenze, indipendenza
Oliviero ribadisce che la presenza di Meldolesi è stata un valore grandissimo. Si unisce al ricordo di Leo, punto di riferimento fondamentale. E menziona anche a Giancarlo Nanni, recentemente scomparso. Poco prima, Nanni aveva regalato ad ateatro un’idea molto bella e molto semplice: quella, anche a seguito delle polemiche sui 150 anni dall’unità d’Italia, di un grande lavoro collettivo della gente di teatro su questo tema, un impegno comune per un paese che non fa conti con passato. Una proposta che forse si può ancora cogliere: ci sono tante compagnie che su questi temi lavorano da tempo, forse è ancora possibile mettersi insieme e dare forza a questo progetto.
Oliviero e Mimma richiamano sinteticamente i temi dei documenti di convocazione e introduzione al tema delle Buone Pratiche. A cominciare dalle dichiarazioni offensive di Bondi confronti di chi si occupa di cultura.
Segnali più piccoli ma molto inquietanti si sono recentemente verificati a Milano: Giulio Cavalli vive da mesi sotto scorta; di recente fuori dal teatro in cui recitava sno stati trovati 23 proiettili; Daniele Timpano ha visto il suo Dux in scatola "molestato" da uno squadraccia fascista durante una replica al Teatro i.
Sono fenomeni che rivelano trasformazioni più profonde.
Tornando al tema di questa edizione delle Buone Pratiche, nel teatro italiano è in atto un processo di omologazione, le differenze sono andate via via scomparendo: è scomparsa perfino la definizione di teatro pubblico nel nuovo progetto di legge. Questo è giusto o sbagliato?
Nei momenti di crisi ci ha suggerito la frase di Meldolesi citata da Laura Mariani, dobbiamo ripensare alla nostra storia, alla nostra identità. Un altro spunto di riflessione è dato dall'evoluzione dello scenario politico italiano. Dal sistema proporzionale si è passati al maggioritario: le opposizioni sono più decise e cambia la posizione anche di chi fa teatro e cultura. Capita spesso per esempio che un cambio di amministrazione porti all’azzeramento di un progetto precedentemente approvato. Una volta non succedeva in modo così visibile: si pratica una discontinuità al ribasso, con la tendenza a privilegiare nel territorio situazioni non professionali. Il teatro vive quindi un eccesso di offerta, ma molto spesso poco qualificata dal punto di vista professionale. La giornata ha due obiettivi: affrontare il tema e fare il punto e lavorare sulle buone pratiche. E, forse, confrontarsi e lanciare forme concrete di collaborazione.
Maura Pozzati, Marco Macciantelli, Oliviero Ponte di Pino, Laura Mariani (foto di Lorenzo Cimmino).
Teatro pubblico, teatro commerciale, teatro indipendente
Il primo tavolo della giornata, è dedicato ad affrontare i temi nelle linee generali e fornire elementi conoscitivi aggiornati ai partecipanti.
Patrizia Ghedini --> Verso una nuova legge nazionale dello spettacolo: il confronto tra Stato e Regioni
Il tempo consente di trattare solo alcuni punti fondamentali. Secondo Patrizia Ghedini, funzionaria della Regione Emilia Romagna, è importante capire quali sono le ragioni delle Regioni rispetto al progetto di legge nazionale sul tappeto, in modo che le relazioni possano diventare più comprensibili ad una platea ampia.
Rispetto al disegno di legge, le Regioni riconoscono lo sforzo a livello parlamentare delle onorevoli Carlucci e De Biasi per arrivare ad un testo bipartisan. Non è la prima volta che succede. Anche nel 2004 si era arrivati a un testo condiviso, che cadde perché il Governo presentò un emendamento teso a ribadire la centralità nella gestione del FUS.
Questo nuovo testo è importante e alcuni punti sono condivisibili. Altri invece, poco chiari. Altri ancora, incostituzionali.
Bisogna partire da un riferimento chiaro: le Regioni hanno competenza legislativa e di regolamentazione del settore. I problemi e le perplessità che possono insorgere nel settore a questo proposito sono tanti. Le Regioni riconoscono la potestà del Parlamento di legiferare, non vogliono ruoli non loro, chiedono però un confronto che offra garanzia sul “dopo legge”. Solo scelte gestibili e condivisibili potranno non essere mai oggetto di ricorsi alla corte costituzionale.
La legge presenta poi problemi d’impianto. Ecco in breve le questioni più problematiche:
- la correttezza sul piano costituzionale;
- la chiarezza sulla collaborazione tra i diversi piani istituzionali:
(l’Onorevole Emilia De Biasi presente in sala e Patrizia Ghedini si confrontano con scambi di battute su interpretazioni diverse della legge)
- tutto passa attraverso una gestione centralistica;
- incoerenza con le norme sul federalismo fiscale.
Le Regioni hanno proposto gli “accordi di programma”, un’intesa in sede di “conferenza unificata” consentirà di stabilire indirizzi regionali condivisi e individuare elementi di intervento chiari, compatibili e fondati sulla certezza delle risorse (che vanno definite triennalmente, senza variazioni in corso d’opera). Quindi una sorta di confronto preventivo, per avere la garanzia che un percorso concordato possa essere seguito anche da parte delle regioni meno avanzate.
Ghedini sottolinea infine l’importanza degli Osservatòri dello spettacolo: si è attivato un progetto interregionale, in collaborazione con l’Osservatorio nazionale, il progetto è in atto e sta dando risultati positivi. Perché non tentare un’esperienza simile, anche per condividere risorse e strumenti in relazione alla nuova legge?
L'intervento di Patrizia Ghedini (foto di Lorenzo Cimmino).
Giulio Stumpo --> I consumi creativi
Partiamo dalla scoperta della radioattività: Enrico Fermi mette un rullino fotografico in un cassetto in cui ci sono ggetti radioattivi, il rullino non può essere sviluppato. Il salto di tipo creativo di Fermi è capire che c’è un problema nel cassetto, non nella macchina fotografica. E’ necessario un salto creativo nello spettacolo per sviluppare una coscienza collettiva e una crescita creativa della società. Il Teatro deve contribuire a questo obiettivo.
Una società creativa richiede meno vincoli alla circolazione d’idee: è impensabile che una società competitiva non sviluppi collaborazione e dialogo all’interno. Ma i primi incapaci di fare rete siamo proprio noi operatori: è davvero difficile creare reti e sinergie “nello stesso palazzo”, è un tema su cui dobbiamo riflettere.
Fra le città creative, un esempio è proprio Bologna. Una città che si chiude al resto del mondo non può essere considerata creativa. La Francia e gli Stati Uniti sono società creative perché si sono aperti all’esterno, a condivisione, integrazione, accoglienza. Finchè non si cambia, la riforma dello spettacolo può non servire a nulla.
Qualche dato per riflettere sulla dimensione del teatro (pubblico o privato), nel 2010: 140.000 lavoratori dello spettacolo secondo l’Enpals, oltre al lavoro sommerso. Il reddito medio è di 7.000 euro annui, le giornate lavorate circa 70 all’anno. La maggior parte di chi lavora nel settore spettacolo è al di sotto della soglia di povertà. Lo Stato investe 84 milioni nella prosa (pochissimo), i consumi culturali sono diminuiti del 7% nello scorso anno. Il fatturato è diminuito del 6%.
Quale può essere il tema, quindi?
- è necessaria una più forte e seria programmazione territoriale;
- la cultura costa, ma l’incultura costa molto di più.
La parola a Giulio Stumpo: da sinistra Giovanna Marinelli, Andrea Rebaglio e Roberto Calari (foto di Lorenzo Cimmino).
Roberto Calari --> Ruolo degli sponsor e movimento cooperativo
Roberto Calari, dirigente del movimento cooperativo, sottolinea la differenza fra la sponsorizzazione tradizionale (concessa a fronte di un ritorno di immagine) e il rapporto di partenariato, che si basa sulla consapevolezza e l’impegno sociale e territoriale delle imprese, coinvolte a sostenere un progetto culturale di cui è possibile valutare la ricaduta. E’ necessario stabilire un linguaggio comune fra imprese e operatori culturali in questa direzione. Gli operatori mancano spesso di chiarezza nel definire e illustrare la propria missione. Uno strumento che potrebbe essere molto utile in questa direzione è il “bilancio sociale”.
Andrea Rebaglio --> Fondazioni, creatività, innovazione
Andrea Rebaglio, del settore arte e cultura di Fondazione Cariplo, ricorda origine e funzione delle Fondazioni di origine bancaria, e come siano diventate progressivamente attori sempre più rilevanti nell’economia delle arti e della cultura (con un incremento medio degli investimenti, pari al 10% annuo). Né sponsor - non richiedendo se non marginalmente ritorni di immagine - né partner – nel momento in cui recepiscono piuttosto che concordare progetti - ma muovendosi in bilico fra i due ruoli. Le modalità di intervento delle Fondazioni (che non sono diffuse uniformemente in tutta Italia), non sono sempre equiparabili e nell’ultimo anno alcune hanno risentito pesantemente della crisi riducendo gli investimenti o intaccando le riserve. La loro funzione si pone però sempre come sussidiaria, e non sostitutiva rispetto all’intervento dell’ente locale. Fondazione Cariplo, ha orientato questo ruolo al sostengo di progetti e organizzazioni indipendenti e innovativi, limitando le erogazioni favore di realtà istituzionali a una percentuale marginale dei propri interventi. Fra questi spicca, anche per il carattere sperimentale, il progetto ETRE -esperienze teatrali di residenza - che ha portato a selezionare a sostenere il rapporto col territorio lombardo di un gruppo di compagnie: su queste esperienze, nell’ottica di un confronto internazionale, avrà luogo un convegno il 12 e 13 marzo.
Giovanna Marinelli --> Teatri Stabili Pubblici. Quale modello è ancora possibile
È arrivato il momento di riflettere e fermarci un attimo.
Per Giovanna Marinelli, direttore del Teatro di Roma, il teatro è ancora sentito come luogo di libertà e non omologazione. Viviamo in modo troppo rapido, mancano momenti di confronto e studio, e mancano i momenti per costruire una propria identità. Si perde il senso del rapporto tra passato, presente e futuro. Il teatro vive di libera espressione, tende a presidiare zone di dissenso, perde la sua autenticità se si omologa, mentre è fondamentale per costruire memoria e una società basata sulle differenze. Il teatro è anche un luogo fondamentale per l’incontro tra società e classe dirigente. All’origine, il teatro pubblico sentiva che era suo dovere partecipare ai processi di costruzione della società. L’autonomia del teatro pubblico era una conseguenza di un’identità forte e di un progetto culturale, ma anche organizzativo ed economico che portava alla difesa degli artisti e della creatività. Tutti gli scostamenti sono stati accettabili, finchè non hanno messo in forse il progetto originario.
Il teatro è arte del presente e proprio per questo è elemento intimo della nostra memoria. Proprio per questo iè necessario, ed è necessario anche un teatro pubblico. Ma non è più costì per la classe politica e non solo. Probabilmente bisogna ripartire dal pubblico per ricostruire un’identità. A Roma ultimamente i numeri del teatro sono sorprendenti. Quindi da qualche parte si può provare a ripartire. Contesto chi nega la funzione originaria del teatro pubblico: di un teatro che si relaziona con il territorio
Oggi è totale l’indifferenza del potere nei confronti del teatro, e la capacità di ascolto è minima. Sempre più numerose le ingerenze. Il teatro deve quindi far riferimento in primo luogo al proprio pubblico. Deve lavorare in profondità e in silenzio per creare occasioni, iniziative che creino dialogo tra pubblico e teatro, che alimentino un circolo virtuoso tra teatro e cittadini.
Il futuro si gioca in un rapporto corretto tra teatro e politica. E’ sugli obiettivi che la politica si deve muovere. Va ricostruito un legame tra artisti ed istituzioni, per evitare l’inaridimento delle istituzioni.
(pochi giorni dopo aver pronunciato questo appassionato e lucido intervento, Giovanna Marinelli si è dimessa "per motivi personali" dalla direzione del Teatro di Roma, n.d.r.)
Velia Papa --> Il nuovo teatro: l’anomalia italiana e la dimensione europea
Tutti i gruppi che si affacciano all’estero, il più delle volte in coproduzione, vivono un senso di frustrazione, perché percepiscono un netto scarto, un gap rispetto all’Italia.
Se ne parla da vent'anni: da noi non ci sono confini tra pubblico e privato, siamo tutti sul mercato e in concorrenza sulle stesse cose e questo è un elemento di fragilità. La crisi economica ha portato più creatività? Piuttosto rende più evidenti le debolezze del nostro sistema. All’estero ci sono interlocutori affidabili, che dicono chiaramente se ci sono i soldi o meno, te li garantiscono per un periodo di tempo ben preciso, i bandi sono trasparenti. Invece in Italia il sistema è allo stesso tempo precario e statico, senza mobilità. Dopo aver fatto un’esperienza come amministratore pubblico, ho imparato che il settore pubblico deve chiarire i propri obiettivi ma anche che l’operatore si deve porre diversamente rispetto a esso e agli amministratori. L’indipendenza non è uno status, ma un modo di rapportarsi con l’interlocutore pubblico, superando gli ambiti limitati che il teatro tende a darsi.
Per uscire da questi limiti si può fare appello alla forza del teatro e dell’immaginazione, partecipare ai processi di trasformazione dei territori, cercare uno spazio all’interno dei processi di rinnovamento e le dinamiche sociali. Durante gli ultimi due ultimi viaggi, ho fatto alcune osservazioni significative: a Nantes, nella piantina turistica della città, è riportata un’icona: quella della compagnia Royale De Luxe, nata come gruppo di teatro di strada. La città in trasformazione associa la sua immagine non ai musei o all’opera ma a una compagnia di teatro di strada.
A Terragona il teatro di strada si fa “industria culturale”, ha finanziamenti adeguati, si progetta ferfino la città in funzione di un festival che dura quattro giorni l’anno, i soggetti coinvolto compartecipano a inventare un modo nuovo di vivere un territorio.
E’ evidente la marginalità del teatro italiano rispetto a quello che succede a livello internazionale. È sconvolgente come in Italia - a livello delle nuove normative - si possa pensare di dividere l’attività in internazionale, nazionale territoriale.
Alessandro Bergonzoni con Velia Papa, Oliviero Ponte di Pino, Giovanna Marinelli (foto di Lorenzo Cimmino).
L'intervento di Alessandro Bergonzoni sul canale youtube di www.ateato.it.
L’indipendenza è ancora una virtù?
Gerardo Guccini --> La rete, lo stagno, il mondo: tre declinazioni simboliche sull’identità dei gruppi
L’identità a cui ci si riferisce è costituita dalla rete dell’insieme di relazioni che connettono la realtà culturale in un insieme di realtà culturali omogenee in un certo periodo. Sono in aumento le organizzazioni teatrali che trovano un senso di identità nel proprio settore di appartenenza: "Dove sto?", "Quali maestri seguo?" "Quali modalità di rapporto ho con la realtà?"
Eugenio Barba usava il termine: “ghetto”. Nel 1976, anno in cui scriveva, le realtà di gruppo avvertivano l’esigenza di un’apertura all’extrateatrale. Eppure Barba difende il concetto di ghetto come principio identitario, che non definisce “chi siamo”, ma “dove siamo”. Dentro o fuori. Ghetto come spazio distinto dal contesto. Il principio identitario rimanda all’immagine dello specchio, una realtà autoreferenziale che però si autodefinisce. Il mito di Narciso è il mito dell’io, ma anche il mito del doppio e il teatro è il luogo del doppio. A questo proposito ci sono due teorie e interpretazioni del mito: una rinascimentale in cui Narciso rifiuta l’amore per essere completamente sé; e una junghiana che vede in Narciso il luogo dell’archetipo. Narciso si riflette e vede l’immobilità. A partire dagli anni 80 il rapporto con il mondo extra teatrale cambia, e comincia l’inclusione di altri mondi all’interno del teatro. Per esempio i carcerati, o extracomunitari che vengono inclusi in un lavoro teatrale di base identitario, volto all’individuazione di nuovi linguaggi.
Gerardo Guccini, Mimmo Sorrentino, Mimma Gallina, Elio De Capitani, Oliviero Ponte di Pino, Pietro Floridia (foto di Lorenzo Cimmino).
Elio De Capitani --> 13566 giorni di vita-nel-teatro
Finalmente, dopo 13566 giorni di vita della compagnia, ecco l’apertura di un nuovo teatro, L’Elfo-Puccini. Tre sale: Fassbinder, Shakespeare, Bausch.
Shakespeare perché porta con se il “moderno”. Anche in un teatro che fa ricerca sul contemporaneo non bisogna dimenticare l’epoca moderna, perché il contemporaneo non ha superato il moderno. Le tensioni e i temi sono comuni ad un arco di tempo molto più grande. Ciò che è stato non deve diventare passato in maniera troppo rapida. E’ sorprendente che si possa pensare – e si riferisce a un articolo recente di Renato Palazzi - che se uno spettacolo arriva a Milano sei mesi dopo il debutto, inserito magari nella stagione teatrale successiva, è già vecchio.
Ecco quindi perché Pina Bausch. Ovvero l’importanza del repertorio, che diventa il patrimonio che incarniamo, il patrimonio che è dentro l’attore, il lavoro che fa l’attore su se stesso non passa velocemente, ma si sedimenta nella sua memoria.
Infine Fassbinder artista e scrittore di cinema e teatro, che come maestro non ci ha lasciato solo prassi, ma un lascito scritto.
Tre nomi di altrettanti grandi artisti per raccontare il progetto di un gruppo.
Anche De Capitani vuole ricordare Claudio Meldolesi e con lui un altro grande maestro Brecht: il saggio Brecht regista di Meldolesi è uno di quei libri che possono cambiare la vita.
Stefano Pasquini --> Cultura e agricoltura
L’agricoltura e il teatro sono entrambe attività antieconomiche con unl’unica differenza: nessuno vuole fare l’agricoltore mentre il teatro vogliono farlo tutti.
Attraverso il finanziamento per l'attività agricola, una legge che finanziava l’attività di agriturismo, le Ariette hanno finanziato anche la propria attività teatrale. Nel 2002 l’agriturismo è stato chiuso.
La passione è una cattiva pratica. Dopo aver dato molto ad un territorio, dopo dodici anni il comune di Castello di Serravalle ci ha tagliato il finanziamento. Erano ben 5000 euro...
Ma anche in tempi di crisi bisogna continuare a radicare il proprio lavoro nel territorio, trasformare il lavoro teatrale insieme ai cambiamenti della società e cercare nuove prospettive. L’agricoltura ci dà uno spunto: i contributi sono piccoli ma vi possono accedere tutti quelli che hanno i requisiti ovviamente in proporzione alla propria attività e questo dà la certezza del diritto e sottrae la valutazione del finanziamento alla discrezionalità. Ma nel teatro non è così ed è per questo che le Ariette non hanno mai fatto richiesta di contributo al ministero.
Sarebbe ora di fare un po’ di sindacalismo. I francesi hanno fatto saltare Avignone, in Italia non ce ne sarebbe il coraggio.
Pietro Floridia --> Lo spazio dell'indipendenza: tra le radici e l'altrove
Quando pensiamo qualcosa, crediamo di essere separati dall’oggetto della nostra analisi o critica, ma in realtà siamo dentro lo stesso gioco.
L’indipendenza non è legata solo alla propria ricerca, ma anche all’influenza del sistema. Dimenticarlo, sarebbe come pensare di poter scegliere quale aria respirare. Ulisse per interagire con il contesto e ascoltare il canto delle sirene senza rimanerne schiavo si fa legare all’albero della nave e dice ai suoi uomini di disattendere il suo ordine di slegarlo. Per interagire con il contesto senza rimanerne schiavi non basta pensare per sé, imbastire in maniera artigianale una serie di contrappesi che tirino in senso apposto al nostro per mantenerci in equilibrio. Paradossalmente mettere in discussione la propria identità come qualcosa di fisso.
L’indipendenza non è sciogliersi dai legami, ma scegliere da cosa dipendere, di quale sistema diventare parte. Il Teatro dell’Argine ha scelto di dipendere dal territorio, dalle persone normali che lo abitano, dalla comunità, ma non basta che le persone abitino uno stesso territorio per fare una comunità. Di questi tempi è come se la terra fosse friabile e mancasse l’acqua per amalgamare tutto. Ho sempre visto il pubblico come tante solitudini fino a quando non ho fatto la mia esperienza in Palestina in cui la comunità condivide, parla, tira fuori quello che si pensa.
Stefano Pasquini parla, lo ascoltano da sinistra Mimmo Sorrentino, Mimma Gallina, Elio De Capitani, Oliviero Ponte di Pino, Petro Floridia, Luigi Dadina (foto di Lorenzo Cimmino).
Luigi Dadina --> CISIM una casa del popolo a Lido Adriano
(intervene con Marco Cavalcoli di Fanny e Alexander)
Per fare teatro è indispensabile sapere di essere stranieri, per stare in gruppo bisogna sperimentare la solitudine. Ravenna è stata un po’ la capitale del teatro italiano contemporaneo giovane alla fine degli anni Settanta. Dopo quindi anni di lavoro, il Comune di Ravenna ha avuto l’intuizione di dare in gestione i teatri della città al Teatro delle Albe. Il 21/23 maggio ci sarà un piccolo festival e la città si popolerà di trenta gruppi di Ravenna, alcuni giovanissimi, di cui almeno dieci professionisti…Bello, bellissimo!
Ma c’è una perplessità: qual è il futuro per questi gruppi? Non potranno avere accesso ai finanziamenti. Un’ipotesi è quella di aprire una sede teatrale dove far convivere più compagnie e fare un’unica associazione per condividere l’organizzazione e mantenere ciascuno la propria identità artistica.
Un progetto complementare: Lido Adriano è un posto popolato da molti stranieri e gli italiani presenti sono a loro volto immigrati dalla Sicilia, da Napoli... Essere stranieri per essere curiosi per la vita degli altri. È una vocazione delle Albe lavorare con gli stranieri.
Massimiliano Civica --> La poetica dell'economia: indipendenza e mercato nelle loro interrelazioni
Direttore del Teatro della Tosse, stabile privato di interesse pubblico, Civica porta la testimonianza di due sistemi differenti.
Come regista di una compagnia di teatro di ricerca ho prodotto uno spettacolo con un solo attore, che si proponeva per cachet che andavano da un minimo di 400 euro fino a 1500 (ma al massimo ne ha ottenuti 1200). Questa politica era vincente riferendosi ai soggetti del teatro di ricerca quindi al proprio bacino di riferimento. Il costo dello spettacolo era conveniente ed è riuscito a girare molto. La presidentessa di un circuito teatrale estivo (il testo era un classico) ha visto lo spettacolo e voleva acquistare trenta repliche. Sono seguiti i contatti con i responsabili tecnico-organizzativi: lo spettacolo ha esigenze vicine a zero per montaggio, smontaggio e scheda tecnica.... Le trenta repliche sono state subito cancellate! Quello spettacolo non faceva lavorare tecnici, service, ecctera. Non era funzionale a quel sistema.
Quando sono stato nominato direttore del Teatro della Tosse, sono partito con l’atteggiamento ingenuo di chi vuole fare una politica culturale rigorosa. Parlando con molta franchezza al cda sostengo che i frutti del lavoro, e quindi del mio progetto, dovevano avere il tempo di maturare e di far cambiare il territorio... Diciamo dieci anni! Ma poi paradossalmente ho continuato a firmare contratti di tre mesi. Come si può fare programmazione se si ha un respiro settimanale?
La prima stagione programmata era decisamente improntata sul teatro contemporaneo di ricerca (Danio Manfredini, Saverio La Ruina, i gruppi giovani). Insomma, una programmazione da festival. A marzo non sono stati dati gli stipendi. Ho fatto qualche conto e osservato che sarebbero bastati 45 spettatori in più a sera per evitare quella situazione.
Per rimanere indipendenti bisogna rimanere aperti. Se avessi fatto scelte meno integraliste nessuno avrebbe dovuto rinunciare allo stipendio. Come neo direttore pensavo di dover mettere da parte per quel triennio la mia attività di regista, per non essere uno di quei direttori che si producono i propri spettacoli, ma ho subito solo critiche per questa scelta.
Un altro semplice conteggio: scegliendo una compagnia giovane che costa 4000 euro ne incassavamo 2000, mentre uno spettacolo con Peter Brook, che costava 9000 euro, avevo un disavanzo di soli 1000 euro, perché la sala era piena.
Non è semplice riuscire a trovare una propria legittimazione anche di fronte al grande un pubblico. E d’altronde le compagnie di ricerca non conoscono il pubblico delle signore impellicciate (che incredibilmente si rigenera). La domanda che mi pongo è: sono in grado di comunicare a tutti? No: mi sto rivolgendo solo a un 20% del pubblico. E in ogni caso non riesce a cambiare il sistema. L’unica soluzione è lavorare per un teatro d’arte popolare, mantenendo una propria dignità ma parlando a tutti.
Ho vinto l’Ubu con Il mercante di Venezia non perché questo spettacolo fosse più bello dei precedenti, ma perché questo premio si inserisce nella tradizione - pur essendo di ricerca - e un titolo come quello ermetteva di conciliare i due sistemi.
Mimmo Sorrentino, Mimma Gallina, Elio De Capitani, Oliviero Ponte di Pino, (foto di Lorenzo Cimmino).
Mimmo Sorrentino --> Dalla Buona Pratica alla Buona Teoria? E ritorno?
L’hanno scorso ho presentato alle Buone Pratiche il mio metodo di “teatro partecipato”. Da allora la mia esperienza è maturata, ma soprattutto si è sviluppata la necessità di analizzarla ed è nato un libro, con la postfazione di Oliviero Ponte di Pino. La riflessione, il confronto, le domande che il libro ha innescato, il libro stesso, hanno generato legittimazione e ampliato la rete dei soggetti interessati al mio teatro.
On. Emilia De Biasi --> Un commento alla mattinata
Forse di una legge per il teatro in effetti non c’è bisogno: se fosse solo una questione di finanziamenti, basterebbero i regolamenti ministeriali, anche se in un sistema discrezionale.
Ma l’art. 1 del nuovo disegno di legge dice che lo spettacolo dal vivo è una parte essenziale del patrimonio italiano ed europeo. È questo lo scopo principale della legge: un passo in avanti, uscire fuori dallo steccato. E’scandaloso che lo stato destini alla cultura lo 0,3 del PIL in un paese che secondo l’Unesco possiede il 52% del patrimonio mondiale. L’on. De Biase – cofirmataria del disegno di legge “bipartisan" - precisa di non condividere la linea del governo, e crede che il parlamento debba riappropriarsi della sua potestà legislativa (mentre attualmente si va avanti solo con decreti legislativi emanati dal governo). Il disegno di legge è il risultato di una mediazione. Il sistema dei finanziamenti FUS non funziona, ma cosa si può fare?
Il 60% del FUS è risucchiato dalle Fondazioni liriche sinfoniche dove davvero dovrebbe esserci un maggiore rapporto tra pubblico e privato. Bisogna favorire le defiscalizzazioni senza le quali non è possibile incrementare l’apporto dei privati.
Rimpinguare il FUS. Individuare altre risorse.
E’ necessario introdurre una distinzione precisa tra amatorialità e professionismo, con fondamentali ricadute fiscali e assistenziali.
L'on. De Biase recepisce il suggerimento di introdurre i “bilanci di responsabilità sociale” (proposta Calari) da parte dei teatri. Le legislazioni devono essere leggere e si deve riconoscere una funzione pubblica anche al privato. La cultura deve essere una zona franca. E’ da respingere il punto di vista per cui ci sono due o tre eccellenze, poi tutti uguali e pezzenti. Bisogna fare in modo che i finanziamenti si moltiplichino e creino uno scorrimento dei soggetti, contribuiscano a togliere la casta. Non va confusa l’identità, l’autonomia artistica, con la legge, che si limita a emanare dei parametri.
L'intervento di Emilia De Biasi: ascoltano attenti Elio De Capitani, Mimma Gallina, Oliviero Ponte di Pino (foto di Lorenzo Cimmino).
Il teatro come funzione pubblica: produzione, programmazione, distribuzione
Mimma Gallina introduce la sessione ricordando le posizioni sul progetto di legge già espresse su ateatro(L'ultima nuova legge di Mimma Gallina e Oliviero Ponte di Pino), e in particolare la convinzione della necessità di un teatro pubblico – e di istituzioni pubbliche che funzionino - anche se molti, teatri pubblici di certo funzionano male. Gli interventi affrontano la funzione pubblica senza separazione fra produzione, distribuzione e gestione delle sale nella convinzione che questi tre ambiti vadano ricondotti alla stessa logica; si alternano quindi direttori di teatri stabili pubblici e di circuiti e si illustrano esperienze di particolare interesse collegate alla gestione dell’attività teatrale nelle città e alle politiche delle amministrazioni pubbliche.
Raimondo Arcolai --> Un teatro stabile pubblico nella regione (Marche) dei 100 teatri
Il Teatro Stabile delle Marche ha dato vita a un programma artistico dinamico, ragionando su base triennale con Carlo Cecchi. La scelta di un artista di riferimento (che ha formato una generazione di attori e registi), ha portato buoni risultati. Nel corso degli anni si è inoltre messa a punto una modalità di lavoro con il Circuito, basata sul buon senso, evitando meccanismi di monopolio. C’è stata collaborazione su alcuni progetti, ma nella massima autonomia. Inoltre riteniamo che la nostra funzione sia anche quella di cercare artisti giovani e offrire, o sostenerli o suggerire opportunità di lavoro, come è stato per il concorso Nuove Sensibilità (ETI) e altri. I teatri stabili devono tornare alla funzione principale, quella di produrre spettacoli. C’è una dinamica invasiva della politica insopportabile: in particolare la politica decide i direttori senza nessun riguardo al merito e alle competenze.
Gilberto Santini --> Diventare ciò che siamo: organismi di formazione del pubblico
Prima consulente, attualmente direttore del circuito Amat (Associazione Marchigiana Attività Teatrali), conferma la concordia di obiettivi con il teatro stabile della regione, un accordo basato sulla chiarezza e la distinzione delle funzioni: c’è soggetto per la produzione, e uno per la formazione e distribuzione. Avevamo inventato la “produzione leggera” (era stata una delle “buone pratiche” della prima edizione), oggi il Ministero ha escluso qualunque forma di produzione, affossando di fatto quelle esperienze (anche se raccomanda la commissione di testi originali!).
Si sofferma sul compito di formazione del pubblico (associato a quello della distribuzione). La nostra organizzazione è fondata da Regione, Province e comuni (ben 83): un organismo così legato ai luoghi non può limitarsi alla distribuzione, deve ragionare sui meccanismi di conoscenza, rendere meno occasionale il rapporto tra amministrazioni, operatori e artisti, e spesso non è semplice il confronto con gli assessori alla cultura.
E’ compito della distribuzione trovare modi intelligenti perché un lavoro trovi le sue strade.
Quello che si può sperare è di avere dei recinti, delle zone franche in cui costruire progetti di una qualche durata. Lo spazio per la ricerca va annullandosi. La formazione del pubblico dovrebbe andare in due direzioni: da un lato rivolgersi agli amministratori, un vero e proprio corso di formazione per gli amministratori pubblici (e chiedo ai critici di non inventarsi sempre una nuova generazione, quando ancora non si è finito di spiegare il lavoro delle precedenti, e aumentando il rischio di scomparsa delle compagnie), dall’altro essere finalizzata ad un apporto non occasionale con lo spettatore (ci proviamo con il progetto “Scuola di platea”, rivolto alle scuole, con giovani esperti che si stanno formando e incontrano anche i Cral e i centri anziani.
Da sinistra, Oliviero Ponte di Pino, Mauro Boarelli, Raimondo Arcolai, Mimma Gallina, Ilaria Fabbri, Maria Grazia Panigada, Gilberto Santini e, in prima fila, Fabio Bruschi (foto di Lorenzo Cimmino).
Ilaria Fabbri --> Il sistema quale orizzonte dell'intervento pubblico della Regione Toscana
La Regione Toscana ha appena approvato il testo unico per la cultura. Per delineare le linee di un nuovo assetto si è utilizzata l’opportunità offerta dal Patto Stato-Regioni: il progetto finanziato, era infatti dedicato all’analisi e messa a sistema delle diverse organizzazioni sul territorio.
Il metodo privilegiato è stato quello della concertazione: la Regione ha individuando nei territori soggetti attuativi si cui si potessero far convergere i finanziamenti (il processo è andato avanti anche nel 2009, in assenza di contributi statali, grazie all’aiuto della Fondazione Monte dei Paschi di Siena). In particolar si sono cercati interlocutori territoriali che da sempre si occupano dei giovani per configurare possibili sistemi “alternativi”.
La scelta è stata quella di valorizzare le “residenze”: una modalità operativa che consente di riavvicinare i territori e il pubblico (forme di stabilità leggera come cerniere col pubblico). La legge rafforza inoltre una linea distributiva “intelligente”: si cerca di costruire un modello distributivo che limiti le politiche localistiche e favorisca forme di progettazione comune.
Anche il progetto “lirica per l'infanzia” va in questa direzione. La principale caratteristica innovativa della legge riguarda quindi: la centralità dell’intervento pubblico, per il pubblico, l’aggregazione, la triennalità dei finanziamenti.
Gilberto Santini, Mimma Gallina, Ilaria Fabbri, Maria Grazia Panigada, Raimondo Arcolai, Patrizia Coletta (foto di Lorenzo Cimmino).
Patrizia Coletta --> Distribuire o diffondere? Clientele o clienti?
Vorrei cambiare il punto di vista: da pubblico inteso come “servizio pubblico”, a pubblico come “persone”. Il nostro circuito (quello piemontese), è rinato dopo un periodo critico: commissionamento, azzeramento del contributo ministeriale.
Ma l’ultimo bilancio consuntivo (2009) presenta numeri inequivocabili per definire il concetto di “cliente”: le risorse derivano per il 41% dalla Regione Piemonte, solo per l’1,55% dal Ministero (quasi solo uno sponsor da citare sui materiali promozionali), per il 37% dai comuni e per il 21% dal pubblico. Nel 2007 il pubblico contava per il 13%.
Abbiamo un vantaggio: non facciamo un teatro “dell’obbligo”, dobbiamo convincere i finanziatori a continuare a finanziarci e siamo costretti a fare spettacoli che parlino a quelle comunità. Il pubblico non è stupido, e possiamo contare su un ulteriore vantaggio: la città di Torino e il grande fermento artistico che la caratterizza. Abbiamo un pubblico che ormai si muove, i circuiti non fanno “decentramento”, cercano di interessare il pubblico e far sì che il pubblico torni. Stiamo anche cercando di uscire dai teatri, per coinvolgere i giovani, utilizzando spazi/situazioni giovani, che si trovano “fuori” dai teatri. Si sono inoltre aperti spazi di dialogo con tutti quelli che ci sembra stiano lavorando bene in regione, tra cui il festival delle colline.
Mauro Boarelli --> Pubblico, privato e altro ancora
Funzionario del Comune di San Lazzaro, racconta l’esperienza che ha portato all’attuale forma e linea di gestione del teatro. Tutto è cominciato a tredici anni fa: si trattava di inventare qualcosa che non esisteva.
Il primo punto è stato: un nuovo teatro per tutti non ospiterà di tutto. Non sarà un contenitore generico, dove appiattire offerta, o per un’offerta commerciale. Si tratta di un servizio pubblico (non è scontato scriverlo né perseguirlo).
Si sono definiti poi altri punti fermi: che fosse un teatro di produzione, si doveva legare il territorio a una scelta produttiva. Che si occupasse della formazione del pubblico in modo costante: il pubblico frequenta questo posto in modo critico. Che perseguisse un rapporto equilibrato tra la fidelizzazione e l’apporto nuovi spettatori e sviluppasse la capacità di attrarre con progetti specifici segmenti di pubblico diversi.
E’ un modello in evoluzione, che può rafforzare il ruolo anche progettuale della pubblica amministrazione (il comune gestisce direttamente alcuni progetti) e mantenere l’indipendenza delle realtà teatrali.
Maria Grazia Panigada ---> Alla ricerca di un’armonia: le radici di una scelta
La relazione parte dall’esperienza di responsabile della programmazione del teatro Donizzetti di Bergamo e di direzione artistica della rassegna Altri percorsi.
Uno dei doveri principali di un teatro pubblico è l’inclusione. Il pubblico deve diventare parte delle scelte, della vita del teatro. Fare programmazione qualificata, girare e vedere tanto teatro non basta: si deve riconquistare un ruolo per il teatro nella polis, crei identità. E’ necessario che il teatro detti le politiche culturali della città. Un vantaggio delle edizioni Altri percorsi negli ultimi anni è stato quello di darsi un tema, diverso per ciascuna stagione. I progetti partiti intorno al tema dello straniero per esempio hanno stimolato 31 progetti laboratoriali (sempre italiani e stranieri insieme, non laboratori per soli stranieri). Sono stati coinvolti - chiamati a concorrere a questo indirizzo - musei, assessorati non solo alla cultura, compagnie, associazioni... Tutti insieme a lavorare su unico tema, creando sinergie e promuovendo cultura diffusa. Non quindi nella direzione dei grandi eventi finalizzati ad una visibilità immediata (che arriva lo stesso), ma ricerca di senso.
Anche le compagnie sono state quindi stimolate a sperimentare linee di lavoro che, da sole, non avrebbero svolto. Si è quindi inteso il teatro come luogo comune, un progetto globale. Creare teatro diffuso è stato anche l’obiettivo del Carnevale: in questo caso i gruppi venivano provocati da un artista, stimolati a creare un progetto di piazza. Il risultato è stato anche un aumento degli abbonati! E di certo una maggiore vicinanza fra teatro e territorio. E’ significativo che molti di questi progetti abbiano voluto andare avanti autonomamente.
Il pomodoro, il peperone, la mela tengono il tempo mentre parla Maria Grazia Panigada (foto di Oliviero Ponte di Pino).
Interventi
Maria Merelli
(Presidente del Teatro Stabile Pubblico ERT)
A volte si attribuisce al Presidente di un ente come Emilia Romagna Teatro un ruolo politico/burocratico. Penso invece che il Presidente debba avere un’idea del suo teatro e dell’ orizzonte verso cui si muove.
Concordo sull’importanza del pubblico come elemento fondativo del sistema teatrale del nostro paese. Penso che la missione dei teatri pubblici vada ridefinita per rispondere alla domanda di cultura delle cittadinanza e al bisogno di ridefinire il ruolo del teatro pubblico.
Nel corso di questi anni si è andata definendo per ERT un’identità progettuale, credo sia una necessità di tutti i teatri pubblici individuare la propria identità: un progetto culturale triennale trasparente che possa essere comunicato agli artisti, al pubblico e ai politici.
Certo, i consiglieri sono tutti di nomina politica, ma l’ autonomia è fondamentale e l’abbiamo sicuramente perseguira in un territorio come quello dell’Emilia Romagna. Fa parte dei miei compiti, come Teatro Stabile pubblico, quello di comunicare, convincere e educare i politici, ma è così che ci si radica nel territorio, non me ne lamento (nonostante la fatica di tessere relazioni con giunte che cambiano...), spesso siamo sottoposti a qualche pressione/suggerimento sulla programmazione (personaggi famosi..) e non me ne stupisco.
Esiste un protagonismo degli assessori che mira a creare - attraverso attività dirette - un tasso di consenso il più alto possibile. Ci siamo ritrovati a contrastare questa logica in questi anni, anche in considerazione delle risorse limitate.
Il cda di un teatro stabile deve avere un ruolo molto corretto di netta distinzione delle funzioni rispetto alla direzione artistica e organizzativa di un teatro. Penso che l’invasione di campo renda la gestione e il progetto culturale di un teatro confusi, instabili e incapaci di comunicare con le istituzioni e pubblico di riferimento. Non sono tuttavia per abolire i cda –come si è da qualche arte proposto- perché penso che svolgano un ruolo cerniera fra le istituzioni e, verso l’interno, con le proposte artistiche che il direttore con il suo staff porta avanti e che devono essere trasmesse e capite anche all’esterno.
Paolo Cacchioli
(Direttore Teatro Stabile Privato Nuova Scena / Arena del Sole)
I ritardi nella legge sono tendenzialmente colpa alle istituzioni e alla politica. Ma anche dei teatranti che, affidandosi troppo alle risorse pubbliche, hanno alimentato un sistema vizioso. Se non si riesca ad approvare un progetto davvero credibile, indipendentemente dal valore dei politici, sono meglio i decreti. Non è utile affermare in modo demagogico il ruolo del teatro, che va affermato invece come progetto, come necessità di costruire cultura su territorio. Bisogna richiamare le istituzioni a fare una scelta seria tra politica del consenso (eventi) e una politica di costruzione di cultura, in particolare rivolta ai giovani.
Maria Merelli, Mimma Gallina e Paolo Cacchioli (foto di Oliviero Ponte di Pino).
Verso un teatro geneticamente modificato: festival, centri, residenze, formazione
Paolo Ruffini --> I.R.A. indipendenza rispondenza arte
Parte dalla sua esperienza professionale, assieme di operatore e critico, e del punto di particolare vista che ne deriva. Il pubblico è importante. Ma per le generazioni giovani anche l’attenzione critica ed istituzionale è fondamentale. Ma è importante sviluppare una libertà di analisi critica indipendente dal sostegno pubblico e confrontarsi con diversi tipi di pubblico (nello specifico per Roma). Qualcosa sta cambiando in questi ultimi due anni, però è importante chiedersi come lavorare per e con il pubblico. Che cosa significa costruire il proprio esercizio artistico in funzione del pubblico? un pericolare ruolo possono svolgere organizzazioni che svolgono una funzionano di “intermediazione” e che creano un collegamento tra creazione artistica e pubblico.
Vito Minoia --> La forza generativa del teatro di interazione sociale
L’opportunità di pubblicare, a partire dal 2003, con sostegno di ETI, ha consentito di stimolare la riflessione e documentare il fenomeno emergente. L’area del teatro di interazione sociale, non è da considerare un territorio di serie B, vanno indagate e comprese le ragioni di esperienze che si aprono al mondo. Le contaminazioni di oggi corrispondo al II atto di un’antropologia teatrale (Giacchè), che “comprende” il diverso. Dobbiamo riflettere sulla concezione del teatro educativo e sociale, e del teatro tutto, che non può essere avulso dal carattere solidaristico e dalla persona come essere sociale (non votata al rendimento). Non considerare tutto in funzione dell’economia neoliberista è necessario per non perdere il filo rosso della ricerca. L’attuale situazione economica e politica ha determinato una caduta di ottimismo, e nei momenti di crisi è necessario tornare a interrogarsi sulla propria identità. La forma che Monodia suggerisce è quella di iniziative di un’autoconvocazione con cadenza annuale - come l’ultima dedicata a Meldolesi - che ci dovrebbe spingere ad essere più incisivi. Possiamo lanciare un appello per autoconvocazioni, con iniziative molteplici come molteplici sono i nostri teatri.
Credo che la distribuzione sia fondamentale anche perché ci sono tante esperienze poco conosciute, bisogna farle conoscere per evitare il pregiudizio (che si traduce nel fatto di considerarlo un teatro di serie B): dare più spazio alle esperienze di interazione sociale che possono offrire nuove prospettive al di là del neoliberismo.
Antonio Taormina, Vito Minoia, Sergio Ariotti, Enrico Casagrande, Massimiliano Cividati (foto di Oliviero Ponte di Pino).
Massimo Paganelli --> Perché lavorare sulle utopie
Il core business di Castiglioncello sono le residenze e il festival In Equilibrio. Le residenze sono foriere di ciò che vediamo nel festival e sono occasione per discutere nella comunità interessata al teatro. Il rapporto con la comunità teatrale è l’obiettivo che tutti perseguiamo, vorrei che si parlasse di una comunità che si muove attorno al teatro come mallevaria per parlare d’altro, detesto gli abbonati perché sono anime morte, detesto gli spettatori perché guardano in modo passivo e si specchiano.
La mia utopia è quella di garantire uno spazio agli artisti, pensando di fare qualcosa che sia utile all’arte per l’arte, mi dicono che sia un lusso e lo rivendico. A chi ha cose da dire artisticamente è giusto garantire uno spazio. Il pubblico non ci sarebbe se non ci fossero gli artisti. Gli artisti li sceglie il direttore che in quel momento si assume la responsabilità di far interagire e creare alchimie tra artista e territorio. Questo è l’obiettivo di chi ha a cuore il fare arte oggi in Italia. Non credo che sia giusto che tutti i cittadini vadano a teatro, ci deve andare chi lo desidera e a chi vuole andare per vedere Manfredini anziché Gassman deve essere garantito il diritto di vederlo.
Sergio Ariotti --> Un festival tra territorio ed Europa
Il Festival Colline torinesi esiste da quindici anni, siamo un associazione culturale indipendente che lo gestisce e ha rapporti con enti pubblici, senza scopo di lucro (non possiamo certo competere con Napoli Maciste). Nasciamo come progetto costruito con gli attori, progetto del giocare tra le linee, tra il pubblico, e soprattutto con gli artisti. Bisogna riuscire a portarli a realizzare i loro progetti.
Ogni spettacolo va costruito sul territorio perché non finisca come un fungo che non si sa cosa sia, se buono, velenoso o cos’altro. L’identità del Festival delle Colline è composta dagli artisti che ci sono venuti. Il direttore deve colloquiare con gli artisti nascondendo la sua natura artistica. Oggi si affaccia una nuova generazione di teatranti, con le idee molto chiare ma che va sostenuta e portata avanti perché non si disperda.
Il progetto Carta Bianca ha come obiettivo la distribuzione: portare artisti italiani in Francia e viceversa e sollecitare tavoli di confronto. In Francia i direttori di stabili si incontrano e confrontano, si parlano. La mancanza di tavoli è un deficit tremendo del teatro italiano, la mancanza di rapporto vero tra artisti e istituzioni. La marginalità del teatro italiano è una scemenza contro cui lottare. Non viviamo in un mondo di quartieri ma di grandi quartieri internazionali. Dobbiamo incazzarci per i tagli che continuano a essere una minaccia folle sul teatro italiano.
Enrico Casagrande --> Singolare/Plurale Santarcangelo 2009/2011
Come compagnia (Motus), i nostri lavori si vedono soprattutto nei festival più che nelle stagioni. Non credo nell’idea di un festival vetrina, che sia espressione di un insieme di spettacoli che vanno a comporre qualcosa che dovrebbe essere visto nelle stagioni teatrali. Le compagnie entrano in modo molto dialettico nella direzione del festival. Ego sum ego cum. Siamo tre compagnie, un insieme di artisti, e invitiamo artisti con un progetto per far si che all’interno di un contenitore riparta la sperimentazione, il dialogo e il rischio di qualcosa in divenire. Questa è la natura dei festival che vogliamo costruire. Stiamo cercando di rischiare su qualcosa di incompiuto che si pone delle domande che saranno ben visibili. Il progetto è transitorio, dura tre anni, quindi abbiamo solo tre colpi. Non abbiamo la bellezza della continuità.
Massimiliano Cividati --> Case, fra pubblico e privato (Etre)
Alcuni anni fa, 2002, Antonio Calbi disse: "Io guardando il vostro lavoro, vedo i segni di una ricerca a livelli diversi, quello che vi manca è la capacità di tradurre la ricerca estetica, artistica, in una pratica produttiva." Da allora non è successo molto ma a livello imprenditoriale un primo segno di qualcosa di nuovo sono i progetti di residenza declinati a livello nazionale in modi diversi. Anni fa un coordinamento indipendente di compagnie lombarde si presentò dall’assessore Zanello dicendo che avevano fatto più di 60.000 spettatori l’anno recedente, avevano lavorato in diversi comuni eccetera. Lui rispose che la sera precedente a Telelombardia aveva fatto 115.000 spettatori.
Con Fondazione Cariplo si aprì un tavolo di lavoro da cui è nato il bando che ha originato il progetto ETRE, da allora sono state assegnate in Lombardia -che come Regione non ha manifestato nessun interesse - 22 residenze che si sono associate in una rete. La dote economica che il bando ha messo a disposizione ha permesso alle compagnie di forzare la mano degli enti locali. Noi siamo qui da anni, voi avete uno spazio vuoto: la dote ha aperto un sacco di porte consentendo alle compagnie di insediare una stabilità leggera, caratterizzata da contaminazione e ascolto del territorio.
Le associazioni stanno cercando di condividere una serie di servizi e di coordinare una serie di attività in rete. La difficoltà costruire dei tavoli di lavoro maturi, senza narcisismi, mettendo il proprio ego da parte per coltivare un progetto comune. Nel 2009 abbiamo organizzato un piccolo circuito per consolidare delle pratiche e far conoscere le compagnie tra di loro. Nel 2010 organizzeremo un festival di tre settimane in cui ci saranno molte ospitalità anche internazionali. Nel 2009 abbiamo mandato quattro compagnie al Festival di Edimburgo e si sono creati rapporti internazionali.
Paradossalmente Zanello, cui abbiamo proposto di promuovere residenze per giovani compagnie, non lo accettà, perché in Lombardia ci sono già CRT e gli stabili di innovazione....
Maurizio Schmidt --> Paradossi della formazione tra teatro pubblico, commerciale e indipendente
Le scuole sono il luogo della genetica del sistema ma non possono essere il luogo di questa ibridazione perché sono troppo indietro. E’ una logica darwiniana, in un sistema che è refrattario alle nuove generazioni.
La Paolo Grassi diploma cinquanta persone all’anno, negli ultimi cinque anni tra tutte le accademie è altissimo il numero di giovani artisti che chiedono di essere avviati in un sistema che non li riceve. Il sistema produce disoccupati. C’è più offerta che domanda di formazione.
I giovani che si avvicinano al teatro si preparano a fare qualcosa che probabilmente non potranno fare o che comunque non potranno fare come l’hanno studiato. Di fronte ad un sistema così frastagliato tutta la formazione è propedeutica, è arretrata ed incompleta, manca il momento fondativo che è l’incontro con lo spettatore, che è il primo escluso dal sistema di formazione. All’estero non è così, con modalità diverse si recepisce il bisogno di formazione avanzata e lo si porta avanti. Ritengo che la grande assente delle strutture istituzionali di formazione sia la formazione continua.
Per formazione continua intendo quella applicata, non quella che avviene nelle quattro pareti di una scuola, è solo fuori che esiste il teatro. Questo quando i tempi contemporanei chiederebbero una grande specializzazione, proprio per la povertà del sistema produttivo.
Ci sono delle pratiche che non fanno sistema e che spero lo faranno. Alla Paolo Grassi abbiamo tentato di costruire uno studio permanente, incontrando la sordità della politica, l’opposizione ad una scuola aperta e internazionale.
Segnala un progetto di formazione di formatori che avrà sede a Venezia, con Vassiliev: bisogna uscire dall’idea che i formatori nascono per cooptazione.
Antonio Taormina --> Per un sistema della formazione dello spettacolo in Emilia-Romagna
La formazione dello spettacolo in Emilia sta attraversando un momento complesso che potrebbe portare a ripensare questo sistema nato all’inizio degli anni novanta, un sistema policentrico, suddiviso su molti soggetti che lavorano nel campo, una vera esplosione di enti di formazione ed imprese, enti accreditati come l’università che lavorano nel campo della formazione artistica e gestionale.
Diversi fattori avevano portato a questa scelta: in particolare l’attenzione e la condivisione delle imprese (ATER nasce per volontà di tre imprese), la presenza del Dams a Bologna. Questo progetto ha accompagnato l’evoluzione del sistema regionale, progetto nato dagli operatori sostenuti dalle istituzioni che pensavano si potesse convogliare una parte dei fondi dell’’Europa anche sulla cultura.
Oggi non si può parlare di buone o cattive pratiche ma solo di pratiche e tentare di fare qualche riflessione su cosa può significare fare formazione in questa regione. Sono da rivedere gli obiettivi (occuparsi di multiculturalismo, area del disagio, teatro carcere, teatro e handicap psichici....). Si tende a non finanziare più l’offerta formativa ma la domanda così come necessitiamo di strumenti per leggere un sistema e gli andamenti del mercato (gli osservatori culturali). Credo che si debba andare a tavoli unici, in cui siano presenti imprese, enti di formazione, istituzioni. Oggi c’è assenza di una programmazione a medio e lungo termine, serve condivisione strategie e obiettivi. La formazione è un investimento, non un costo. Anche per gli enti di formazione si sta ripartendo dal bilancio sociale.
Maurizio Schmidt e Antonio Taormina (foto di Oliviero Ponte di Pino).
Le Buone Pratiche degli incontri, delle reti e delle aggregazioni, del movimento, della formazione del pubblico e dei premi
Il protrarsi degli interventi oltre i tempi previsti limita il tempo dedicato alle buone pratiche, c’è un po’ di stanchezza e alcuni partecipanti hanno problemi di viaggio.
Non ci si sofferma a precisare i criteri di scelta e accorpamento delle pratiche prevenute (indicati genericamente nel titolo), quasi tutte documentate sul sito.
Ma l’attenzione si ri-compatta con una platea un po’ diradata ma particolarmente interessata ad ascoltare specifiche esperienze.
Ex post, è stato interessante cogliere la corrispondenza fra alcuni temi ricorrenti negli innterventi e linee introno a cui si erano composte le Buone Pratiche: l’importanza di individuare e sperimentare modalità di lavoro aperte alle differenze e alle comunità multiculturali, tese a “includere” (un termine che è tornato spesso). Nuove strade per “unirsi”, fra compagnie e esperienze di “dimensioni” e magari anche “poetiche” diverse, o impegnarsi, nello studio – nel cercare di capire - o nella resistenza. E il pubblico: protagonista indiscusso della giornata, e nuovi possibili modi di dialogare, informare, aggregare. Alcune comunicazioni riguardano infine l’evoluzione di buone pratiche illustrate nelle edizioni precedenti.
Massimo Luconi --> Ritorno in Senegal: dalla formazione alla produzione di uno spettacolo nel sud del Senegal
Punto di ritorno di una buona pratica. Alle buone pratiche di tre anni fa era stato presentato un progetto di formazione/produzione in Senegal su tre anni. Qesto percorso positivo si è concluso con lo spettacolo Quando spuntano le ali allestito in Italia, con anteprima alla Paolo Grassi e residenza precedente in un piccolo paesino della Toscana. In Senegal è stato selezionato un gruppo di giovani (50 circa) per attività di formazione in ambito artistico ma anche organizzativo e tecnico. Lo sbocco è stato un master all’Uni Bicocca di Milano, i senegalesi hanno lavorato producendo lo spettacolo con un budget bassissimo (4000 euro in tre anni). C’è stato una tournèe in Senegal: quattro date, che ha dato forza alla compagnia che si è costituita (un po’ fragile dal punto organizzativo, ma forte dal punto di vista creativo).
Marinella Manicardi --> Moline/Arena in cinque minuti
A metà del 2005 mentre si stava programmando la stagione 2005/06 si sapeva che sarebbe stata l’ultima stagione del Teatro delle Moline, uno spazio di 50 posti esistente dal 1973 che ha prodotto 50 spettacoli: un’esperienza molto bella, e prima di chiudere il teatro si è deciso di parlarne con un teatro più grande. Si sono considerate due possibilità in regione: l’Ert (un teatro pubblico) e l’Arena del Sole (stabile privato). Ma parlare con Modena significava mettere in crisi i rapporti con Bologna, quindi è venuto naturale parlarne con l’ Arena del Sole. Prima ancora si era pensato di fare una alleanza tra teatri piccoli ma l’idea è naufragata. Il bilancio delle Moline era in pareggio e quindi l’Arena non ha trovato ostacoli, si è ceduta l’attività, il repertorio e tutto quello che esisteva del Teatro delle Moline e tutto è stato preso in carico da Arena del sole dopo aver consultato tutti qli enti che partecipavano al finanziamento delle Moline. Tutti dicevano che saremmo stati schiacciati invece le Moline resistono, c’è libertà produttiva, mezzi e visibilità molto superiore rispetto al passato, non c’è la condivisione ideale di una volta, ma l’esperienza è sostanzialmente positiva.
Marinella Manicardi (foto di Lorenzo Cimmino).
Emanuele Valenti --> Lavori in corso a Punta Corsara
Fino a dicembre 2009 Renzo Martinelli e Debora Pietrobono avevano la direzione di Punta Corsara, insieme ai 15 ragazzi che si sono formati nel corso di due anni. (Emanuele Valenti, che del gruppo che ha lavorato in questi anni fa parte, “prende il testimone”: è questa alternanza programmata che si propone come buona pratica).
A Scampia si è ricreata l’idea del teatro delle Albe: parola d’ordine trasversalità, creare qualcosa e mettere radici. La formazione ha riguardato 22 ragazzi, diventati successivamente 15. Si è lavorato all’interno dell’Auditorium di Scampia, precedentemente abbandonato per 22 anni, e utilizzato con un’agibilità straordinaria (forse ora i lavori possono cominciare). Il senso del progetto è quello di mischiarsi, di cercare delle relazioni anche impossibili. Formazione come “non scuola”, un incontro con poetiche, modi di immaginare il teatro. Anche l’incontro con le compagnie ospitate va in questa direzione, spettacoli che potessero “sporcarsi”: così i ragazzi di Scampia si sono inseriti per esempio in uno spettacolo dei Motus, le scuole di danza del quartiere sono diventate luogo aperto, non si pratica l’esclusione e è possibile vedere bande di ragazzini che vanno a vedere Scimone-Sframeli o Manfredini.
Gli Omini e Massimiliano Civica > Compagnia... Attenti!
Gli Omini è un gruppo del tutto autonomo e autoregolamentato, finché l’anno scorso Massimiliano Civica ha propostr ai quattro attori che lo compongono di far parte della sua nuova produzione. E’ un'esperienza nuova: per le giovani compagnie è difficile campare, ed è inusuale che una struttura più impegnativa la prenda “in toto” per inserirla in una produzione, lasciando margini di libertà, garantendo una visibilità diversa, e anche un compenso adguato.
Alla base il rapporto di reciproca stima: dopo essere stati ospiti alla Tosse per due anni, in occasione di una festa, è scattata la scintilla.
La scelta per Civica è: prendere un gruppo che ha una propria identità e traghettarla in una situazione più ufficiale, un’esperienza nuova, in particolare per il Teatro dell’Umbria, produttore dello spettacolo, che raccoglie 13 persone senza “nome”, ma che portano la dignità e l’esperienza della propria ricerca: un modo di riconosce subito a dei giovani la propria professionalità.
Riccardo Goretti (foto di Oliviero Ponte di Pino).
Dal 21 al 31 luglio 2009 una serie di operatori si sono riuniti per un convegno. E’ emerso che esistevano molti punti in comune, collegati dalla “contemporaneità”. Si è cercato di sviluppare un progetto a tappe, con tavoli di lavoro su tematiche specifiche, aggregando le persone coinvolti in una sorta di associazione informale e trasversale, con soggetti che vanno dal teatro di piccole dimensioni, a residenze, a festival e cercano di lavorare insieme sui temi della produzione e della distribuzione.
Si è formato un gruppo di 26 operatori sui 100 riuniti inizialmente, che si sono riuniti a Castiglioncello, al Teatro Furio Camillo, e prossimamente a Milano e Campsirago. Ci si è divisi in quattro sottogruppi che lavorano su tematiche complesse: identità e creazione di un manifesto, analisi di proposte per nuovo modello di finanziamento, realizzazione di un codice deontologico degli operatori, analisi di proposte per tutelare la fragilità del teatro contemporaneo.
Enrico Pittaluga (Studenti Paolo Grassi) --> Preoccup-azioni in Paolo Grassi
Nel mese di luglio la Fondazione Scuole Civiche di Milano ha deciso di non rinnovare il mandato al direttore della Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi, Maurizio Schmidt; l’assurdità dei tempi e delle modalità di assunzione e comunicazione della scelta è a maggior ragione grave considerando che l’operato del direttore era particolarmente gradito e condiviso dagli studenti e dalla maggior parte dei docenti. La reazione degli studenti è stata decisa e attiva: in particolare, nel periodo di sostegno alla ricandidatura di Schmidt, si è programmato un vero e proprio festival, con più spettacoli a sera, e momenti di incontro con personalità del teatro milanese. La lotta è così diventata un momento formativo e di grande confronto, rafforzando e la convinzione degli studenti sulle proprie ragioni e arricchendo la loro esperienza, tanto in termini culturali, che politici che organizzativi.
David Spagnesi, AmniO e Teatro Moderno di Agliana (PT) --> Cambio Palco 2010: dalla rete distributiva alla rete di residenze
Si racconta l’evoluzione di una pratica illustrata in una precedente edizione. L’idea era quella di creare un circuito fra gruppi giovani, con e senza sede. Si è organizzata inizialmente una settimana di incontri fra molte e diverse realtà. Da lì era nata l’idea di costruire una storia, uno spettacolo “condiviso”: un’esperienza realizzata insieme, ma con autonomia artistica. Poi è successo che l’amministrazione comunale di Agliana ha ristrutturato il teatro cinema e l’ha affidato al gruppo promotore di questi incontri, Amnio (il nome richiama la veste con cui nascono alcune volte i bambini, quelli nati con la camicia appunto: e siamo in effetti stati fortunati). Ora è intenzione del gruppo far crescere l’esperienza di Cambiopalco in residenza, e mettere altre residenze in rete.
Rosi Fasiolo --> Teatronet: oltre i circuiti
Teatronet lavora a questo progetto da quattro mesi. Nel 2006 l’iniziativa è nata come un circuito nazionale dedicato al nuovo teatro di ricerca a cui si può accedere associandosi e organizzando spazi e compagnie. Si sono inoltre organizzati incontri a tema che esplorano i rapporti fra teatro e filosofia, ambiente, economia: argomenti connessi al teatro anche se diversi. Il tutto senza sovvenzioni pubbliche.
Il nuovo progetto riguarda ipotesi di “residenza” per le compagnie socie, secondo il seguente schema: si fornisce vitto, alloggio e spazio alle compagnie selezionale (10) che ruotano ogni 15 giorni su 3-4 spazi, allargare le esperienze a diverse zone, al termine lo spettacolo sarà una coproduzione tra spazi e luoghi di residenza e circuiterà in forma non retribuita solo negli gli spazi ospitanti. L’obiettivo è creare una linea di continuità tra produzione distribuzione, promuovere il piccolo produttore e far girare spettacolo su un vasto territorio. La responsabilità del finanziamento del progetto è demandata agli spazi che dovranno verificare le disponibilità economiche sul proprio territorio.
Cristina Palumbo --> Educare all'arte scenica contemporanea ragazzi e giovani. Giovani a Teatro-esperienze di Fondazione di Venezia
Giovani a teatro è una semina che Fondazione Venezia ha avviato alla ricerca di una propria specifica funzione e identità nel campo della formazione del pubblico a teatro. Il programma offre opportunità di formazione culturale della persona, permette di verificare convinzioni, valori e ipotesi. Principi del progetto sono: l’opera è parte del percorso di conoscenza, insinuare il dubbio che la formazione possa essere anche nel godimento dell’opera, nell’incontro con gli artisti, i media, i mediatori culturali, connettere i saperi con i cittadini. Il primo stadio è stato prendere in considerazione l’offerta teatrale del territorio, proponendo la prenotazione attraverso call center e prezzi particolarmente contenuti (e questa pratica è stata percepita dal sistema come una competizione). L’approccio esperienziale è stato il secondo stadio, ovvero l’incontro con gli artefici (Brie, Tarantino, Manfredini...). Una nuova sezione è “Portare Sapere” e consiste in percorsi dedicati rivolti agli insegnanti. La settimana sulla drammaturgia –caratterizzata da diversi approcci drammaturgici- è stata frequentata da 1500 ragazzi.
Le Buone Pratiche: la parola a Cristina Palumbo (foto di Lorenzo Cimmino).
Francesca Napoli --> Una buona pratica dalla musica: gli Amici di Sentieri selvaggi, dalla community all'autofinaziamento
Nata nel 1997 per diffondere la musica contemporanea, l’associazione Sentieri Selvaggi produce e ospita una stagione. Dopo 10 anni, grazie al bando Cariplo per il miglioramento gestionale, si è messo a punto un pacchetto di benefit e proposte rivolte ai sostenitori: dalla riduzioni del prezzo del biglietti, agli approfondimenti (come per esempio condividere momenti di incontro e lavoro con i compositori). Il programma ha consentito di ampliare il bacino di pubblico e creare una comunità di 60 sostenitori. Sono stati raccolti 12.000 euro, pari la 10% del bilancio dell’associazione
Riccardo Carbutti --> Risorse video per la promozione del teatro e delle arti performative
Si parte dal punto di vista dello spettatore curioso, che va alla ricerca di spettacoli e suggestioni nuove, anche da parte di compagnie momentaneamente “invisibili”. Il progetto consiste nella creazione di una piattaforma video dedicata alle compagnie invisibili – appunto - che vogliano apparire. Le compagnie trasmettono mail e richieste e non si ha alcuna possibilità di verificare se uno spettacolo può interessare o meno. La piattaforma è indirizzata a teatri, festival, agenzie di distribuzione, circuiti e consiste in qualche minuto di video e scheda sintetica dello spettacolo. Il progetto verrà sperimentato a giugno e avviato a partire da da settembre.
Valeria Ottolenghi --> Il Premio Nico Garrone: gli artisti premiano i maestri
L’idea di questo nuovo premio, dedicato al critico scomparso, consiste nella individuazione e premiazione di “maestri”. Saranno le compagnie a indicare i critici che le accompagnano, anche nomi poco noti ma importanti per loro. Si tratta di raccogliere i nomi dei critici e farli avere ai teatri e festival italiani perché possano essere invitati: è importante il ricambio artistico e estetico ma anche lo sguardo dei critici si deve rinnovare.
Elena Guerrini --> Il Festival del Baratto
Si tratta di un Festival in Maremma, in un paesino dove non c’è teatro, il paesino dei nonni: è un progetto basato sul baratto, il pagamento avviene in natura, non è monetario. All’inizio un festival senza patrocini e senza sovvenzioni, totalmente indipendente.
Oggi le compagnie ricevono un rimborso spese monetario - 200-300 euro - più l’incasso che è tutto in natura: vino, formaggi, salami.... Il periodo è in bassa stagione – la seconda settimana di settembre - e, in un paesino di quattromila abitanti, ci sono in media cento spettatori a sera, si portano la sedia da casa, non ci sono tecnologie o scenografie, per gli oggetti di scena, si cercano nelle case e si scelgono al momento.
Appuntamento al
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