Lo spettacolo dal vivo ai tempi del grande crac 13 dicembre 2008, La quinta edizione delle Buone Pratiche del Teatro di Redazione ateatro Ancora sulla fine del (nuovo) teatro italiano Uno scambio di mail di Gianandrea Piccioli e Oliviero Ponte di Pino Sciopero generale e chiusura di tutti i teatri! In risposta a La fine del (nuovo) teatro di Giancarlo Nanni Leo, le maschere, noi qui Per Leo De Berardinis di Elena Bucci Priorità e scelte del teatro educativo Dal Sud est asiatico molte stimolanti proposte di Vito Minoia Per un teatro plurale In risposta a La fine del (nuovo) teatro di Franco D'Ippolito Pensare insieme? In risposta a La fine del (nuovo) teatro di Marco Martinelli Una rete dei nuovi progetti In risposta a La fine del (nuovo) teatro di Teresa Bettarini ateatro come laboratorio “inutile” di idee per una nuova cultura teatrale del futuro remoto In risposta a La fine del (nuovo) teatro di Andrea Balzola Binario unico In risposta a La fine del (nuovo) teatro di Franco D’Ippolito Ricominciamo da Leo? In risposta a La fine del (nuovo) teatro di Mario Martone Le Buone Pratiche della Resistenza (con spunti di ottimismo) In risposta a La fine del (nuovo) teatro di Mimma Gallina La questione dello spettatore In risposta a La fine del (nuovo) teatro di Gigi Gherzi Grazie, Gigi In risposta a La fine del (nuovo) teatro di Alessio Di Modica Milano: Quando la cultura è precaria L’incontro promosso della CGL al Teatro dal Verme di Giovanna Crisafulli Elogio dell'incendio Discorso di ringraziamento all’Instituto Universitario Nacional del Arte (IUNA) di Buenos Aires di Eugenio Barba
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Lo spettacolo dal vivo ai tempi del grande crac 13 dicembre 2008, La quinta edizione delle Buone Pratiche del Teatro di Redazione ateatro |
ateatro presenta
Le Buone Pratiche del teatro
Lo spettacolo dal vivo ai tempi del grande crac
a cura di Mimma Galllina e Oliviero Ponte di Pino
13 dicembre 2008
ore 10.00-13.30 e 15.00-19.00
Milano, Scuola d’Arte Drammatica “Paolo Grassi”
via Salasco 4, 20136 Milano
Il programma aggiornato nel forum di ateatro.
L’evoluzione dello scenario politico ed economico sta avendo (e avrà ancora di più in futuro) un forte impatto sul mondo della cultura e in particolare su un settore come quello dello spettacolo dal vivo, che dipende in misura notevole dal sostegno pubblico.
Prima ancora che un problema economico, è un nodo culturale. Le strutture ideologiche che hanno motivato negli ultimi decenni il sostegno alla cultura, alle arti, allo spettacolo, non sembrano adeguate per affrontare il nuovo scenario. E tuttavia – lo “sentiamo” tutti – la cultura è il cuore pulsante della nostra vita collettiva, che innerva le visioni politiche e rende visibili le diverse articolazioni (e magari i confitti) del corpo sociale. Se la cultura tace – o se si impoverisce, uniformandosi a pochi modelli, magari imposti dall’alto o da qualche legge astratta – la vita di tutti noi diventa più povera.
Ma oggi il teatro come può reagire a queste nuove sfide? Ci sono le istituzioni teatrali, che certamente soffrono e soffriranno da un eventuale inaridimento del sostegno pubblico (a partire dai tagli al FUS), e che vedono di fatto delinearsi una ristrutturazione dell’intero sistema dello spettacolo dal vivo. Ma ci sono anche numerose realtà indipendenti, che stanno crescendo in uno scenario che pare offrire scarsi punti di riferimento, e difficoltà crescenti nel crescere e nel trovare uno spazio adeguato all’interno di un sistema che rischia l’involuzione.
Nella tradizione delle Buone Pratiche, giunte quest’anno alla quinta edizione, cercheremo di fotografare la situazione attraverso una serie di relazioni, con dati e inchieste inediti; ma soprattutto proveremo anche a individuare modelli e pratiche virtuosi, e possibilmente replicabili o allargabili ad altre esperienze.
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Ancora sulla fine del (nuovo) teatro italiano Uno scambio di mail di Gianandrea Piccioli e Oliviero Ponte di Pino |
Da: Gianandrea Piccioli
A: Oliviero Ponte di Pino
Ogg: La fine del (nuovo) teatro italiano
Inviato: 25 agosto 2008
R.N.D., 25.VIII.08
Caro Oliviero,
ho letto il tuo pezzone (bello, ma formalmente scritto troppo in fretta, a mio parere). Ottimo nella sintesi storica, esprime uno sconfortato stato di impotenza sul che fare. Uno stato in parte oggettivo (mutamento politico-culturale epocale o comunque non episodico, arroccamento difensivo di chi è arrivato, estraneità a certe “istanze”, come si diceva una volta, da parte del potere politico vincente), in parte anche, mi sembra, soggettivo (che cazzo ci faccio qui col mio sito? che in tanti anni è stato sì meritorio ma dal punto di vista effettuale non è riuscito a incidere sul sistema...).
Sul secondo punto forse pretendi troppo: non è con un sito, per quanto ben fatto e stimolante, che si cambiano le cose. Però il sito ha una funzione, utile e insostituibile, di informazione collegamento e dibattito. Se non ci fosse, saremmo ancora più irrelati gli uni con gli altri. L’ Italia è molto migliore dei suoi politici, sia quelli al potere sia quelli alla soi disante opposizione: il problema è che mancano i relais che facilitino la comunicazione tra le diverse realtà, a volte tra i singoli individui. Un tempo era la politica che organizzava e mediava e metteva in contatto: da anni non è più così, ma avere dei circuiti almeno informativi mi sembra ancora fondamentale.
Sulla situazione oggettiva c’è da disperarsi, figurati, mi ci sono rovinato l’ estate. E non abbiamo ancora toccato il fondo, il peggio sta per arrivare. “Ha da passà a’ nuttata”, come diceva Eduardo. Il guaio è che si ha paura che passiamo prima noi... Però non credo che gli anni precedenti fossero tanto meglio, per il teatro. Il Piccolo di Milano, e con esso tutto il teatro pubblico, ha dovuto lottare per anni prima riuscire ad affermare una poetica e prima di vedersi riconosciuto uno status di cittadinanza, mi ricordo bene le polemiche. E così via, dalle cantine romane a Carmelo Bene, dalle cooperative al teatro di gruppo ecc. ecc. fino a oggi sono sempre state necessarie defatiganti battaglie per conquistarsi spazio e visibilità: nessuno ha mai garantito alcunché, al teatro. Poi i pochi che ce la fanno, e non è detto che siano sempre i migliori, ma in genere sì, si istituzionalizzano, vivono spesso di rendita e si rinserrano nei loro ranch e lo steccato non è un limite per chi sta dentro ma per chi è fuori. Ma le logiche condominiali e corporative sono una conseguenza di un deficit politico prima ancora che di un habitus consortile. Sei sicuro che con la sinistra al potere le cose fossero migliori? Io credo che quello che ci sgomenta oggi, dopo i rischi per l’assetto generale del paese, è la rozzezza subculturale di questi, la sinistra sapeva mascherarsi dietro un più accorto ma illusorio savoir faire; la sostanza, però, non mi sembra poi molto diversa, da parecchi anni a questa parte.
E pensi che la situazione sia molto diversa per la musica? E la censura del mercato in campo editoriale non equivale alla mancanza di circuito per gli spettacoli?
Ovviamente quando la situazione brutta è generale, la diffusione stessa del malessere è un’ aggravante, non una consolazione. Quello che voglio dire è che il vero problema, culturalmente parlando, è un altro. E cioè che la crisi non è solo politica: siamo nel mezzo di un cambiamento di paradigma: quello vecchio reggeva almeno dall’illuminismo, ma la cesura è talmente profonda che prima di manifestarsi chiaramente ha impiegato almeno un secolo, come la famosa luce delle stelle morte. Il nuovo non riusciamo ancora a percepirlo e adesso siamo nel vuoto. E che fai nel vuoto? Cerchi di salvare la dignità personale, continuando a fare ciò che si sa fare e si ritiene opportuno, per sé stessi innanzi tutto, senza illudersi sui risultati concreti. Rinunciando magari a qualche sogno ma non sottovalutando, come mi pare tu faccia, se ho capito bene, il dato che il teatro è in questo momento la cosa più viva e interessante che ci sia in Italia (nell’ ultimo anno anche il cinema). Prima di venire quassù mi son detto che se da un libro mediocre come Gomorra era stato tratto un così bel film e se c’ era in giro uno spettacolo (e soprattutto un testo) come ‘Nzularchia, se cioè dei giovani riuscivano a guardare con tanta lucidità e forza espressiva dentro il cancro del paese, non tutto era perduto.
Scusa il tono da zio. Un abbraccio
Gianandrea
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Da: Oliviero Ponte di Pino
A: Gianandrea Piccioli
Ogg: Lo so, la disperazione è un peccato mortale
Inviato: 26 agosto 2008
Caro Gianandrea,
intanto grazie della mail.
E ahimé so bene che la disperazione è peccato mortale... E sai anche che in un pezzo del genere non si può dire “tutto-tutto”. Ma quello che cercavo di dire è che non è sempre stato così, che qualcosa è cambiato dopo le ultime elezioni (e quello che significano).
Grosso modo, mi pare una visione del mondo di sinistra (sulla quale era fondato un certo tipo di teatro) sia collassata, e dunque diventa necessario trovare altre legittimazioni sul piano storico, filosofico e culturale.
Anche perché molti dei filoni che avevano nutrito il teatro pubblico e di ricerca mi paiono creativamente pressoché esauriti.
Invece sul piano pratico, la sinistra ha messo in piedi anche in campo culturale una piccola casta fatta di direttori, funzionari, consigli d’amministrazione eccetera (per poi fare, come noti tu, poconiente).
Quelle posizioni di miserabile potere diventano ora difficilmente difendibili, oltre che sul piano delle decenza, anche sul piano dei rapporti di forza politici (con il maggioritario che spazza l’opposizione) e su quello culturale (vedi sopra). Insomma, mi pare sia drasticamente cambiato il quadro di riferimento: prima c’erano principi “di sinistra” a cui appellarsi e una sinistra magari ipocrita che ci ha costruito su una piccola casta.
Ora i vecchi schemi non funzionano più, e servirebbero nuovi strumenti (per non sprofondare nella disperazione). Ma non riesco a trovarli (però so che la mia filosofia non può contenerle tutte)
Un altro punto è: “A chi parliamo?”. Tu dici: “Agli uomini di buona volontà, che ci sono”. E tuttavia, ammesso che ci siano davvero, è ormai difficilissimo raggiungerli (se non uno alla volta, tra amici e amici degli amici):
mi sembrano tutti un po’ impauriti/storditi (anche per le ragioni di cui sopra) in attesa del peggio che avanza
Insomma, fermo restando che abbiamo sempre vissuto tempi grami, mi pare che qualcosa sia davvero cambiato: forse è un bene, perché fa piazza pulita da molti equivoci. Però continuare ad agire (non individualmente, a livello di testimonianza personale) mi sembra in questo momento assai complicato e difficile, con l’unico vantaggio di una totale libertà mentale (da conquistare) all’interno di una realtà sempre più rigida e schematica.
o.
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Da: Gianandrea Piccioli
A: Oliviero Ponte di Pino
Ogg: Ma non è sempre stato così?
Inviato: 27 agosto 2008
R.N.D., 27.VIII.08
Caro Oliviero,
l’altro giorno ho scritto di getto, preoccupato, oggettivamente e amicalmente, di quella che mi sembrava una disperazione anche personale e quindi forse mi sono spiegato male.
E’ proprio sul presupposto del tuo intervento che ho delle perplessità, forse anche perché abbiamo concezioni leggermente diverse, credo per motivi generazionali, su che cos’è stata la “sinistra”. Ma non voglio discutere di questo, che ci porterebbe troppo lontano e che soprattutto non è qui pertinente. Schematizzando, io distinguerei tra ciò che anima ciascuno di noi, ma un artista in particolare, nel profondo delle motivazioni anche inconsce, nel grumo del proprio dolore e nel groviglio dei propri bisogni, all’ azione sia individuale sia di gruppo (e il teatro è il luogo della relazione per eccellenza, al suo interno e con gli “spettatori”). Altra cosa è invece il quadro di riferimento entro cui uno è costretto a muoversi nel mondo per sopravvivere. Ecco, io ho l’impressione che per i teatranti solo quest’ultimo sia stato di sinistra, nel bene (poco e ai bei tempi), e nel male (molto e più recentemente). Quasi tutti gli intellettuali, dall’illuminismo in poi, sono stati “di sinistra”, ma nel senso generico, più anarchico e libertario che ortodosso, di ricerca dell’autonomia, di fiducia un po’ ingenua nel progresso indefinito, di affermazione dei diritti ecc ecc. Col ‘68 e ancor più col ‘77, che in Italia per il teatro è stato forse più importante, si è sviluppata, a mio parere malauguratamente, l’ideologia della soggettività desiderante, e questa sì ha innervato dall’interno molti importanti percorsi del “nuovo teatro” e incrementato il filone della “diversità”. Ma a parte il fatto che non sarei sicuro che si tratti di un’ideologia di sinistra, funzionale com’è alle esigenze dell’attuale fase economica (e anche tu lo accenni, a un certo punto), questo tipo di esperienze non copre tutta la mappa del teatro contemporaneo. Per il resto, non so se possono essere ascritti alla sinistra un Grotowski, a esempio, o un Barba, accusati proprio dai guardiani dell’ ortodossia di misticismo e irrazionalismo (ricordo l’imbarazzo esitante persino di un eretico come Fortini quando lo portai a vedere Come and the day will be ours e certi articoli di Wanda Monaco su “Rinascita”, mi sembra); o Carmelo Bene, snobbato e bollato di decadentismo prima di diventare un idolo... E le riserve sul Living venivano da sinistra... E Testori, col suo materialismo senza mediazioni e riscattato solo dalla redenzione, lo mettiamo nella sinistra? Altri esempi li puoi fare tu meglio di me. Quello che cerco di dire è che in generale è vero che la sinistra, non solo quella comunista, è finita, tanto che parlavo di cambio di paradigma e di vuoto per tutti noi, e che va reinventato (hai detto un prospero!) ciò che può dare un senso alle nostre vite senza finire sotto il mantellone di Ratzinger: ma questo è il problema e sarà compito lungo e non garantito nei suoi esiti (e in ogni caso superiore alle forze in campo). Però questo crollo epocale (peraltro abbondantemente presagito) non credo influisca più di tanto sull’ “ispirazione” dei teatranti, e non solo dei teatranti, ovviamente. Mentre invece, in Italia, influisce sulle concrete possibilità di sopravvivenza: è venuta a mancare la greppia di casta, o clientelare se preferisci. Ma questa, appunto, non è cosa nuova. E soprattutto è problema politico. E culturale: e qui non c’ è più mica tanta differenza tra destra e sinistra (soi disante). Certo Veltroni è più avveduto di Alemanno, e attento a quello che succede in certi ambiti, ma forse, paradossalmente, più corporativo (pensa alla vicenda dell’”Unità”).
Perciò credo che vada fatta una battaglia anche contro quella che ancora si spaccia per sinistra, o si illude di esserlo (son sicuro che il patetico compitino redatto ieri dalla piccola Concita, e che ha suscitato tanti sconsiderati consensi, è stato scritto assolutamente in buona fede), ma una battaglia politico-amministrativa e politico-culturale.
Poi uno può dire: fattela te, la battaglia. Non posso andar da solo contro i mulini a vento. Qui mi taccio. Ricordo solo quello che disse Einstein a un suo allievo preoccupato per l’avanzata del nazismo: “Non c’è niente da fare, giovanotto. Smetta di prendere i giornali e di ascoltare la radio, e legga Shakespeare”.
Giuro che non voglio impegolarti in un e-mailario teatrale: volevo solo spiegare meglio le mie perplessità e confortarti.
Un abbraccio
Gianandrea
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Da: Oliviero Ponte di Pino
A: Gianandrea Piccioli
Ogg: Le ideologie della cultura di sinistra
Inviato: 28 agosto 2008
Caro Gianandrea,
credo che grossomodo siamo d’accordo (come quasi sempre) e che dialogando riesco anche a capire meglio quello che penso (e spiegar meglio quello che avevo frettolosamente condensato).
Cercavo molto brevemente (e confusamente, mischiando politica e moralità personali, estetica e opportunismi di casta).
Ma il punto fondamentale, secondo me, é che la sinistra (in senso lato, non solo il PCI, ma anche certo cattolicesimo e certo radicalismo, e i loro mix) hanno prodotto in questi anni diverse “ideologie della cultura” e del teatro: prima il teatro pubblico e gli stabili, poi le avanguardie (libertario-anarco-pacifiste), poi la trasgressione emancipatrice e la poetica della diversità; e ancora il nicolinismo e la sua banalizzazione veltroniana, e l’antiberlusconismo dei comici (figlio del ribellismo di Fo).
Per motivi diversi, questi filoni mi paiono in stallo (a essere generosi): insomma, aldilà delle poetiche personali e di gruppo, c’erano ideologie più o meno esplicite che giustificavano-imponevano l’intervento pubblico/politico del settore, e dettavano le linee guida (che poi nella pratica clientele eccetera prosperassero, ë un altro problema: per la sinistra di derivazione dalla linea corretta, per la destra - e Fumaroli - una perversione inevitabile).
E’ il tramonto di questi schemi che cercavo di evidenziare: è uno dei piani diversi cui accennavi al telefono. ad aggravarlo (secondo piano) e renderlo clamoroso è il tracollo elettorale.
Terzo piano, intrecciato agli altri, come accennato sopra, è quello della casta (di sinistra) e della riformabilità del sistema: non è stata praticata (non mi riferisco tanto alle denunce di ateatro, ma a quelle di Stella & Co. che non hanno avuto alcun effetto pratico).
Poi è vero che ho solo una pars destruens (o meglio, guardo le rovine che avevamo provato a puntellare), ma mi pare un primo necessario passo.
Su questo forse incide anche il mio stato d’animo, ma questo è un altro piano ancora...
cia-o.
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Da: Gianandrea Piccioli
A: Oliviero Ponte di Pino
Ogg: La forza della marginalità?
Inviato: 28 agosto 2008
R.N.D., 28.VIII.08
Ma allora non è in crisi il rapporto tra il teatro e la sinistra inesistente e nemmeno più funzionante come greppia, ma sarebbe l’invenzione teatrale incapace ormai di produrre un nuovo sistema? Perché assuefatta al sistema precedente, da lei indotto e poi dialetticamente ribaltatosi in gabbia? E quando la gabbia si sfascia i pulcini soccombono?
Eppure mi sembra di vedere una vitalità e una forza non solo da stella morta... E da quasi un secolo la forza del teatro non sta nella sua marginalità?
Gianandrea
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Da: Gianandrea Piccioli
A: Oliviero Ponte di Pino
Ogg: Sulla categoria della diversità
Inviato: 30 agosto 2008
R.N.D., 3.VIII.08
Sì, impostato così il problema mi è più congeniale... Una sola precisazione: non è la categoria della diversità in quanto tale che mi è sgradita, ma il narcisismo e la pretesa di assolutezza e il mancato riconoscimento dell’anánkē, o se preferisci del limite, che spesso l’accompagnano e che postulano la trasformazione del desiderio in diritto.
Per il resto, hai detto un prospero. Nessuno credo abbia una soluzione: il problema, generale, in Italia assume connotati catastrofici, su cui appunto ti applichi. Ma, ancora una volta, non è da oggi che il consumo si appropria di elementi nati in antitesi e ciò che nasce “rivoluzionario” viene rapidamente riciclato prima dalle sarte e dagli architetti poi dalla pubblicità e poi giù giù fin all’Oviesse, passando attraverso la catena Feltrinelli (pensa al povero Che Guevara). Adorno docet. Bisogna per questo rinunciare? Una volta si teorizzava (e si praticava) la guerriglia culturale: mobile, imprendibile, mimetizzata nel quotidiano ecc. ecc. Io credevo allora e credo ancor di più oggi che nella società contemporanea (ma forse sempre, forse anche nella Ferrara dell’Ariosto, che nascondeva il suo nichilismo e le sue nostalgie dietro un arabesco d’avventura e di fiaba...) chi, a livello individuale o di gruppo, non vuole tradire quel tanto o quel poco di verità su se stesso e sul mondo che crede di aver raggiunto, debba essere marrano. Debba cioè camuffarla, truccarla, questa parziale e soggettiva verità, e sottrarsi nel momento stesso in cui si partecipa. E di questa “marranità” secondo me è stato intriso tutto, o quasi, il rapporto strumentale del teatro con la sinistra. Come sempre, come tutti i guitti, come Molière... il teatro larvatus prodit.
Tu dici: non è solo una questione di uso strumentale: è che certe “istanze” del nuovo teatro sono organicamente, quasi per definizione, collegate a un progetto di sinistra “vera”. Ma è mai esistita questa “sinistra vera”? Non è stato soltanto un altro nome, illusoriamente più empirico e quindi per molti meno sconveniente, dell’utopia? Non è meglio parlare di ideale regolativo cui è possibile solo approssimarsi, come Mosé alla terra promessa? E quelle utopie, o quell’ideale, non potranno assumere altre maschere, servirsi di altri strumenti, inventarsi altri canali? Nei due sensi da te indicati, il teatro sarà ancora più marginale di prima, forse (ma dicono che gli spettatori sono in crescita e in ogni caso è molto più vitale della narrativa, a esempio). I nodi su cui riflettere allora mi sembrano due: come, restando marginali, non farsi chiudere nel ghetto; e come sopravvivere, soprattutto come cominciare (tutti parlano dei circuiti chiusi, dei finanziamenti tagliati ecc., cioè di quanto già esiste: nessuno che pensi a quelli che vogliono cominciare!). Meredith Monk usava il sussidio di disoccupazione; Barba pittava le navi al porto e così via. Non credo ci siano molte altre alternative. E questo vale per chiunque, dal gruppo musicale alla piccola società di servizi (il teatro ha bisogno di più cose, lo so: spazio innanzi tutto, e visibilità; il teatrante, cioè, è già un imprenditore. Ma comunque i problemi sono analoghi). Non ci si può aspettare nulla da nessuno, oggi in Italia. E del resto oggettivamente soldi non ce ne sono, e quei pochi che ci sono li spendono in profumi e balocchi per loro.
Inventarsi un nuovo sistema teatrale è impossibile, in questa situazione e finché chi è già arrivato si chiude nella propria baracchina e, quando va bene, ci fa entrare solo gli amichetti sua.
Sarò ingenuo, ma non si potrebbe forse cominciare a discutere, e a far discutere, a favore della defiscalizzazione degli introiti, almeno del teatro “di ricerca” o “giovane” o chiamalo come ti pare, stabilendo dei tetti, e per ottenere dagli enti locali spazi in comodato (ci sono sale di ogni genere inutilizzate, per non parlar di quelle dei preti, ma loro sono peggio degli assessori, da questo punto di vista)?
Per ora ti saluto, che domattina mi alzo presto per una scarpinata
Gianandrea
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Da: Oliviero Ponte di Pino
A: Gianandrea Piccioli
Ogg: Nell’era di Facebook
Inviato: 30 agosto 2008
Perfettamente d’accordo sul rapporto fecondo teatro-marginalità nel Novecento.
Ma era una marginalità rispetto a che cosa? Direi in due direzioni (a volte incrociate).
Da un lato una marginalità sociologica (culturale, sessuale, linguistica, fisica, psicologica, criminale...) rispetto al mainstream (la diversità, insomma, anche se la categoria non ti piace): e la marginalità dei teatranti e del loro microcosmo utopico vi si rispecchiava).
E dall’altro una marginalità estetico-culturale (quella delle avanguardie, in parte coinvolte e travolte dalla fine delle avanguardie politiche).
Mi pare che queste marginalità, senza una sinistra “vera”, vengano neutralizzate: nullificate da un pensiero unico oppure dall’altro riassorbite nel consumo.
Un sintomo. Le grandi multinazionali dell’abbigliamento usano da anni il look il linguaggio eccetera dei ribelli rap dei ghetti usa, marginali politico+estetici x eccellenza.
allora credo che ci dobbiamo chiedere se la categoria “marginalità” ancora funzioni (o ancora funzioni così);
e quale percorso debba poi fare questa marginalità. Se restare nel ghetto e difenderlo, o se integrare la marginalità per arricchire l’insieme (ma al tempo stesso azzerando la differenza).
(qui andrebbe aperta una parentesi sulla marginalità irriducibile del singolo, nell’era di Facebook, ma andremmo troppo lontano).
Insomma credo ci sia da pensare (e da inventare) qualcosa di nuovo tra politica ed estetica, x uscirne.
Ma qui per ora mi fermo.
o.
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Da: Gianandrea Piccioli
A: Oliviero Ponte di Pino
Ogg: In difesa della zona franca del teatro
Inviato: 31 agosto 2008
R.N.D., 31.VIII.08
Causa nuvole basse e rischio pioggina la scarpinata, che esigeva una radiosa per poter godere il panorama finale dopo una salita lunga e aspra, è stata rinviata. Ne approfitto per una postilla chiarificatrice, spero, su come la penso (si fa per dire) circa il nesso tra marginalità, diversità e teatro.
Nella tradizione europea il teatro, fin dai tempi delle condanne di Tertulliano e per la sua ineliminabile e antiplatonica corporeità (e nonostante l’incarnazione cristiana), è stato il luogo elettivo dell’anomia, la zona franca in cui ogni sorta di diversità, anche semplicemente intellettuale, poteva esprimersi, più o meno larvatamente, senza andare immediatamente sul rogo. Una zona ufficialmente condannata e ufficiosamente frequentata. (Con uno statuto analogo a quello dell’aborto, affidato alla sfera ufficiosa per definizione, quella femminile esclusa dal potere ma sovrana nei misteri del corpo.) Nel corso dei secoli i roghi sono scomparsi, ma lo stigma è rimasto. Questo ha consentito quell’effervescenza non solo creativa ma anche di sperimentazione sociale in vitro tipica del teatro.
Ma quando la diversità si socialdemocratizza e pretende le pantofole del pensionato e in parallelo la società letteralmente consuma la trasgressione come i decadenti d’antan l’assenzio, che ne è della zona franca del teatro? Non è questa, per la sua sopravvivenza, una minaccia più grave di qualunque tracollo della sinistra?
Un abbraccio
Gianandrea
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Da: Oliviero Ponte di Pino
A: Gianandrea Piccioli
Ogg: Re: In difesa della zona franca del teatro
Inviato: 31 agosto 2008
Il tema del mio intervento era proprio quello, diciamo così, del buffone e del re - con un re che è cambiato.
E questo impone una riflessione, anche perché la marginalità del buffone non è mai assoluta: c’è il pubblico, e c’è un sovrano che controlla, a volte censura e a volte finanzia e spesso fa un mix dei due (almeno in Europa, negli Usa è leggermente diverso).
Poi è ovvio che ci sono costanti e strade che si possono ancora seguire e scavare (la marginalità, il corpo, ma anche la costruzione e “resistenza” dell’individuo/soggetto, la sperimentazione di nuove tecnologie/maschere, eccetera),
Però in un quadro cambiato: anche la parola socialdemocrazia rischia di perdere senso (anche perché i rivoluzionari pretendono la pensione!!!), e così per certi aspetti anche la marginalità (in un mondo tutto precarizzato...)
In fondo, credo che il teatro stia scontando la fine della polis e della politica, di cui era stato un elemento chiave - in quanto “civile”. Nel globalismo mediatico e populista (e nella spettacolarizzazione dell’io all’epoca del Grande Fratello e di Facebook) il teatro può ancora avere una funzione, ma la deve reinventare (e come sempre sarà un po’ antica e un po’ nuova) anche se non so se saprò vederla
o.
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Da: Gianandrea Piccioli
A: Oliviero Ponte di Pino
Ogg: Verso il gembo di tutti i mali d’Italia
Inviato: 1° settembre 2008
R.N.D., 1.IX.08
Domani scendo a Milano per pochissimi giorni. Non ne ho nessuna voglia, la detesto e la vivo anche un po’ paranoicamente come il grembo ahimé fecondo di tutti i mali d’Italia, da Mussolini a Berlusconi... Ma a parte questo, è che qui ti lasci irretire dai ritmi della natura e del paesello, vivi in altro modo il passo del tempo. Comincia, nelle luci, nella qualità dell’aria, nei colori, nelle ombre che si allungano, un sentore di autunno: doloroso e dolcissimo insieme, senti il tempo che ti scivola via dal corpo, come il sangue da una ferita...
Forse per questo, pur concordando con alcune tue preoccupazioni, sono meno epocale o palingenetico e più ciclico. Il teatro vive di corporeità in atto e di relazione diretta, anche “pedagogica” se vuoi (nel senso di Barba o di Salmon o di Copeau o di Brecht o di Stanislavskij: gli esempi possibili sono vari e costellano tutta la vicenda da fine Ottocento in avanti); e, almeno dal Novecento, di sperimentazione sociale protetta dalla sua stessa marginalità. Magari sarà perché son vecchio e mi illudo di procurarmi vita dalla continuità degli amori, ma credo che siano bisogni ben vivi anche nella società di oggi. Anzi, quanto più sei sommerso dall’illusorietà da castello di Atlante e dall’esibizionismo di massa elettronici, quanto più nel tessuto sociale le relazioni sono esclusivamente funzionali e persino l’eros si basa sul principio di prestazione, tanto più, almeno per pochi irriducibili, sarà necessaria l’ espressione teatrale. Che forme assumerà, lo ignoro; ma già oggi ci sono tanti diversi modi di fare quello che chiamiamo “teatro”: gli elementi di base sono quelli di sempre, anche se di volta in volta, nei secoli, cambiano la miscela e la funzione.
Differente (ma mi sembra che tu tendi a incrociare troppo i piani, quello della “morte dell’Arte” e quello organizzativo-finanziario) è il problema della configurazione del “sistema”, cioè come garantire l’ esistenza concreta, il circuito, la continuità in una società distratta o, letteralmente, affamata. Dove il 50% della popolazione pare si faccia di droghe di ogni genere. Dove la scuola è quello che è e figurati quello che sarà con la Gelmini; dove c’è un allarmante analfabetismo di ritorno, ma folle si ammassano a Sarzana, a Torino, a Mantova, a Parma, alle mostre di Brescia... E dove una zona come la Sabina rigurgita di filodrammatiche, come si chiamavano una volta, e a Poggio Mirteto invitano Iben Nagel Rasmussen e a Castiglioncello fanno in pineta rassegne che si fatica a vedere a Milano, e credo che il Sud proponga più cose di quante riesca ad assorbire. Non so se è fruttuoso costruire ipotesi e teorie su una realtà così contraddittoria. Utile mi sembra comunque quello che ti scrivevo l’altro giorno e che era anche uno dei tanti scopi del tuo appello, credo: invitare i teatranti alla consapevolezza, ad abbandonare quella che la Renata [Molinari] chiama giustamente “la logica condominiale”, a dibattere su proposte concrete e con qualche possibilità operativa anche nella nuova situazione. Io credo abbia ragione il vecchio Monicelli: l’Italia sta naufragando, ma non so dove. Forse bisognerà cominciare a pensare in termini di mera sopravvivenza. Ma almeno tentare una sorta di stati generali forse vale la pena. Ma su questo non so proprio che dire nemmeno io che sono un chiacchierone...
Un abbraccio e buona Mantova
Gianandrea
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Da: Gianandrea Piccioli
A: Oliviero Ponte di Pino
Ogg: L’ultimo baluardo del vecchio umanesimo?
Inviato: 5 settembre 2008
R.N.D., 5.IX.08
E se invece, dopo la morte di tutte le altre arti (penso a come gira a vuoto la musica e a come sia autoreferenziale l’arte figurativa), il teatro fosse ancora l’ultimo baluardo del vecchio umanesimo? Una difesa/rivolta verso la disumanità incombente? L’ unico luogo in cui il corpo ha ancora un significato proprio: non colonizzato, non artefatto, non tecnologizzato (salvo che in certe forme di “cyberteatro”, se così si può definire); in cui il narcisisimo trova una forma per affermarsi negandosi (nel momento della comunicazione)? Il luogo in cui è possibile individuarsi non in base alle esigenze della società e del potere ma in base ai nostri bisogni vitali? Lo spazio della trasformazione “alchemica” della nostra pluralità interiore in uno scambio comunicativo tra l’attore, il suo personaggio e il coro di chi assiste partecipe, facendosi così carico della verità di quanto accade sotto i suoi occhi? L’unico spazio, ormai, in cui è ancora possibile esercitare il giudizio, senza rinviare il senso a un domani sempre veniente? Allora, nella sua residualità marginale, il teatro non è l’ultima linea di resistenza possibile? Non più utopie, dunque, ma tenacia da sentinella nella notte. Una tenacia e una resistenza non “di sinistra” contro lo strapotere della “destra”, ma semplicemente dell’umano contro la barbarie ormai generalizzata, a destra e a sinistra. Suona retorico, lo so, ma solo nella consapevolezza di una battaglia in cui ci si gioca tutto forse il teatro può sopravvivere, anche da noi, anche Berlusconi regnante.
Buon Ronconi.
Gianandrea
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Da: Oliviero Ponte di Pino
A: Gianandrea Piccioli
Ogg: Per un teatro disumano?
Inviato: 15 settembre 2008
Caro Gianandrea,
eccomi con un po’ di ritardo, ma tra l’ufficio e la gita a ny (e relativo fuso) mi sono un po’ perso.
Provo a rispondere ora brevemente.
Certo una posizione generosamente (ma anche un po’ genericamente) “umanista” è culturalmente ed eticamente nobile e sostenibile. Era peraltro l’ipotesi di lavoro di Strehler, quando intitolava il suo libro Per un teatro umano (e magari noi, dopo aver letto Foucault & Deleuze, Beckett e Genet, storcevamo il naso).
Così come è legittimo fare teatro per conservare il patrimonio culturale del paese, oppure provare a far interagire teatro e nuove tecnologie, oppure esibire il virtuosismo degli attori (e si può ragionevolmente sostenere che tutte queste forme di teatro meritano d’essere sostenute dai poteri pubblici). Di destra come di sinistra.
Ma proprio questo è il punto. Non dico certo che il teatro sia morto, o che non verrà più sovvenzionato. Voglio semplicemente dire che gli schemi tradizionali della sinistra in campo culturale non tengono più, e che dobbiamo trovarne di nuovi. Partendo dal generico presupposto che la cultura sia un valore (e magari sottolineando che sulla cultura si fonda l’umanità dell’uomo, contrapposta alla disumanizzazione implicita in un’ideologia tecnologico-economicistica), si potrà sempre fare del teatro (magari ottimo, ma forse più spesso infradiciato di buone intenzioni) e giustificare il mecenatismo pubblico nei suoi confronti.
Ma non era certo questo il postulato della cultura di sinistra, direi. E forse questo postulato non ci basta più, da tempo. Ma trovarne altri, non è facile...
o.
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Da: Gianandrea Piccioli
A: Oliviero Ponte di Pino
Ogg: C’è umanesimo e umanesimo
Inviato: 24 settembre 2008
R.N.D., 24.IX.08
Caro Oliviero,
scrivo ancora torpido di raclette e barbaresco goduti ieri sera a casa del mio amico capoguardia e di sua moglie psicobiologa: tutto, colesterolo compreso, a livello di eccellenza estrema. Però, nonostante i postumi della serata, sono perfettamente consapevole, e non da oggi, che un certo umanesimo è morto: ricordi quante volte abbiam parlato, cercando invano di farne fare un libro, della frattura nella trasmissione culturale? Cioè del fatto che, per la prima volta nella storia dell’Occidente, si è interrotta la continuità di una paideia da una generazione all’altra? (Io personalmente, poi, posso anche cercare, nel mio piccolissimo, di continuare a sostenere valori che so defunti per sempre, in una sorta di “nobiltà della sconfitta” ispirata a Giuliano l’Apostata più che a Mishima...). E sono anche consapevole (ma chi non lo è?) di vivere non in un’ epoca di grandi cambiamenti ma in un cambiamento d’epoca, come ha detto non ricordo più chi (un qualche intellettuale sudamericano, mi sembra).
Questo per dire: reazionario sì, ma non così ingenuo da usare il termine “umanesimo” in chiave essenzialmente culturale. Mi interessano limitatamente l’umanesimo socialisteggiante di Strehler (anche se, coi tempi che corrono, avercene!) o le valenze culturali del teatro (ma, anche a questo proposito, non butterei via il museo). Né, scusa se mi ripeto ma tutto questo nostro emailaggio è partito da qui, so dire fino a che punto il teatro del Novecento sia stato ispirato a schemi culturali di sinistra (se non nel senso generico che dall’ Illuminismo in giù tutta la cultura è stata prevalentemente “progressista”, egualitaria, libertaria ecc ecc. Ma gli scrittori più grandi e amati sono stati quasi sempre conservatori... e anche i filosofi... e anche tanti artisti...).
Quello che intendo per “umanesimo”, in questo contesto, è, per così dire, un’ ultima resistenza dell’umano, una pertinace ricerca delle ragioni delle scommesse ultime sulla nostra esistenza ben più che dei suoi fondamenti. Tu puoi obiettare: non cambia molto, sposti solo la barra più in là. Per come la vedo io, no.
Non ho una concezione metafisica dell’ uomo, e da Musil ho imparato più che da Foucault e Deleuze. Credo però nell’apertura della storia, nella sua assoluta e non necessariamente provvidenzialistica imprevedibilità. E quindi nella necessità dell’estote parati, nella continuità stoica della formica, del ragno, della lumaca... Per questo, pur agitandomi come mai in vita mia per quanto sta succedendo, pur vivendo nell’amarezza e nell’astio (sentimenti che solitamente mi sono estranei e che metto in conto, con molto altro, ad Al Tappone), pur sapendo che morirò in un’Italia brianzolizzata (e fin che posso cerco di scapparne), continuo a pensare che non perciò finisce il mondo.
E che proprio in questo deserto, o negli interstizi del mutamento, il teatro ha più opportunità di altre forme di vita (uso consapevolmente questa espressione), se non altro perché, come il calcio, lo puoi “giocare” dappertutto: nei grandi stadi metropolitani, ma anche in una favela o, se non ti ammazzano, a Castevolturno. E si può continuare a “usare”, da bravi marrani, come sempre i teatranti. La cultura, l’arte, i valori, anche l’utopia: tutte balle. Ma necessarie, sempre. Indispensabili paraventi per contrabbandare l’anomia, i propri bisogni non accettati né accettabili dal contesto, la propria voglia di sperimentarsi sperimentando, in vitro, un’esistenza sociale altrimenti impraticabile. Per liberare il corpo dalle proprie angosce e dagli asservimenti esterni. Per incontrare l’altro, in un gioco di riconoscimento reciproco che produce nuova realtà.
Sono assi ideologici di sinistra, questi, destinati a inabissarsi con lei? Se sì, vuol dire che, come il borghese di Molière, faccio della prosa senza saperlo...
Gianandrea
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Sciopero generale e chiusura di tutti i teatri! In risposta a La fine del (nuovo) teatro di Giancarlo Nanni |
Caro Ponte di Pino,
mi riservo di dare risposta alla tua lettera così illuminante circa i nostri destini incrociati, ma per le Buone Pratiche suggerisco una mobilitazione antecedente al 13 dicembre su scala nazionale: sciopero generale e chiusura di tutti i teatri.
Questa è la risposta che bisognerebbe dare al ministro delle Finanze e quello del Mibac di fronte ai tagli incredibili che si prospettano per il 2009 e per gli anni seguenti. I tagli distruggerebbero metà delle realta teatrali, noi compresi al Teatro Vascello.
Io penso che dovremmo proporre e ottenere il tax shelter per i privati ma indirizzato solo alle realtà più deboli, diciamo sino a 1,500.000 euro di budget complessivo, in modo da favorire gli investimenti privati da detassare sulle fasce deboli del teatro.
Un caro saluto
Giancarlo Nanni
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Leo, le maschere, noi qui Per Leo De Berardinis di Elena Bucci |
Contributo di Elena Bucci all'incontro "La Commedia dell'Arte di Leo De Berardinis", che si è svolto il 14 luglio 2008 nel quadro del Festival-Laboratorio "Arlecchino Domani" della Scuola d'Arte Drammatica Paolo Grassi di Milano. All'incontro hanno preso parte: Gerardo Guccini, Marco Manchisi, Stefano Perocco e Marco Sgrosso.
Prossimamente anche su "Teatri delle diversità", n. 46/47 (ottobre 2008).
La portentosa forza della lezione di Leo - derivata da un’intensa compenetrazione tra teoria, pratica, e riflessione politica e civile - arriva intatta e inqueta fino al presente, fino a questo momento.
Leo, come la Duse, dice: ‘le convenzioni, le celebrazioni, il successo, le tradizioni non significano niente’ e ‘l’arte non si insegna’.
Suonano strane queste parole in una scuola? Ma no.
Entrambi hanno profondamente ammirato e studiato la tradizione e cercato di trasmettere tutto quanto sapevano ai loro attori, incoraggiandone qualità e inclinazioni.
Entrambi quindi, hanno fatto dell’arte del paradosso uno strumento per non adagiarsi mai, per continuare a cercare e per affinare la pratica della trasformazione, ascoltando i tempi e se stessi. Una perfetta arte di formazione.
Tale arte del paradosso, affascinante seppur disorientante - e forse proprio per questo preziosa - è supportata in massimo grado dall’uso della maschera.
Proprio la proposta di lavorare con la maschera fu, per noi del Teatro di Leo, una formidabile occasione di cambiamento, rivelazione e svelamento.
Già da diversi anni lavoravamo insieme, guidati da Leo in un processo di consapevolezza attoriale e politica verso la libertà creativa, passando da Shakespeare alle scritture originali, dai laboratori con altri attori alla costruzione dello Spazio della Memoria. Fatalmente ognuno di noi aveva acquisito - volente o nolente - un ‘identità artistica e una ‘nota’ creativa piuttosto riconoscibili, dentro e fuori dalla compagnia.
In Leo scattarono evidenti campanelli d’allarme. Forse lui stesso sentiva che ci stavamo abituando a suonare insieme senza interrogarci su altre vie e possibilità? Forse sentiva il rischio della ripetizione vuota di un ensamble molto affiatato e partecipe? Si interrogava più profondamente sul ruolo del teatro nel mondo e per il mondo? Vedeva delinearsi temibili meccanismi di potere, per quanto generati da stima e affetto? A me piace pensare che fosse così, appellandomi alla mia memoria e agli scritti di Leo.
Ci chiese quindi, per il Ritorno di Scaramouche, di attingere a risorse nuove e mai usate, di cercarle e affinarle. Allo stesso tempo lo chiese a sè stesso. Ci apprestavamo a ribaltare i confortanti assetti delle nostre relazioni e a trovare un nuovo luogo per la compagnia, nel mondo del teatro e fuori, come già stava avvenendo con la fuoriuscita dal Teatro Testoni e la nascita del Teatro di Leo.
Tornare a pensare alla Commedia dell’Arte, significava anche approfondire e rivedere in tutti i sensi il percorso già intrapreso: quello era un tempo nel quale era necessario che ogni attore diventasse autore, riappropriandosi di ogni mezzo del mestiere, dal testo alla creazione del personaggio, dall’allenamento fisico alla pratica dell’improvvisazione.
Era un tempo nel quale Leo sosteneva che un attore vero dovrebbe essere in grado di recitare Shakespeare alla luce del semaforo, senza protezione e con grande volontà di mescolarsi alla vita.
Cosa di più vicino a questi pensieri della Commedia dell’Arte, con il suo mistero e la sua esplosiva miscela di sublime cialtroneria e poesia concreta?
E ci mettemmo a lavorare.
Stefano Perocco di Meduna ci portò le belle e duttili maschere create dalle sue mani sempre curiose e intelligenti, Eugenio Allegri ci trasportò per cinque giorni nel mondo della Commedia dell’Arte tradotto per la contemporanità dal Tag.
A questo punto Leo, sempre così presente e artefice, ci lasciò soli, con il compito di scegliere un personaggio e improvvisarne parole e gesti. Ricordo bene come il piccolo Spazio della Memoria fosse idealmente suddiviso in ‘angoli’ per ciascuno di noi. Angoli di crisi, scoperte, scongiuri.
A conclusione di ogni giornata di prove, mostravamo i risultati della nostra ricerca, dapprima zoppicanti e incerti e poi, sotto il suo sguardo rigoroso, sempre più sicuri.
Da maestro vero, Leo cercava un equilibrio nella guida che rendesse sempre più forti e autonomi gli attori, osservando con estrema attenzione e formulando indicazioni utili per il lavoro del giorno dopo.
Per una persona timida e amante del dubbio come me, la maschera fu un’amica nemica.
Da un lato mi sussurrava protezione, dall’altro mi costringeva ad una pratica di estremo rigore dettata dalla mia stessa sensibilità. Non potevo ribellarmi a niente, nè lamentarmi con nessuno: come da uno specchio appannato che piano piano torna limpido, vedevo dipanarsi le indicazioni del cammino da fare e alla fine, attraverso la maschera e i movimenti che ne derivavano, eccomi rivelata come mai prima, e in diverse età, dai tre ai centoventi anni, e proprio da quello specchio. Altro che protezione.
Quel modo di usare la maschera mi costringeva a una spietata rivelazione dei miei pregi e soprattutto limiti. Dovevo imparare di nuovo ad usare corpo, voce e metodo di creazione.
Il rapporto con la maschera era di assoluta libertà: prendevamo dalla tradizione quello che poteva esserci utile, ma senza alcun limite nell’invenzione.
Gino Paccagnella si ritrovò come maschera un paio di occhialoni spessi....
Io scelsi d’istinto due maschere mai usate per la Commedia dell’Arte, come inconsapevole polemica nei confronti del passato, quando le donne non avevano maschere, anzi, servivano proprio come esche per il pubblico, meglio spogliate che ‘velate’. La scelta del ‘personaggio’ - mai Leo avrebbe detto questa parola! - e delle maschere fu unica. Volevo interpretare la Morte, mia ossessione da tempo, studiata, temuta, blandita, e le sue maschere per me erano la Bautta - simbolo del mondo capovolto carnevalesco, annullamento d’identità esemplare della licenza e ambivalenza sessuale e del destino che - a’ Livella! - ci fa finalmente tutti uguali e la maschera del Dottore della Peste, che evoca insieme l’incubo dell’epidemia e la possibilità di irriderne la paura vivendone sia il grottesco, sia la vitale e disperata reazione, tutta fatta di piacere e carpe diem.
Potevo anche pormi la questione del potere, rivelando nascosti pensieri della mia Morte, comico scheletrino che, temuta da tutti e da tutti blandita, piange la sua estrema solitudine.
Quante volte Stefano Perocco cercò di convincermi a cambiare la maschera Bautta in una migliore di quella che mi portò per prova: niente da fare. Lui sapeva meglio di me quanto l’attore si aggrappi alla sua maschera... ma, vero artista, continuò a lottare.
Accolsi la richiesta di Leo, buttandomi completamente in questa ricerca, inventando un allenamento fisico adeguato, spingendomi oltre la mia paura, verso tutto ciò che più temevo, dall’improvvisazione alla comicità spietata.
La relazione con gli altri si rivelò una continua scoperta: i compagni abituali diventavano altri, con la maschera. Si annullavano ogni convenzione, ogni fasullo rispetto, ogni protezione. Risultava evidente come la generosità sulla scena venisse cento e mille volte ripagata da un patrimonio di invenzioni che, partite dai singoli, si moltiplicavano in aria perchè tornassero di tutti, di chi per primo le acchiappava.
Su un piccolo palchetto da Commedia, costruito dal solerte e sempre presente Stefano Perocco, riuscivamo a danzare indiavolati tutti quanti, prendendo energia uno dall’altro e senza urtarci mai, corpo unico e selvaggio.
Forse non è un caso che tutto il lavoro precipitasse verso un duello tra Morte e Vita prima ridicolo, a suon di canzonette, e poi tragico, danzando Bach. Eravamo guerrieri, in fondo, e usavamo le nostre armi leggere perchè era necessario combattere, in quel tempo.
Lo spettacolo ebbe successo, rimase nella memoria. Si spalancarono le porte dei teatri istituzionali che, soltanto poco tempo prima, arricciavano il naso di fronte a Leo e al suo ‘teatro di ricerca’.
Lo spirito della Commedia dell’Arte ci aveva fatto il suo regalo, portando a compimento il cammino di un ensamble e facilitando la rottura di uno schema ‘di mercato’ apparentemente inattaccabile.
Quello che successe poi è un altro bel mistero da raccontare un’altra volta....
Vorrei tirare un filo sottile da quella lontana esperienza che mi proietta proprio qui, oggi: vedo con chiarezza che qui, in questa scuola, rievocare lo spirito della Maschera e della Commedia dell’Arte ha un senso profondamente artistico, politico, etico, come lo ebbe allora per Leo e tutti noi.
Il mondo del teatro deve tornare a interrogarsi, attraverso pratiche di vicinanza, studio e consapevolezza, sul suo ruolo nel nostro disordinato mondo inquieto e spaventato.
Può tornare a rivelare, attraverso lo sberleffo, i pensieri profondi che stanno nell’aria e nessuno osa formulare, può capovolgere gli assetti di potere per fare emergere una visione nuova, può creare in breve tempo legami persistenti.
L’ho sentito fortemente nel corso del mio lavoro qui: studiare tanto per osare improvvisare e capovolgere, ogni volta che sia necessario, quello che si crede si sapere per scoprire quello che non si sapeva di sapere....
Onore a chi ha voluto intraprendere e sostiene questa idea coraggiosa che ridona autorevolezza e libertà a chi pratica le arti e alla loro sostanza, irridendone la forma vuota, qui, in una scuola.
E credo che possiamo finalmente rompere gli steccati tra mondo accademico, diverse discipline, diversi saperi, attingendo reciprocamente idee e forza gli uni dagli altri - in una responsabile arte improvvisativa che, ancora una volta, non può esimersi da pensiero politico e civile.
Il richiamo ad una memoria viva in questa epoca di facile oblio e dimenticanza, ad esempio, può diventare la scoperta di non essere soli, di non esserlo mai stati.
E lo scrivo perchè c’è qui Gerardo Guccini che, da sempre, combatte ogni divisione tra chi studia il teatro e chi lo pratica, generando progetti come La pazzia di Isabella, che ci ha incoraggiato a studiare e vivere il tempo delle prime compagnie e il percorso vertiginoso dei Comici Gelosi. Là, nel lontano secolo sedicesimo, hanno potuto fare quanto a noi sembra oggi impossibile. Sono bei compagni di viaggio... e Gerardo un fantastico guastatore di ogni concezione rigida della storia del teatro! Un professore da Commedia dell’Arte insomma...
E, sempre in nome della memoria viva e della bellezza dei compagni: quando ci incontriamo, noi che abbiamo ‘mascherato’ insieme, siamo pronti a ricominciare subito, ovunque, qui e ora. Lo sanno bene i due Marchi presenti. Ed è una ricchezza che nessuno può toccare.
E bei compagni tutti voi, dai quali in questi giorni ho imparato, tornando a casa con una nuova fierezza e un poco di coraggio in più, nonostante e per, il mondo di fuori.
Con tutto il cuore,
elena bucci
14 luglio 2008
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Priorità e scelte del teatro educativo Dal Sud est asiatico molte stimolanti proposte di Vito Minoia |
(da "Teatri delle diversità" n. 46/47, ottobre 2008)
La follia, ricordando i trenta anni della legge Basaglia, il teatro in carcere e autorevoli appelli contro il razzismo, sono i temi principali a cui è dedicato il numero doppio 46/47 di "Teatri delle diversità".
Sulla follia un articolato panorama di opere teatrali di Laura Calebasso e di film a cura di Angelica Tosoni e interventi di Gianni Tibaldi, Giuliano Scabia, Peppe Dell'Acqua, Vittorio Orsenigo.
Sul carcere, cronache di due Convegni (a Firenze e a Milano) e di spettacoli e un'intervista a Rick Cluckey. Sul razzismo testi di Padre Alex Zanotelli e di Annet Henneman.
Di sei donne ci si occupa in particolare: si parla di Franca Rame e della sua nuova vita, della poesia di Alda Merini, del Dante al femminile di Lucilla Giagnoni e della scomparsa di Teresa Pomodoro e di Mina Mezzadri.
Anche Leo De Berardinis viene ricordato con scritti di Claudio Meldolesi ed Elena Bucci. E di Sabina Guidotti si pubblica un inquietante testo inedito dedicato a Giuda: "Traditore o capro espiatorio?", si chiede l'autrice.
Va anche segnalato un polemico e documentato saggio di Vito Minoia che indica la strada per nuovi metodi educativi che provengono dal sud est asiatico e in particolare dalla Cambogia.
Dal Festival cambogiano delle arti inclusive alla Conferenza dell'Unesco in novembre a Ginevra emergono le indicazioni per il futuro che deve puntare sulla concreta solidarietà
di Vito Minoia
Una rivista come “Teatri delle diversità” non può non esprimere il proprio punto di vista sul pessimismo che pervade alcuni ambienti della cultura di sinistra dopo le recenti elezioni politiche italiane che hanno visto il trionfo di una cultura neoliberista poco attenta a quelle fasce, in vario modo marginali, spesso escluse dal discorso comune.
E intende farlo sottolineando ancora una volta l’importanza e l’evidenza dello sviluppo di una cultura dell’inclusione sociale non ingabbiata in logiche regionali o nazionali. Non si tratta di filantropismo o di nobile testimonianza, ma di un modus operandi che trova la sua ragion d’essere in una vera e propria visione di carattere educativo. E, per fare ciò, deve superare quella che, citando Pasolini, potremmo definire società della “chiacchiera”. Tutto è diventato effimero e l’informazione mediatica, gestita ad arte, ‘sbriciola’ temi, contenuti e passioni, ormai con un ritmo bruciante.
E’ necessario un ‘esercizio di spirito’, possibile solo uscendo fuori dal chiacchiericcio quotidiano dei temi e degli argomenti preferiti dai mezzi di comunicazione di massa (che molte iniziative di informazione sociale farebbero meglio a non imitare) guardandosi dentro e soprattutto ‘guardandosi negli occhi’, ripersonalizzando i rapporti.
In questo numero ci occupiamo di questioni estetiche relative alle modalità del fare teatro in carcere o con persone con disagio psichico che ri-costruiscono attraverso un processo di autoconsapevolezza la propria identità, trattiamo del teatro che riesce a farci indignare di fronte a fenomeni come la camorra, la ‘ndrangheta’ o le spregevoli ingiustizie a danno di chi chiede di essere riconosciuto ‘rifugiato politico’, provenendo da Paesi retti da regimi autoritari. In questo articolo ci occupiamo anche di teatro asiatico. Lo facciamo a partire da un evento organizzato a Phnom Penh, in Cambogia, dal 23 febbraio al primo marzo scorso. “Spotlight” è il titolo dell’iniziativa: si tratta del primo festival asiatico delle ‘arti inclusive’. Hanno partecipato all’evento, prodotto dall’associazione Epic Arts e sostenuto dalla Nippon Foundation, circa 300 artisti, prevalentemente cambogiani (da Kim Sathia/danza, Kung Nai /musica, BHOR e Amrita Performing Arti/teatro), e da altri Paesi (Together Higher/danza/Vietnam, the Koshu Rao Taiko/ percussioni/Giappone), HITOMI/marionette/Giappone, Chng Soek Tin/Arti Visive/Singapore). Attraverso numerosi workshops, obiettivo del Festival è stato quello di valorizzare differenti tipi di espressione creativa in persone con abilità differenti.
Perché proprio in Cambogia? Qui una persona ogni 250 è disabile. In particolare si tratta di bambini o adolescenti vittime di migliaia di mine disseminate in una vasta area del Paese (una trentina di nuovi episodi al mese). La Regione, martoriata in passato da guerre e conflitti, anche interni (a Phnom Penh, uno dei luoghi più visitati, è il Toul Sleng, il Museo del Genocidio, per ricordare gli orrori della feroce dittatura del regime di Pol Pot) ha però una gran voglia di crescere e rivivere. Il sorriso di benvenuto ed una buona disponibilità alla relazione sono impressi sul viso della gran parte della popolazione costituita per il 40% da adolescenti sotto i 14 anni. Se aggiungiamo i tantissimi casi di malattia provocata da una estesa povertà sociale e i crescenti incidenti sul lavoro, comprendiamo il perché la convivenza con la disabilità qui sia vissuta comunemente. E’ accolta come un ‘karma negativo’. Le ‘arti inclusive’, in questa direzione, offrono un aiuto educativo-formativo per il superamento di discriminazioni nei confronti delle persone disabili. Nella capitale cambogiana si respira il rifiorire di una certa vitalità artistica dovuta al recupero di tradizioni espressive (musica e danza) vietatissime sotto il regime dei khmer rossi (è particolarmente noto il caso del musicista non vedente Kong Nai che è riuscito a preservare le sonorità del chapey (uno strumento a corda con collo lungo e aggraziato, suonato come un banjo crea un contrappunto ripetitivo per poemi o canzoni improvvisate): rischiavano di essere perdute per sempre. In città già da diversi anni operano esperienze come quella della Compagnia Sovanna Puhm (con attività basata sul recupero del teatro d’ombre di tradizione) o di Phare Ponleu Selpak (con attività di circo, musica, arti grafiche) che sono riuscite a strappare a un tragico destino centinaia di ragazzi di strada abbandonati.
Eppure un futuro molto incerto rischia di abbattersi sul Paese e quindi su tutte queste interessanti ‘esperienze di frontiera’, che riconosciamo come veri agenti di cambiamento socio culturale. Un clima di crescente benessere, che si respira per le strade di una pur non ancora occidentalizzata Phnom Penh, anziché dispensare una maggiore uguaglianza sociale, sta producendo nuova povertà e nuove fasce di marginalità sociale. Una dilagante corruzione sta trasformando una Nazione ricca di tradizioni millenarie in un Paese in vendita in mano a speculatori stranieri [1].
Anche qui si assiste alle conseguenze (in questo caso a dir poco ‘estreme’) di una concezione economicista e neoliberista della società.
Torniamo a dire che esiste un problema, che è di fondo e che deve essere affrontato sul piano educativo, innanzitutto. Le alternative sono possibili in Cambogia, come in Italia. Si tratta di operare delle scelte.
Se sviluppassimo un’analisi parallela sul piano della concezione pubblica dell’educazione in due sedi differenti come possono essere quella della Banca Mondiale (espressione di quella concezione neoliberista che non condividiamo) e quella dell’UNESCO (espressione dell’educazione della scienza e della cultura in termini maggiormente solidaristici) ci imbatteremmo nello stesso dilemma. Recentemente Mariangela Vigotti e Mariano Dolci, mettendo in luce rischiose analogie di deriva economicista, con quanto sta accadendo alla scuola e all’Università in Italia hanno tradotto dal catalano un libretto illuminante (contiamo di divulgarlo ulteriormente anche attraverso le pagine di questa rivista) di Miquel Soler Roca [2]. L’autore, un maestro ormai in pensione da molti anni, rilegge criticamente due documenti: Priorità e strategie dell’educazione, l’esame della Banca Mondiale del 1994 e L’educazione racchiude un tesoro (1996) redatta da una Commissione UNESCO presieduta da Jacques Delors e ne evince “due visioni decisamente antagoniste dell’educazione”.
Un teatro educativo e sociale, dal nostro punto di vista, non può essere avulso da istanze di carattere solidaristico e da una concezione della persona come essere sociale e non come elemento produttivo votato al rendimento.
In questa prospettiva Paesi ricchi continuano a sottomettere ulteriormente Paesi in via di sviluppo, con meccanismi che inducono questi ultimi a contrarre ingenti debiti e a subire condanne alla miseria, fame ed esclusione sociale di buona parte della propria popolazione. Ci piace a questo riguardo citare, dal saggio di Soler Roca, un passo della Commissione Delors che condividiamo:
“I Paesi ricchi non possono ignorare l’imperiosa esigenza di una solidarietà internazionale attiva per garantire il futuro comune attraverso un progressivo raggiungimento di un mondo più giusto.. aiutare a trasformare una interdipendenza di fatto in una solidarietà desiderata è uno degli obiettivi essenziali dell’educazione”.
E’ in questa idea di educazione che si riflettono e prendono vita le esperienze dei Teatri delle diversità che auspichiamo.
Un esempio? Non vogliamo riportare nomi di artisti o gruppi teatrali professionali troppo spesso identificati come punti di riferimento di un “nuovo teatro” (a volte autoreferenziali perchè ricattati dalla necessità di emergere per sopravvivere attraverso logiche assistenziali o di mercato).
Per rimanere in Cambogia, o maggiormente ancorati al piano educativo, possiamo citare l’esperienza di quattro giovani illustratori francesi. Chan, (di origine khmer, rifugiatosi con la sua famiglia a Lione per sfuggire alla guerra civile nel 1980 quando aveva sei anni), Lucie, Lisa e Sylvain, mettono a punto un progetto educativo di “teatro illustrato” (Lakhorn Kou in lingua khmer) rivolto ai bambini cambogiani audiolesi [3].
Un secondo esempio? I progetti teatrali di Gian Maie Zabrè , ospite il 25 ottobre al Convegno di Cartoceto su “I teatri delle diversità” e della Compagnia “La Parole” di Ouagadougou (Burkina Faso) impegnati con l’utilizzo del teatro in campagne di prevenzione dell’AIDS [4].
E a chi continua ad essere indignato dopo aver seguito l’ennesimo notiziario radio-televisivo (ormai anche la gran parte dell’ informazione giornalistica in internet si sta adeguando alle ben artefatte procedure d’ipnosi mediatica) consigliamo la lettura di una delle poche voci autorevoli che continuano a farci credere nella possibilità di un cambiamento ‘solidaristico’. Si tratta dell’economista francese Serge Latouche (tratteremo nel prossimo numero della rivista in modo più ampio il lavoro dell’accademico all’Università di Parigi-Sud) che ha recentemente scritto un Breve trattato sulla decrescita serena [5], indicando, controcorrente, come “produrre meno e consumare meno” siano l’unico modo per evitare una catastrofe ecologica e umana.
Chiudiamo, in modo positivo, ricordando che l’UNESCO si accinge a celebrare (i preparativi fervono già da due anni) a Ginevra (dal 25 al 28 novembre) la quarantottesima sessione della Conferenza Internazionale sull’Educazione dal titolo: Educazione Inclusiva: la strada del futuro. Evviva, un po’ di ottimismo!
NOTE AL TESTO
(1) Rinvio alle pagine del dettagliatissimo reportage curato da Adrian Levy e Cathy Scott Clark del Britannico “The Guardian”, ripubblicate in Italia nel numero 759 del settimanale “Internazionale” del 29 agosto scorso.
(2) Due visioni antagoniste della educazione, pubblicato nel 1998 dal Centro Unesco de Catalunya. La versione originale in lingua castigliana era stata pubblicata nella rivista “Voces”, dell’Associazione Educatori dell’America Latina e del Carybe (Montevideo, dicembre 1997).
(3) Si veda la recente traduzione italiana di Sept mois au Cambodge (Sette mesi in Cambogia, FBE edizioni, Rodengo Saiano, Brescia, 2007) a documentazione del progetto.
(4) Si veda l’articolo Nel Paese più povero del mondo, molte ricche idee di Mariano Dolci nel numero 45 di “Teatri delle diversità”, aprile 2008.
(5) Traduzione italiana pubblicata da Bollati Boringhieri, Torino, 2008.
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Per un teatro plurale In risposta a La fine del (nuovo) teatro di Franco D'Ippolito |
Caro Oliviero,
ho letto il tuo intevento La fine del (nuovo) teatro italiano e ne condivido l'analisi spietata e concreta, insieme al disincanto per il lavoro fatto. E' vero che molto, molto poco si è riusciti a muovere nel torpore del teatro italiano, che nulla è veramente cambiato negli ultimi anni (anche le questioni finanziarie sono sempre le stesse). E anche ateatro, a parte alcuni sobbalzi di partecipazione e di dibattito, si è ritrovato impantanato nello stagno dove gracidano le rane, ma nessuna si muove (penso anche alle piccole innocenti questioni personali che a volte hanno attraversato la redazione).
Ma se tutto questo è vero, il problema non è certo tutto questo, quanto come uscirne. Un piccolo arretramento, certo, quel passo indietro che tutti dovremmo fare (ma per carità, non tutti insieme, perchè anche i passi sono diversi e c'è chi deve farne uno lungo e chi invece uno piccolo). Ma verso dove? e con chi? e perchè?
Avrei caro leggere un altro tuo intervento, per la lucidità che ti è propria (e, non ultimo, per il tuo essere così vicino al teatro ma estraneo al tran tran quotidiano), su una ipotesi di cammino verso un fare teatro plurale, che dia "pari dignità" a tanti (ma non a tutti, perchè secondo me oggi una delle questioni più grosse è proprio quella che non si può continuare a fare figli del palcoscenico senza padri nè madri) e che conquisti finalmente una dimensione di "lavoro" (senza pippe) fatto assai normalmente ogni giorno.
Mi manca ateatro, la libertà che ho avuto con voi, ma sono certo che avrai condiviso la mia scelta (obbligata eticamente) di astenermi dopo aver assunto un ruolo ufficiale in un teatro ufficiale: da quel momento non potevo essere un soggetto di ateatro, ero diventato un oggetto di analisi e di critica.
Ti abbraccio con tanto affetto.
Franco
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Pensare insieme? In risposta a La fine del (nuovo) teatro di Marco Martinelli |
1° settembre 2008
Caro Oliviero
ho letto solo due giorni fa il tuo intervento su ateatro. Che non è una "provocazione", almeno a me non pare giusto definirlo così: è invece una "lettura" dell'oggi per molti aspetti condivisibile, per altri discutibile. E forse è proprio lì il punto: il discutere, il trovare (inventare) occasioni vere di discussione e confronto. Forse più che incontrarci ancora per raccontare le "buone pratiche" (ricordo il tuo entusiasmo alla fine del primo appuntamento delle buone pratiche, che non era un'epoca fa... voglio dire, quelle "buone pratiche" stanno continuando a farsi ancora, anche nell'era berlusconiana che stiamo vivendo, no?) forse bisognerebbe confrontarci sui "giusti pensieri" che occorrono per affrontare l'oggi. E' evidente che gli uni (i pensieri) non sono mai separati dalle altre (le pratiche), e quindi confrontarsi in profondo sugli uni ci porta a riflettere sulle altre, e viceversa. Ma credo che abbiamo bisogno di "pensare insieme" il buio del presente ( e il tuo intervento me lo conferma, anch'io penso e opero a partire da un "noi" coincidente con quello stesso "noi" dal quale tu stesso, mi sembra, rifletti e scrivi).
Come far questo, qui è il nodo: con quale "forma". Convegno allargato o seminario ristretto? Forse il primo è più "democratico (ma rischia la superficialità del quarto d'ora a testa...), forse il secondo permette maggiormente la profondità, il confronto (ma chi sceglie chi?). Oppure dibattito scritto su ateatro a partire da domande precise della redazione? Penso a quel numero "mitico" di Sipario, mi pare del '67, in cui si chiamarono gli scrittori a parlare del loro rapporto con il teatro, con la scena.
Gobetti scrisse: Amici, la lotta tra serietà e dannunzianesimo è antica e senza rimedio.
E' evidente che (con tutta l'ironia e la levità e il senso del paradosso e del patafisico che amiamo, e che peraltro ci è imposto da un'epoca in cui il potere stesso è paradossale e ubuesco) il fronte dal quale pensiamo e operiamo è quello della "serietà" di chi intende continuare a "lottare".
Un abbraccio forte! Da me e da Ermanna!
Marco
P.S. La mia lettera non aggiunge altre cose che vorrei dirti sul tuo intervento, insomma, non ho il tempo di entrare nello "specifico" perchè siamo quotidianamente in prova per il nuovo lavoro che debutterà a metà ottobre.
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Una rete dei nuovi progetti In risposta a La fine del (nuovo) teatro di Teresa Bettarini |
3 settembre 2008
Buongiorno Oliviero,
Ho guardato il sito di ateatro e ho visto che con il numero di agosto ci hai consegnato un bellissimo intervento. L’analisi, lucida e approfondita, che fai della situazione del teatro (ma non solo), gli interventi di politica culturale della sinistra che ripercorri dal dopoguerra fino agli ultimi anni, le nuove forme di teatro, il sistema teatrale, le prassi… non possono che trovarmi concorde. Cosi’ come concordo con le conclusioni: siamo ad un punto di arrivo, o riusciamo a svoltare, oppure non ci rimane che una resa incondizionata.
Un messaggio di allarme che ormai sta arrivando da più parti, un sentimento diffuso, sotto pelle. E sempre piu’ cogente la domanda: che fare?
Hai ragione Oliviero: che fare? Siamo in un’epoca “straordinaria”. Se Serena Sinigaglia avesse voglia di aggiungere un quarto capitolo alla sua Trilogia sulle epoche straordinarie, dopo il ’48, il ’68 e l’89 dovrebbe sicuramente occuparsi del 2008. Colpisce la scansione in ventenni di questi momenti, la ciclicita’. Ad ognuna di queste epoche e’ seguito un momento di apertura; di nuove idee e anche di nuove frontiere, di nuovi mercati. Una ripresa economica e culturale. Speriamo che anche questa volta si riesca ad uscire dal tunnel.
Il momento e’ complesso, siamo di fronte ad una crisi che coinvolge tutti i settori del vivere sociale.
E’ in crisi l’economia occidentale , e anche il concetto di globalizzazione che e’ stato l’elemento trainante (culturalmente ed economicamente) degli ultimi decenni, finisce per assumere connotati farseschi nel momento in cui l’Occidente (e gli Stati Uniti in primis) sono di fronte alla piu’ preoccupante recessione dagli inizi del Novecento a oggi. A cui si contrappone lo sviluppo dei paesi asiatici.
Siamo di fronte ad una crisi ambientalistica frutto di una industrializzazione selvaggia.
Siamo di fronte ad una crisi politica, con il pericolo dell’accendersi di un nuovo fronte Stati Uniti/ Russia (e l’Europa? Che fine hanno fatto l’unita’ e la coalizione dell’Europa?) che verrebbe a sovrapporsi allo scenario già “caldo” del Medio Oriente.
Siamo di fronte ( e in Italia piu’ che altrove) ad un fenomeno di flussi migratori di straordinaria portata, con conseguenti problematiche di ordine sociale e di integrazione culturale , per cui gli stessi concetti di identita’ culturale vacillano di fronte alla nuova realtà delle nostre città.
Siamo di fronte a una crisi del concetto di unita’ nazionale.
Siamo di fronte alla crisi dei modelli settecenteschi di democrazia elettiva.
Siamo di fronte al riaccendersi di integralismi religiosi in un momento in cui la religione viene a rappresentare l’unico messaggio forte da un punto di vista culturale ed etico, nel momento in cui assurge (di nuovo) a ideologia trainante nei processi di identità e di conflitto fra popoli.
Momenti di crisi come questo avrebbero bisogno di uomini eccezionali per governarli, che non compaiono all’orizzonte.
Cosa può fare il teatro, cosa può fare la cultura?
Come sottolinei nel tuo intervento, il teatro italiano negli ultimi anni è venuto progressivamente ad assumere un ruolo sempre più “celebrativo” e “autoreferenziale”. Se la politica della sinistra in ambito culturale negli anni Cinquanta e Settanta è stata una politica centrata sulla diffusione dell’istruzione, della cultura come “servizio pubblico”, negli ultimi anni abbiamo assistito ad una politica di “Grandi Eventi”.
La cultura è venuta a conformarsi sempre più ai meccanismi del sistema produttivo: l’industria della cultura. Le energie organizzative sempre più appesantite da un lavoro quotidiano sui parametri di mercato, di distribuzione, il marketing, sul rapporto costi-ricavi. Gli eventi visti come motori di sviluppo turistico e occupazionale.
Aspetti che non voglio demonizzare: e’ inevitabile che in una società’ contemporanea, e nei paesi europei in modo particolare, la cultura debba assolvere anche a questi compiti e che debba essere una forma di investimento e di occupazione.
Non può però abdicare a un altro compito: aiutare a interpretare il contemporaneo ricercando nuove modalità di sviluppo e di convivenza.
Un ruolo un tempo caro alla sinistra che si rivolgeva agli intellettuali chiedendo loro di assolvere in primis a questo.
Citi nel tuo articolo alcuni esempi di teatro politico degli ultimi anni: da Beppe Grillo ad Ascanio Celestini. Potremmo citare anche i best seller Gomorra e La Casta. Espressioni culturali che hanno denunciato situazioni di malcostume, di camorra, di corruzione del nostre Paese, divulgando le notizie a un pubblico vasto. Ma che rischiano di perdere incisività nel momento in cui diventano “prodotti di largo consumo”. Un consumo veloce, che ingurgita, digerisce, espelle, ma non metabolizza, non sedimenta.
Credo che ci sia bisogno di un passo avanti, che ci sia la necessità di analisi più approfondite, come tu proponi. Che ci sia la necessità di inventare nuove forme di comunicazione, nuove modalità di informazione e di apprendimento. Di ricreare un tessuto di rapporti, di confronto, ormai totalmente sfilacciato.
Un “fronte più arretrato”? “Isole felici”? Forse si.
Non ho ricette. Forse dovremmo pensare a delle azioni che possano aiutare a rompere il muro che si frappone fra questa molteplicità di individualismi arresi.
Dovremmo cercare di costruire una rete dei nuovi progetti.
E allora, una rivista, un magazine è strumento di primaria importanza.
Capisco la pesantezza di un lavoro portato avanti in questi anni con molta passione, rigore professionale, fatica personale. Capisco i dubbi sull’utilita’ di questo lavoro in un momento in cui tutto sembra ruotare in senso contrario. Ma proprio per questo c’è bisogno di strumenti, di progetti che possano fungere anche da collante, da catalizzatore di un dibattito, di nuovi percorsi.
Perdona la passionalità e forse anche la banalità di questo mio scritto.
Non ho la pretesa che possa essere di aiuto alla redazione per ritrovare il senso, e la forza, di ripartire a settembre con rinnovate energie per il prossimo appuntamento de Le Buone Pratiche. Ma lo auguro vivamente.
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ateatro come laboratorio “inutile” di idee per una nuova cultura teatrale del futuro remoto In risposta a La fine del (nuovo) teatro di Andrea Balzola |
L’intervento estivo di Oliviero Ponte di Pino sulla Fine del (nuovo) teatro italiano offre un’analisi lucida e spietata che condivido pienamente e pone degli interrogativi a cui sarebbe importante, nei limiti della nostra personale visuale, tentare di dare risposta o eventualmente articolare con ulteriori domande. Mi riferisco soprattutto a coloro che in questi otto anni di ateatro hanno partecipato attivamente alle discussioni che la rivista ha cercato di innescare. E naturalmente invito a farlo anche quei molti lettori silenziosi ma assidui che ci hanno seguito.
Come Oliviero sa, io comprendo la grande, talvolta insopportabile, fatica di portare avanti per puro “volontariato culturale” un progetto come quello di una rivista, per quanto ridotta all’osso nella sua grafica, libera e informale nella sua conformazione, nei suoi contributi e persino nella sua periodicità. Oggi occuparsi di cultura in generale, e in particolare di “cultura teatrale”, costa molto e paga poco o nulla. Come un agricoltore che da anni lavora per arare e fertilizzare la terra, che da anni semina e non ha mai un raccolto.
E’ entrato da tempo in crisi anche il rapporto dialettico, in decenni passati vitalmente polemico, fatto di odi e amori, di grandi intuizioni e anche di grandi cantonate, che esisteva tra i creatori e i critici, tra autori e studiosi. Oggi le recensioni che contano sono quelle dei quotidiani, sempre più ridotte a finestrelle telegrafiche che nonostante l’intelligenza e l’abilità dei loro redattori non hanno più nulla a che fare con le caratteristiche della vecchia recensione. Fare una recensione equivale a esercitare un piccolo potere, variabile in relazione alla diffusione e al prestigio della testata, e ricevere una recensione favorevole equivale a un aumento di punteggio nell’indice di gradimento di enti e organizzazioni teatrali. Niente più a che vedere con lo sviluppo di un dibattito estetico, culturale, etico-politico.
La stra-vittoria della Destra in Italia, una Destra neo-populista (populismo mediatico), con componenti estremiste xenofobe o intimamente nostalgiche del nero ventennio (assolutamente atipica in Europa come Destra di governo), come segnalava il Moretti del Caimano, è stata prima ancora una vittoria sulla cultura della sinistra e poi una liquidazione della politica di sinistra.
La sinistra che dal dopoguerra ha in Italia oggettivamente, e con indubbio prestigio per molte stagioni, egemonizzato la cultura – e il teatro – ha anche creato dall’interno le condizioni della disfatta “culturale”, poco alla volta, come un esercito di tarli lentamente e inesorabilmente al lavoro. Il nodo di tutto io credo si trovi nella perdita del modello etico che caratterizzava la cultura di sinistra fino agli anni Settanta-Ottanta, c’era una cultura di sinistra ideologica, dogmatica, come ironizzava Longanesi perfino “trina ricciuta”, e c’era una cultura di sinistra minoritaria, ma molto “rumorosa”, indipendente, coraggiosa nell’andare controcorrente, quella dei Pasolini, Sciascia, Flaiano, Fo, Bene, etc, ma c’era anche un denominatore comune: i valori etici di riferimento, il rigore e la coerenza dei comportamenti e della deontologia professionale, gli intellettuali e gli artisti rischiavano forti danni economici, denunce, processi, aggressioni, persino la vita per sostenere le loro idee, frequentavano anche i buoni salotti e qualche volta gli studi televisivi ma non ne facevano l’unica sede della loro esperienza sociale.
In seguito alla grande Paura del terrorismo e allo sfaldarsi delle istanze radicali di massa, la cultura di sinistra è stata quasi completamente assorbita dalle istituzioni: gli enti pubblici, le università, i teatri stabili, le grandi testate giornalistiche e i grandi gruppi editoriali, i grandi network televisivi, i partiti. Dalle pratiche culturali al potere culturale. E qui, mi dispiace per l’onorevole Andreotti, ma il potere “logora chi ce l’ha”, può sicuramente annientare chi non ce l’ha, ma piega alle sue leggi chi lo detiene, soprattutto se in modo egemonico, il potere spersonalizza chi lo detiene, cosa nota da millenni. Alla Sinistra è accaduto questo: trasformare l’egemonia culturale in un potere sulla cultura, di fronte a un tale fine si sono potuti giustificare mezzi fino allora impensati e impensabili: manipolare i concorsi universitari e trasformare in un Risiko baronale l’assegnazione delle cattedre e dei posti da ricercatori; gestire in modo “carismatico” (di fatto nepotista) le grandi istituzioni teatrali, costruendo cartelloni con asettici scambi di produzioni tra gli Stabili, riducendo al minimo gli spazi della ricerca; lottizzare la direzione delle televisioni; privilegiare nella promozione mediatica ma anche nei finanziamenti pubblici intellettuali e artisti di partito (o simpatizzanti); usare l’esercizio della critica in modo più funzionale alla prospettiva di creare e pilotare un’imprenditoria culturale per gestire festival, rassegne e teatri.
In questo modo si è progressivamente soffocato l’humus culturale che nasce e cresce in un habitat favorito dalla libertà, dalla curiosità, dallo scambio anche polemico, dal contatto diretto con le realtà sociali, con le tensioni e le contraddizioni del paese reale. Sovrapponendovi una Rete, sicuramente più efficiente ma sedativa, di centri di potere, grandi e piccoli, ognuno occupato da un clan e dalla sua dinastia, in costante contrattazione di spazi, di fondi e di canali mediatici, fino a far prevalere la logica del “come fare” sulla qualità del “cosa fare”. Fino a organizzare preventivamente le stagioni teatrali secondo modelli che sembrano provenire dal mondo della moda: un anno va la “narrazione civile”, l’anno dopo “il teatro di movimento”, etc.
Se questa è la logica, a cui fortunatamente sfuggono sempre delle “Buone pratiche” (come hanno testimoniato le iniziative di ateatro) e che non riesce a spegnere definitivamente lo spirito avventuroso degli artisti affetti dal recidivo morbo della ricerca, si capisce come non ci sia ascolto possibile per un dibattito “vecchio stile” sulla cultura teatrale promosso da una rivista come ateatro e nemmeno per le denunce indignate verso la logica delle spartizioni di potere e di fondi documentate dalla stessa rivista. Siamo in un paese dove non c’è più la capacità di scandalizzarsi e di indignarsi, i pochissimi che lo fanno vengono considerati dei “fanatici rompicoglioni”, dove la moralità è diventata una parola vuota che non corrisponde più a comportamenti e reazioni effettive, concrete. Persino la Magistratura dovrebbe astenersi, secondo molti, dal perseguire i comportamenti illeciti dei potenti. E questo forse ce l’ha insegnato la vecchia DC e Berlusconi ne è diventato paladino e maestro, ma la Sinistra l’ha imparato benissimo: quando di fronte all’evidenza delle responsabilità di Bassolino (non l’unico ma certo uno dei più rappresentativi responsabili) nello scandalo dei rifiuti in Campania, il leader del “rinnovamento della politica italiana”, di un partito proiettato al futuro come il PD, non solo ha ignorato la necessità di chiederne le dimissioni ma a chiusura della campagna elettorale ha addirittura chiesto alla gente di Napoli di applaudirlo per il “bene fatto alla Campania” (quella stessa Campania in ostaggio del Sistema Camorra, così coraggiosamente descritto da Saviano), allora i principi morali diventano una pura formalità oratoria. E sono sempre meno credibili per la gente, danno spazio alle invettive a 360° di Grillo e la vecchia “maggioranza silenziosa” finisce per preferire il modello berlusconiano della furbizia vincente, della legge del più forte in un’assenza dichiarata di regole morali.
Così come credo che nella politica sia necessario ripartire dalle molteplici esperienze concrete sul territorio, dal lavoro tenace e costruttivo dell’associazionismo e di molto volontariato, dall’impegno di molti onesti amministratori locali, credo che nel teatro e nella cultura teatrale sia necessario da una parte continuare a monitorare e mettere in relazione le “buone pratiche”, magari arrivando a un’elaborazione teorica di modelli alternativi di organizzazione e produzione artistica, e dall’altra parte avviare un processo di “purificazione morale” (termine che farà ridere alcuni e spaventerà altri, ma non riesco a trovarne uno migliore) e di rifondazione teorica del ruolo che il teatro oggi non ha e che invece potrebbe avere, riacquistare, nella società. Esperienze apparentemente marginali come il teatro nelle carceri (Volterra, Tam Teatro, etc) o il teatro con i disabili mentali e fisici, e alcune esperienze di integrazione etnoculturale (dalle Albe a Marco Baliani) o psicosociale (Delbono), hanno dimostrato una straordinaria incisività dell’esperienza teatrale sulla vita delle persone coinvolte e anche una capacità di comunicare al pubblico questa intensità. Uscendo dalla catena di montaggio delle produzioni teatrali seriali, del ritorno alla retorica del capocomicato, e dalle trasposizioni in palcoscenico degli sketch o degli show televisivi. Il teatro è nella sua essenza laboratorio antropologico, luogo di elaborazione delle utopie e dei lutti sociali, luogo di sperimentazione espressiva, di ricerca di nuovi linguaggi e di nuove commistioni tra essi, luogo dove lo scenario tecnologico nel quale oggi siamo immersi dovrebbe disvelare i suoi meccanismi, le sue potenzialità e i suoi condizionamenti interpretando il futuro. Che funzione allora può avere una piccola piazza elettronica dove pochi cocciuti osservatori, studiosi, ricercatori e artefici di un’idea alternativa di cultura teatrale e di pratiche teatrali, si ritrovano per discuterne, offrendo ai lettori informazioni e punti di vista non allineati? Non una funzione utile nel senso di un possibile riscontro nei nodi di potere della cultura teatrale, sempre più sordi a una visione di medio lungo periodo e ancorati con gli artigli ai loro orticelli, ma una funzione inutile – nel senso che non ha presunzione di risultati concreti immediati - di confronto, di dialogo, intorno a qualcosa – il teatro – che nonostante tutto, misteriosamente, continua da avere un’anima e sue molteplici, imprevedibili manifestazioni. Forse, se la cultura della sinistra si è mummificata proprio per inseguire costantemente una finalità utile, rinunciando progressivamente anche a ogni forma di principio morale per raggiungere gli obiettivi del potere culturale, allora una pratica del digiuno di potere (noi non abbiamo mai avuto tale potere ma abbiamo avuto la velleità di rivolgerci a coloro che ce l’hanno), di “purificazione” dal finalismo del discorso culturale, un nuovo liberatorio senso dell’inutile, un ritorno ai contenuti puri. Perché è da qui che si può lentamente ricostruire un senso dell’operare, la sensazione che si ha in Italia – diversamente da ciò che accade fuori dai nostri confini – è che domini la stanchezza, la demotivazione a confrontarsi e a progettare, la sfiducia nella possibilità di un cambiamento, gli artisti non si parlano tra loro, ognuno tira avanti faticosamente il proprio carro, molti emigrano in cerca di una fortuna (che è in realtà riconoscimento e stima) molto più probabile all’estero, parlano poco anche con i critici, spesso ne dipendono ma con insofferenza, gli operatori vivono nella diffidenza che qualcuno li sostituisca o nell’incubo che i fondi siano “ulteriormente” tagliati, molti sono esasperati dalle infinite anticamere che devono subire per avere udienza dall’assessore di turno, anche dopo anni di valida attività. Domina la stanchezza, la fatica, la perdita di entusiasmo, la speranza in un futuro diverso. Perché la palude è ormai troppo estesa e ramificata, starci fuori significa rinunciare a esserci, starci dentro significa subire continue umiliazioni e delusioni, in ogni caso corrompere, offuscare la propria identità artistica ed etica.
Allora può forse essere utile fermarsi a riflettere, individualmente e collettivamente, riprendersi lo spazio e il tempo di parlarsi aldilà degli schieramenti e dei clan (il cui potere si riduce sempre più), ragionare sui contenuti del lavoro artistico – nel nostro caso teatrale – nell’attuale contesto, riflettere sulla sua necessità, sull’impatto che non ha e che invece dovrebbe avere sulla società, su come i linguaggi stiano cambiando, soprattutto con l’imporsi dei new media e delle nuove tecnologie, su come anche le forme e i formati stessi dello spettacolo stiano mutando, creando inedite trasversalità con la Rete, con le arti visive, con il cinema e l’animazione digitali… Se in Italia la dimensione concreta della produzione e della distribuzione teatrale attuale è sconfortante e regressiva dovrebbe invece destare grande curiosità ed entusiasmo la trasformazione accelerata dei nuovi linguaggi, basterebbe alzare un po’ la testa e guardare oltre gli scenari casalinghi per accorgersi che una nuova era del teatro è già nata, se in Italia non se ne accorgono, per ignoranza o per pigrizia, questo non significa che non sia reale. Quindi è questo che propongo ad ateatro di diventare – e in un certo di continuare ad essere (in gran parte è già nel suo dna) - : un laboratorio “inutile” di idee per una nuova cultura teatrale del futuro remoto.
Passo e chiudo.
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Binario unico In risposta a La fine del (nuovo) teatro di Franco D’Ippolito |
Davanti al porto di Gallipoli termina la ferrovia Sud-Est che collega Bari alla città salentina; il binario unico finisce lì, con una transenna d’acciaio e i respingenti dei binari morti. Dopo c’è solo il mare, avanti non si va, si può solo tornare indietro e poi ripartire sulla stessa strada per ritornare a fermarsi lì.
Anche il sistema teatrale italiano (inteso nel senso più ampio della creatività, della strategia organizzativa, delle capacità di sopravvivenza economica) è ad un punto di stallo, non può proseguire sulla stessa strada degli ultimi 30 anni. Possiamo solo fermarci o tornare indietro, a meno di non voler cambiare strada e mezzo di locomozione. Temo che si stia optando silenziosamente per la prima delle due ipotesi.
I tagli al FUS (e quelli che questa finanziaria determinerà nei bilanci regionali e degli Enti Locali) sono solo il sintomo più evidente dell’abbandono del teatro italiano alle proprie responsabilità, ai propri ritardi, alle proprie difficoltà, ma anche dell’incosciente ignoranza del fatto che il teatro d’arte italiano è il miglior teatro che si fa in Europa ed il peggio gestito e governato. Qualcuno che conta sta pensando che fra paure e speranze, dopotutto se ne può anche fare a meno.
Non si può negare che anche lo spettacolo italiano debba contribuire alla razionalizzazione della spesa pubblica, ma non sembra a tutti demente tagliare risorse trasversalmente senza un disegno riformatore? Forse la logica è quella che, passati i tempi magri, si ricomincia poi dal punto interrotto, a reiterare mancate scelte, difese inefficaci, falsi parametri qualitativi?
Chi ha la responsabilità di governare la difficile situazione attraverso gli strumenti normativi e delle sovvenzioni (maggioranza e opposizione) non può limitarsi a far quadrare i conti, altrimenti basterebbe un buon ragioniere, non ministri ed assessori. Si senta il dovere (insieme a tutti gli attori del sistema) di cercare nuove strade e diversi mezzi di locomozione, che creino le condizioni perché si possa ripartire secondo criteri, modalità, obiettivi nuovi e contemporanei.
Sarà una nuova ripartizione di funzioni e di finanziamenti fra Stato e Regioni? O la ridefinizione dei soggetti dello spettacolo per obiettivi culturali assegnati anziché per statuti? O la valutazione dei risultati anziché del progetto preventivo, modificando radicalmente il desueto sistema quanti/qualitativo? O, ancora, un sostegno pubblico in buona parte costituito da sgravi fiscali e fiscalità di vantaggio? O altre proposte ancora? Ma o ci costringiamo a ragionarci su mentre si fanno i conti, con coraggio e senza corporativismi, oppure, credetemi, non ci resta che guardare il meraviglioso mare di Gallipoli, fermi per sempre o destinati solo a poter tornare indietro.
Milano, 19 ottobre 2008
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Ricominciamo da Leo? In risposta a La fine del (nuovo) teatro di Mario Martone |
In questo settembre mi trovo a Madrid per lavoro. Qualche giorno fa ho ricevuto diversi messaggi di saluto che, facendo riferimento al fatto che fossi lì, sottolineavano quanto l’Italia sia sempre più triste, abbrutita, incattivita: beato te che sei in Spagna!
Oggi ho preso l’aereo per tornare due giorni a Roma, e ho portato con me un po’ di cose da leggere, per ultima un intervento recente del critico teatrale Oliviero Ponte di Pino che si intitola La fine del (nuovo) teatro italiano, un’amara riflessione sul rapporto tra il teatro e il paese: nonostante decenni di slanci vitali gli artisti non sono riusciti a incidere sulla coscienza di un paese che è profondamente involuto culturalmente (e qui per cultura si intende vita, non letteratura).
Finito di leggerlo, l’aereo è atterrato, ho riacceso il telefonino e ho saputo che Leo è morto. Si è dunque conclusa l’ultima vita di Leo, che di vite ne ha avute tante: quella meravigliosa e folle al fianco di Perla Peragallo, quella della disintossicazione dall’alcool, quella dei grandi testi messi in scena integralmente, quella del rinnovato rapporto creativo con la tradizione, (Eduardo come Pirandello), quella dei grandi affreschi storici come Novecento e mille, quella civile da direttore di Santarcangelo, e in ultimo quella dell’improvvisa sospensione, la vita nel coma, una vita misteriosa in cui, nonostante lo stato di incoscienza, il romanzo di Leo è andato avanti fino a fargli rincontrare Perla, tornando a vivere da lei e con lei, Perla che se ne è andata poco più di un anno fa. La famiglia, le persone che lo hanno amato, gli artisti, tanti, che gli devono tutto, non lo hanno mai abbandonato.
A me ha colpito molto il tempo in cui questa ultima vita di Leo si è svolta: un tempo in cui Leo De Berardinis ha fatto pesare il suo silenzio. L’arte di Leo è sempre stata politica, quale fosse la forma che prendeva, altamente politica. Si occupava non di attori, ma di uomini che erano attori, e dunque il suo magistero riguardava l’intera esperienza umana e civile in cui l’arte della recitazione prendeva forma. Tante sono state le sue parole in proposito, ed avrà grande importanza nel prossimo futuro riascoltarle: ma negli ultimi tempi sembravano parole al vento.
Chi fa teatro non è come chi fa pittura, o musica, chi fa teatro deve condividere una lingua con i suoi concittadini, e se questi concittadini si fanno sempre più sordi, l’attore fa risuonare parole senza scambio, senza vita. Leo ha smesso di parlare. Ci ha lasciato per anni e anni in un angosciante e significativo silenzio. Ora è finito anche quello. Leo è stato un grande del Novecento, un paese alla sua altezza dovrebbe ricordarlo con gratitudine e amore. Che bello sarebbe pensare che dalle sue ceneri potesse rinascere il (nuovo) teatro italiano, cioè un paese diverso.
"Il Mattino", settembre 2008
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Le Buone Pratiche della Resistenza (con spunti di ottimismo) In risposta a La fine del (nuovo) teatro di Mimma Gallina |
Era una notte buia e tempestosa. Mi sembra un buon inizio: intanto perché descrive la situazione, poi perché da quando è uscito il pezzo di Oliviero Ponte di Pino “La fine del (nuovo) teatro italiano”, ormai tre mesi fa, mi trovo come Snoopy davanti al foglio bianco: i miei pensieri sono frammentari e non so come cominciare. Il punto è che condivido quell’analisi quasi al cento per cento, ma vorrei anche fornire spunti per andare avanti.
E’ una notte buia e tempestosa, quindi.
Da quando ateatro ha avviato questo dibattito, cosa è successo ancora in questo paese? Ha continuato e continua ad accadere di tutto, in uno scivolone che sembra senza fine (diritti rinnegati, privilegi riabilitati, razzismo, intolleranza per le diversità, assenza di solidarietà, ottusità per i problemi ambientali) e ci trascina verso il confine stesso di quel mondo progredito e civile di cui ci credevamo al centro e in cui fra breve saremo clandestini (penso alle classifiche mondiali del divario ricchezza/povertà o di genere, per ricordare solo i picchi più vergognosi). Non è accaduto tutto in pochi mesi – ovvio – ma l’accelerazione sgomenta.
E’ successo e succede che il governo Berlusconi persegue con una violenza e una rapidità che non ci aspettavamo lo smantellamento di tutto quello che favorisce la formazione di un pensiero critico e di una coscienza civile – scuola, ricerca, università, informazione – e l’estromissione della cultura dall’area del servizio pubblico. E’ una scelta controcorrente rispetto alle politiche mondiali, anche e soprattutto a fronte della crisi economica che non la giustifica e anche da un punto di vista conservatore (penso alla politica di Sarkozy per la ricerca), tanto da sembrare stupida se non fosse diabolica (penso a Gelli).
Lo spettacolo è più emblematico di quanto si creda se – nell’attuazione di questa linea – i tagli che vengono riservati al settore rasentano il 35% del FUS e se il famoso “patto” stato-regioni, che evidentemente tanto patto non era, ha potuto essere abrogato da un giorno all’altro con i suoi miserabili 20 milioni.
I numeri del FUS
- nel 2008 è stato di 479 milioni circa (per dare le voci principali e arrotondando, 213 vanno alle fondazioni lirico sinfoniche, 89 al cienema, 74 alla prosa, 63 alla musica, 9 e mezzo alla danza, quasi 7 allo spettacolo viaggiante e il resto per spese di funzionamento e per l’osservatorio;
- la finanziaria del 2007, che aveva avviato il recupero dopo i tagli della precedente legislatura, prevedeva, per il 2009, 567 milioni;
- rispetto all’attuale finanziaria, il Ministro Bondi dichiata che saranno 459 miloni, l’AGIS – interpretando la filosofia del Ministro Tremonti e ricordando gli accantonamenti annunciati, pari al 17%, e come raramente vengano recuperati – ritiene realisticamente che la disponibilità sarà di 380 milioni (“Giornale dello Spettacolo”, n. 17 del 26 settembre).
La riduzione in termini di valore reale dall’istituzione del fondo nel 1985 dovrebbe ormai rasentare il 70%.
All’interessante incontro promosso dai sindacati al Teatro dal Verme di Milano (di cui ha riferito su ateatro Giovanna Crisafulli), un sindacalista faceva notare che un taglio del 35% non è un taglio e che solo al nostro settore è riservato questo trattamento: insomma, “ce l’hanno con voi”. Se ancora non si fosse capito. A voler essere ottimisti, è quasi motivo d’orgoglio.
Allo stesso incontro Dario Fo invitava a rinnovarsi e a non accettare elemosine. Mi sembra sacrosanto. Dario voleva dire a mio parere un paio di cose significative:
- se è vero che principi e criteri legislativi vanno ridefiniti (anzi definiti), PRIMA di qualunque eventuale concertazione (ristrutturazione, razionalizzazione, magari autentica modernizzazione: che sarebbe possibile), va ripristinato il rispetto per questa area della produzione e del lavoro culturale e il riconoscimento della sua funzione (vedi l’art. 9 della Costituzione): senza dignità non c’è dialogo possibile;
- senza dimenticare però, che non è certo il riconoscimento statale, morale o materiale a legittimare il teatro, ma quello civile, il ché è molto diverso;
- infine, dobbiamo ricordare che nei tempi peggiori della sua lunga storia al teatro non è mai mancata la fantasia, né artistica né imprenditoriale: se ha ancora senso, è molto probabile che anche questa volta sopravviverà. E saprà ancora e sempre graffiare. Senza elemosine.
Come nelle parole di Fo quella sera, come in molti degli interventi che hanno seguito quello di Oliviero, non mancano riflessioni e elementi di analisi con il segno +.
Alle logiche politiche statali, per esempio, sembrano non aderire gli enti locali, anche quelli di centro-destra, che le subiscono e un po’ reagiscono. Non ultima ragione del disappunto è il fatto che si troveranno in mano un FUS svuotato (di soldi e di senso): questa rischia di essere l’amara conquista del federalismo, anche in altri campi. Che, almeno nelle dichiarazioni pubbliche e in qualche atto, gli enti territoriali e locali si sentano a loro volta vittime e siano solidali con il teatro, mi sembra positivo (e chissà che non riducano gli eventi e i circenses per un’attività piu “regolare”).
Anche l’AGIS sembra davvero per una volta arrabbiata: la “vertenza” si prospetta molto più dura che nelle precedenti puntate, la situazione non è più quella in cui tutti (i soci AGIS) si comportavano come chi pensa di avere qualcosa da perdere in uno scontro: hanno forse finalmente capito che hanno già perso tutti, e da un pezzo.
E così i sindacati, che annunciano mobilitazione. E non mancano le iniziative spontanee e associative (come quelle dell’Associazione Teatro italiano di Roma di cui ha dato notizi anche ateatro).
La notizia del giorno è che Berlusconi ha momentaneamente rimandato la “riforma” dell’Università: forse una protesta vera, e radicale e convinta, è possibile e può dare qualche risultato. In fondo perché il Governo dovrebbe accanirsi sullo spettacolo, e in fondo per 180 miseri milioni di Euro?
Mi sono fatta prendere dall’ottimismo della scrittura e del “movimento”: in realtà non sono molto convinta di quello che ho appena scritto (insomma, non credo davvero che la “lotta” dello spettacolo, un’azione visibile e diffusa, possa dare frutti significativi). Penso però che da questo tunnel ci porteranno un po’ fuori due onde: quella determinata e gentile del nuovo movimento degli studenti, e quella lunga di Obama (incrociando le dita!).
Credo invece nell’ “ottimismo dello spettatore”.
Ieri sera, chez Marzullo, una sequenza di appelli un po’ patetici invitava ad andare a teatro, “perché ci si diverte”, “si pensa un po’”, “il teatro è un’arte”, “ha bisogno del pubblico”, eccetera: a enunciarli, una carrellata di ottimi professionisti, ma anche un po’ vecchie cariatidi (sia detto con rispetto e amicizia), poco o per nulla note al pubblico che non sia già teatrale. Una pubblicità “contro”, certo in buona fede.
Mi sembra invece che la gente stia già andando a teatro e per motivi più profondi. Di recente a Milano la “Festa del teatro” ha fatto esauriti ovunque, anche per le proposte più eccentriche, a 3 euro, molti i giovani.
La mia statistica personale più recente mi dice che negli ultimi dieci giorni ho visto cinque spettacoli. Due li definire “impegnati”, uno di ricerca, uno di nuova drammaturgia e uno di buona tradizione. Tutti i teatri erano pieni o quasi, anche qui: molti i giovani. Una “piazza” come Milano esprime un’offerta quanto mai larga e una qualità media molto alta. Ma anche la provincia pullula di proposte, di iniziative, di stimoli: anche dove proprio non te li aspetteresti.
Non si può anestetizzare troppo il pensiero, e mortificare il gusto. Alla fine qualcuno si ribella, cerca altro. Credo e spero che stia già succedendo, che la saturazione televisiva non porti solo verso il web. Credo che il pubblico del teatro possa crescere se e dove troverà contenuti, necessità, senso, e naturalmente qualità.
Ricordate la scoperta di Paolini e del teatro “civile” dopo l’edizione televisiva di Vajont? (eravamo nell’era Berliusconi I) E più di recente gli exploit di Celestini? Credo che le ricadute positive di questi fenomeni siano ancora in atto. Quel filone non si è inaridito, e ha ancora molto da dire sulla scena e nella società: il pubblico si aspetta un teatro che mette in moto pensieri e insinua dubbi, che denuncia e che lo fa con carisma e fascino.
E che dire della satira, se sono possibili maschere geniali come quelle di Albanese e di Sabina Guzzanti, ritratti più efficaci e veri di quest’epoca grottesca di qualunque saggio o ricerca.
Anche i Teatri delle Diversità: non sarà così facile spazzarli via. Sono ormai un fenomeno diffuso, qualificato, differenziato, ancora giovane ma quasi inestirpabile, anche se o proprio in quanto controcorrente, lontano dallo stato, vicino al territorio e alle sue necessità (e anche nel profondo nord, o dove la diversità è reato, queste necessità esistono).
Qualche altro pensiero positivo sul fronte organizzativo (ne ho anche – e molti – di negativi, ma li rimando a un’altra volta!).
Il teatro è fatto di vasi comunicanti (anche se spesso i circuiti si inceppano), e le politiche CONTRO il teatro di questi governo ricadranno direttamente o indirettamente su tutti, come la crisi economica. Ma il “nuovo” teatro, quello giovane, per una volta forse ha qualche punto di vantaggio: di soldi statali non ne ha mai avuti, la miseria aguzza l’ingegno e chi non è mai stato troppo assistito ha forse più capacità di pensare ad altri fronti e di praticare altre strade (fondazioni, privati, gestioni innovative, rapporti con lindustria culturale, proventi connessi, l’Europa, il Pubblico!). Sono convinta inoltre che la qualità espressa negli ultimi tempi da molti giovani gruppi e la capacità di rigenerarsi sia più alta di quanto si colga in superficie (anche se è vero che i giovanissimi sono compressi dalla – ancora giovane – generazione ’90).
Forse per questa volta saranno le istituzioni a soffrire di più della crisi, e le migliori avranno qualche buon motivo in più per ripensarsi. E non dimentichiamo che la nomenklatura è – paradossalmente – un po’ migliorata in questi anni. Mi riferisco in particolare alle direzioni degli stabili: sono molti i direttori che potrebbero oggi contribuire a un reale rinnovamento di questa area, e favorire ricambio e apertura (se solo volessero).
A conclusione del suo pezzo Oliviero si chiedeva se ha senso “resistere” e “che fare”: “...che cosa può dirci oggi il teatro, di nuovo e di necessario? Quale può essere oggi un teatro per il quale val la pena di impegnarsi – mente, corpo e anima? (...) Una prima certezza: se fossimo in guerra, quasi certamente non ci sarebbero le forze (in primo luogo di fantasia e di immaginazione culturali) per un contrattacco. Restano però diverse alternative, oltre alla resa senza condizioni e al silenzio. La prima è quella di pensare a consolidare un fronte più arretrato, con l'obiettivo di compromessi possibilmente dignitosi (del resto, è sempre affare di incontri tra singole persone). La seconda è quella di tentare di salvare e difendere alcune isole felici, “zone temporaneamente liberate”, in una prospettiva di guerriglia culturale” (...) In alternativa possiamo rilanciare la discussione”.
“Resistere” a mio parere è necessario e doveroso, ed è importante credere di non essere perdenti sui tempi medi, e lunghi. Confortare o recuperare o mandare momentaneamente nelle retrovie chi si è logorato (certo anche noi di ateatro), ritrovare le forze, reclutare nuove leve.
I fronti sono numerosi.
C’è il fronte delle istituzioni culturali (penso agli stabili, ma anche ai teatri comunali, ai circuiti, all’ETI e a tutta l’area pubblica).
E c’è quello delle regioni, degli enti pubblici, dei partiti di opposizione.
C’è un’area indipendente e consolidata (stabili privati e centri, progetti, compagnie con sede e non, festival), dove si raccolgono forse le risorse migliori del teatro italiano.
Tutti questi centri decisionali e produttivi, tutte le organizzazioni “solide”, che pure sono oggi in difficoltà, hanno crescenti responsabilità verso il “nuovo” teatro. In tutte queste aree non mancano le persone con cui dialogare e che già sono o possono essere sensibilizzate ad assumersele.
Non credo sia possibile e utile scegliere e dichiarare le zone temporaneamente liberate e quelle occupate dal nemico; penso invece che per le molte accerchiate (e resistenti) il sito e il forum possano rappresentare uno strumento di confronto, di dialogo, di verifica.
Poi c’è il fronte Buone Pratiche: non tutte quelle che abbiamo raccontato si sono affermate o sono diventati modelli da riproporre altrove, ma alcune si sono rivelate molto importanti. Il censimento che abbiamo fatto negli anni ha mostrato che sono numerose, e diffuse, e continue. Gli incontri di ateatro sono stati fondamentali per renderle visibili e consolidarle. E’ questo il fronte più mobile, quello di guerriglia.
Usciamo dalla metafora strategica. Diffondere questi “casi” è stato utile e importante e può ancora esserlo.
Nell’incontro del 13 dicembre, e forse in qualche momento più ristretto, territoriale o preparatorio, si dovrà discutere con calma dei temi generali lanciati in agosto e approfonditi in questi mesi, ricondurli alla filosofia del “rimbocchiamoci le maniche” sarebbe un po’ riduttivo, ma ugualmente aspettiamo di poter proporre nuovi modelli ed esempi. Forse sarà utile che come per il passato individuiamo alcuni filoni. Saranno le Buone Pratiche della Resistenza, ma anche del pensiero. Saranno un’iniezione di fiducia.
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La questione dello spettatore In risposta a La fine del (nuovo) teatro di Gigi Gherzi |
Uno
L’intervento di Oliviero Ponte di Pino ha avuto il pregio di porre la questione in termini diretti ed essenziali. Fine del nuovo teatro?
C’è stato coraggio in questa domanda. E’ stata una domanda a livello alto, senza ricadere in un copione fin troppo conosciuto fatto di rimostranze, vittimismi, recriminazioni, auto-giustificazioni.
Però a quel termine, “nuovo teatro”, vanno messe le virgolette. Perché quel teatro nuovo non era più, da tempo. Né per il tipo di pratiche, spesso tutt’altro che buone, né per le scelte artistiche.
Intendiamoci: “nuovo”, non è una parola che amo. E’ parola abusata, ricorda molto l’incessante e sfinente succedersi delle tendenze, dei trend, si accoppia spesso con l’altro termine che di frequente appesta le discussioni: “emergente”.
“Nuovo teatro”, come termine, è finito per significare un’altra cosa. Teatro “marginale”, destinato a raccogliere le briciole dell’intervento pubblico, abbandonato nella sua nicchia di auto-commiserazione e auto-gratificazione
Due
A molti, in passato, il teatro ha davvero cambiato la vita. E’ stata una tempesta che, arrivata, ha messo in discussione tutto. Certo si studiava, da attori, da registi, in quella grande università informale rappresentata più dai seminari che dalle scuole classiche, mettendo insieme, ricomponendo all’interno di sé, spunti e suggestioni diverse. Ma in gioco c’era più di una formazione artistica astratta, c’era il rapporto col mondo, il rapporto tra arte e mondo, il confine tra vita e linguaggio. Queste le domande che hanno accompagnato la nascita del nuovo teatro (qui le virgolette non le uso), come fenomeno esteso. Queste le domande alla base della stagione dei teatri di base, fino allo “storico” convegno di Casciana Terme del 1977.
Una generazione di teatranti si ridefiniva antropologicamente, culturalmente, artisticamente, in rapporto ai grandi temi che attraversavano quel mondo: la crisi della politica e della militanza, la scoperta del corpo, il senso della creatività, il rapporto con la comunità.
Tre
Acqua passata, certo. Ma da almeno una di quelle domande non si può prescindere nemmeno oggi: è la domanda che vede la vita di un nuovo teatro realizzarsi nella scoperta di nuove forme di relazione con il pubblico e nella creazione di comunità teatrali.
Acqua passata. Ci aspettavano anni sfinenti, di contrapposizioni sterili, tra tendenze. Prima terzo teatro contro post-moderno, poi il gioco “dei gruppi emergenti”, poi più seccamente, l’individuazione dei “cavalli di razza” su cui puntare tutto e le politiche di cooptazione all’interno della grandi istituzioni.
In tutto questo i teatranti spesso alla finestra, a lasciarsi definire da altri, spesso complici, a cavalcare le onde favorevoli, quasi sempre depressi.
Quel teatro rimaneva nuovo solo per definizione burocratica-amministrativa. Nel tentativo di sopravvivere riproponeva spesso tutto il vecchio: cordate, scambi, protezioni, corteggiamento sfrenato del critico, difesa delle roccaforti.
Il pubblico, il mondo alla finestra. Il pubblico che lentamente si stanca di un’incontro che non è più vitale, si stanca dei linguaggi auto-referenziali, si stanca del narcisismo del segno.
Intanto il postmoderno va in crisi in tutto il mondo, e in tutte le arti, ma il “nuovo teatro” non se ne accorge. Intanto il pubblico, sempre più condizionato da stilemi e modelli televisivi, cerca comunque di resistere. Elabora ed intercetta un bisogno di narrazione, di coscienza civile, e ne fa il fenomeno più significativo dell’ultimo decennio.
Fenomeno contraddittorio. Non esistono più gruppi. Esistono nomi. Vendibili in proporzione all’audience, al richiamo esercitato. Fine dei gruppi. Ma il nuovo teatro era nato anche e sopratutto come teatro di gruppo.
Quattro
La storia non finisce. Il postmoderno lascia il posto alla grande depressione. I quadri, organizzativi e artistici del “nuovo teatro”, si trovano di fronte, come prima, più di prima, alla politica feroce dei tagli. In parte reagiscono tentando di diventare più saldamente, istituzione. In parte scommettono sulla creazione di “nuovi cavalli di razza”, con cui recuperare rapporto col pubblico e sopratutto coi media. Qualcuno lascia, abbandona. Alcuni capiscono la natura della situazione, ma la sensazione dell’impotenza è fortissima.
Cinque
Destra, sinistra. Questo ambiente è tradizionalmente “di sinistra”. Una sinistra spesso fatta di ricordi, di rimpatriate, di auto-celebrazioni. Una sinistra a cui però sfugge il 2001, il movimento no-global, e che, nel caso migliore, legge i fenomeni emergenti di razzismo, di uscita dallo stato di diritto, di corruzione strutturale, con l’arma, nobile ma spuntata, dell’indignazione civile. La vicinanza alla sinistra per il “nuovo teatro” diventa più un fatto di complicità culturali, generazionali e di conoscenze che altro. Il dialogo avviene sopratutto partendo dalla necessità di difendere o conquistare qualche roccaforte. Confronto vero su un’altra idea di teatro, di cultura, di arte, non se ne vede.
Sei
Rispetto merita chi, in questi tempi, difende le esperienze fatte. Pratiche spesso ventennali o trentennali. Chi, all’interno dell’istituzione teatrale, cerca di portare qualche ragionamento o ipotesi nuova. Ma che alla fine, come fa notare l’articolo di Oliviero, si trova a fare i conti con la sconfitta politica, culturale e antropologica della “sinistra”.
Fine del nuovo teatro? Verrebbe proprio da dire sì. E invece no.
Sette
Togliamo di mezzo le parole inutili: nuovo, giovane, emergente, civile.
C’è un teatro, registi, operatori, che oggi affronta di nuovo la questione del pubblico, la questione dello “spettatore”.
Cambiato il pubblico. Seriale, fatto da individui, non da comunità. Difficile scoprire situazioni che, al di là degli spettacoli offerti, delle stagioni, dei cartelloni, siano punti di un movimento culturale, o, più semplicemente, di un incontro, di uno scambio.
Cambiato lo spettatore. Ridotto alla funzione di puro fruitore. Non succede solo nel teatro. Succede anche rispetto alla politica, alla città, alla cultura tutta, alla nostra stessa vita.
Ma quel pubblico, quello spettatore, la sua fatica, la sua cecità, il suo desiderio, nonostante tutto, di trovare nel confronto con l’arte uno spazio di identità e di anima, diventano, oggi, il terreno principale di ricerca e di indagine per un teatro diverso.
Otto
Siamo di nuovo di fronte alle domande grandi: oggi, nel nostro tempo, a cosa serve il rito teatro? Qual è la polis a cui si riferisce? Come lavorare con le comunità distrutte?
La situazione è molto grave. per questo non bisogna avere solo fretta. Non credere solo nella forza salvifica di qualche escamotage organizzativo.
Il lavoro di creazione di comunità nasce oggi all’interno del teatro stesso, dei suoi attori, registi, quadri organizzativi. Nasce in una nuova capacità di sapersi leggere come comunità creativa e umana, dentro a questi nostri tempi. Di uscire per sempre dalla logica “dell’uno contro tutti”, dallo “speriamo che io me la cavo”, ”dall’uno su mille ce la fa”,
Nove
C’è bisogno di confronto teorico e pratico sui grandi temi. Sulla trasformazione del senso della drammaturgia e delle pratiche teatrali all’interno dei territori in cui agiamo.
Sul significato, per il teatro, dei grandi fenomeni sociali e culturali che stiamo vivendo: la presenza dei migranti, l’ossessione sicurezza, lo scacco della ricerca e della cultura non direttamente collegata al mercato. Solo per dirne alcuni.
C’è bisogno di un’idea di comunità teatrale che si allarghi immediatamente ai corsisti, ai frequentatori di seminari, agli attori non professionisti coinvolti in molti progetti. Perché questi soggetti possono essere, e in qualche caso già lo sono, contemporaneamente attori, autori, comunità teatrale e pubblico di un teatro diverso.
C’è bisogno di riporre al centro di tutto la questione dello spettatore. Perché questo spettatore ci interroga, ci mette in gioco nella nostra identità artistica, diventa il soggetto principe della nostra riflessione. Non per cortesia, per scelta opportunista, per necessità di seguito e di riscontro. Ma perché la posizione dello spettatore diventa la metafora più adeguata a descrivere la nostra condizione nel mondo, la nostra cecità, assuefazione, impotenza e, nello stesso tempo, voglia di un’esperienza e di una pratica altra.
Partendo dalla condivisione e dalla scoperta di queste possibili altre “buone pratiche” è possibile che un teatro non nuovo, ma diverso, riprenda il suo cammino, con motivazioni ed energie rinnovate e curiose.
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Grazie, Gigi In risposta a La fine del (nuovo) teatro di Alessio Di Modica |
Grazie Gigi,
grazie per queste riflessioni.
A mezza voce vorrei solo dire che nel tuo articolo ho trovato il riscontro di quello che facciamo da anni nel nostro territorio. In silenzio e lontano dai grandi clamori viviamo il teatro con profondo senso di comunità, di impegno, di militanza, di testimonianza umana e di ricerca di altri rapporti con pubblico.
Sto tra quelli a cui il teatro ha cambiato la vita. Il teatro mi ha aperto la possibilità di comunicare e avviare processi culturali in un contesto come il mio devastato a livello ambientale e culturale, fino a fare della nostra piccola comunità una comunità senza confine tra fruitori e teatranti e per questo siamo anche un interlocutore significativo ed importante per tutti (dai cittadini alle istituzioni).
Questa è la nostra storia umana e artistica.
A volte coi nostri lavori ci scontriamo (nostro malgrado) con le leggi di mercato inadatte o semplicemente ancora non pronte per le storie intese nel senso di esperienze forti e radicate, a volte ci imbattiamo in riflessioni come le tue che ci danno una grande soddisfazione, una soddisfazione senza autocelebrazione ma come luce per proseguire il cammino avviato, un cammino rischioso e insicuro ma che ci apre quotidianamente strade e possibilità.
A volte le leggi di questo mercato del teatro italiano sono così sottili, meschine, subdole e spietate che ti lasciano pensare che nulla cambierà e siamo destinati ad estinguerci e magari dentro i teatri ci faranno i reality show condensati, tanto l’invasione televisiva dei teatri è una Marcia inarrestabile.
Allora andremo per strada a fare i nostri spettacoli (anche se già lo facciamo) e se ci toglieranno la strada come ha detto qualcuno “ci appenderemo a una stella e faremo gli spettacoli sospesi per aria”.
L’imbarazzo generale, la crisi di idee e la mancanza di coraggio è visibile, chiara e palpabile, il teatro è costretto a ricercare in altro (come la grande editoria ad esempio) lo spunto per i suoi spettacoli oppure come si dice da noi arriminare(rigirare) lo stesso brodo. Non ha più proprie spinte ideali ed emotive.
Per dieci anni un fenomeno resta la novità, il “nuovo” , e a lui ne susseguono decine che durano mezza stagione… per questo è chiamato sempre “nuovo” .
In questo lasso di tempo libero ho sentito il dovere di ringraziarti Gigi, non mi dilungo più di questo perché il lavoro quotidiano e costante di ricostruire il mio territorio, ovvero l’angolo qualsiasi di questa terra che occupo in questo tratto della mia esistenza, l’impegno di ricostruire coi cittadini i bambini e gli anziani della mia provincia un’etica civile (in nome della coscienza del luogo) , non so se nuova ma urgente e necessaria per posti come questi, si porta via gran parte del tempo della mia pratica umana ed artistica.
Ogni giorno rinnovata energia accompagna l’entusiasmo di stare e lavorare qui, il resto del tempo lo dedico ad inventarmi un modo per vivere qui come artista, per Esistere (e non resistere) senza essere schiacciato dalle difficoltà, senza perdersi nel sicilianismo a tutti i costi, senza scadere nei cliche, per essere stimolo per chi vive qui e per chi passa. E quando non sto qui sono fuori dalla mia provincia per fare spettacoli che raccontano questo territorio, che raccontano miseria e virtù di un progresso e di un mercato industriale che strozza e devasta lasciandoci solo macerie alle spalle.
Grazie Gigi
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Milano: Quando la cultura è precaria L’incontro promosso della CGL al Teatro dal Verme di Giovanna Crisafulli |
Qualcosa inizia a muoversi sul fronte della cultura e dello spettacolo. E non si tratta solo della protesta contro l’improvvisa riduzione del 35% del Fus e di altri contributi già deliberati dallo scorso governo.
Il discorso sullo stato attuale dello spettacolo dal vivo è molto più ampio, e coinvolge quanto sta accadendo in questi stessi mesi alla scuola, all’Università, alla ricerca, ovvero a tutti gli ambiti della cultura.
E’ questo uno degli elementi più interessanti emersi dall’incontro di lunedì 20 ottobre al Teatro dal Verme, promosso da Camera del Lavoro di Milano, Sindacato dei Lavoratori della Comunicazione, Sindacato degli Attori Italiani e Sindacato Italiano Artisti della Musica.
A conferma della gravità crisi in corso, la partecipazione degli enti locali. Nel suo intervento scritto, Massimo Zanello, Assessore regionale alle culture e tradizioni Lombarde, dello stesso colore politico dell’attuale governo, esprime la totale solidarietà agli operatori dello spettacolo, di fronte a un provvedimento che la situazione economica internazionale e nazionale non basta a giustificare. Zanello conferma che la Regione non ridurrà i propri contributi, aggiungendo: “Il fatto che oggi Regione Lombardia non diminuisca l’investimento in cultura è emblematico: se il Fus fosse già stato trasferito alle Regioni, forse non saremmo in queste condizioni, e forse sarebbe opportuno che ne ragionassimo insieme.”
E’ l’ Assessore alla Cultura della Provincia di Milano Daniela Benelli a porre l’accento sul “disprezzo” che l’attuale governo sta dimostrando nei confronti di tutte le categorie impegnate nella formazione e nella cultura. E’ sotto gli occhi di tutti il modo in cui i Ministri, dalla Gelmini a Brunetta, stiano delegittimando insegnanti, ricercatori, operatori dello spettacolo, definendoli fannulloni troppo pagati, quasi un peso inutile alla società, giustificando così agli occhi dell’opinione pubblica i drastici cambiamenti in corso. E tutto questo negli stessi giorni in cui la Festa del Teatro promossa dalla stessa Provincia, registra migliaia di adesioni, confermando l’interesse della gente nei confronti del teatro. Un’iniziativa privata recentemente anche del contributo ministeriale già stanziato dal precedente governo con il Patto Stato-Enti Locali.
“Una riduzione del 35% - che non ha riscontri in alcun altro settore - non è un taglio, è il segno che ce l’hanno con lo spettacolo!”, sottolinea Emilio Miceli, Segretario generale SLC nazionale, che ricorda come più o meno la stessa somma sia stata erogata a sostegno del Comune di Catania, in stato di fallimento per cattiva gestione dei suoi amministratori, a conferma del fatto che i fondi, se si vuole, non mancano del tutto. “E la prospettiva di successivi decurtamenti del Fus, che entro il 2011 dovrebbe farlo ridurre a 300 milioni di euro , solleva il sospetto che il Governo stia svuotando le casse prima di affidarne la gestione alle regioni”, sostiene Fiornezo Grassi, dell’Agis Lombardia, che ricorda come le imprese culturali creino migliaia di posti di lavoro, più di quelli di Alitalia o Fiat, ma per i quali non sono previsti ammortizzatori sociali. Da Grassi anche l’esortazione a imprese e lavoratori di ogni settore a unirsi in questa delicata fase e a non vergognarsi di chiedere soldi allo Stato per svolgere le proprie funzioni, indispensabili per la formazione delle coscienze nel nostro paese.
Da ogni parte si fa notare come il taglio sia stato fatto a stagione già iniziata, con contratti già stipulati, soldi già impegnati, senza considerare le differenze tra le singole realtà, sacrificando quelle che gestiscono i fondi pubblici in modo corretto, con contratti regolari con i dipendenti, presenza stabile sul territorio, al pari delle altre.
Ma è da un’orchestrale che arriva una delle testimonianze più lucide sullo stato drammatico dell’occupazione. Una dei ventisei professori dell’Orchestra Verdi che hanno perso il lavoro nell’ultimo anno, ha denunciato l’adozione di contratti atipici, a prestazione, che richiedono lo stesso impegno del lavoro subordinato a fronte di una totale assenza di diritti e garanzie. Una condizione che ha portato al licenziamento di quelli che hanno osato protestare, tra i quali molte prime parti, sostituite con elementi di fila senza concorso e privi dell’idoneità necessaria. La denuncia mette anche l’accento sulla mancata solidarietà da parte degli altri elementi dell’orchestra, prova di quanto il precariato e queste forme di lavoro ricattatorie, siano riuscite a demolire qualunque forme di coesione tra i lavoratori. Nell’intervento, inoltre, viene sollevata la domanda di come sia possibile che l’Orchestra Verdi abbia ricevuto un contributo straordinario di 5 milioni di euro dallo Stato, per sanare parte del suo deficit, senza garantire il rispetto della legalità al suo interno.
Ed è agli artisti, ai giovani, che si appella Dario Fo nel suo lungo intervento, nel quale, ricordando la povertà di Milano a ridosso della seconda guerra mondiale, ai tempi della nascita del Piccolo Teatro, sottolinea l’ignoranza degli interlocutori ministeriali, la loro chiusura alle fasce più giovani, in altri paesi sostenuti e promossi. Dario Fo, allargando il suo discorso anche allo stato dell’economia, alle scelte che si stanno facendo a sostegno delle altre aziende e delle banche, a discapito del lavoro e dell’ambiente. E ha concluso invitando tutti a rimboccarsi le maniche, a rinnovarsi, a non lasciarsi più ricattare da quella che ormai viene elargita dal Ministero come elemosina a un settore al quale non viene riconosciuto più alcun valore.
Un valore sottolineato invece da Sergio Escobar. Nel suo intervento, il direttore del Piccolo Teatro ha ricordato come il teatro riesca a interpretare gli eventi con largo anticipo anche rispetto agli economisti, come nel caso di Hermann Broch con Inventato di sana pianta, scritto nel 1934 e messo in scena lo scorso anno da Ronconi, nel quale è già presente il tema della “bolla” speculativa, di un’economia intesa come esclusiva ricerca dell’utile personale, spesso a discapito del benessere sociale, la stessa bolla che ora sta mettendo in ginocchio l’economia mondiale. La classe politica dimostra invece di non saper cogliere i cambiamenti in corso nel tessuto sociale e di istigare alla paura nel nome di una mal intesa identità, che è chiusura al diverso, all’estraneo. Eppure – ricorda in conclusione Escobar - proprio il ministro Tremonti conclude il suo troppo lodato libro La paura e la speranza invocando proprio la cultura come strada per vincere la paura!
Da segnalare anche l’intervento del presidente della Fondazione I pomeriggi musicali, Massimo Collarini, che ha messo a disposizione il Teatro dal Verme: premettendo la propria adesione politica alla maggioranza di governo, pone tuttavia l’accento sulla necessità di una maggiore responsabilità da parte di chi gestisce denaro pubblico, sulla fine necessaria dei finanziamenti indiscriminati da parte dello Stato e sull’urgenza di nuove regole, che portino a premiare il lavoro stabile e le imprese che dimostrano di saper gestire il bene pubblico.
Conclude l’incontro Onorio Rosati, Segretario generale della Camera dei Lavoratori: con questa prima iniziativa i sindacati hanno voluto “battere un colpo” per esternare il totale disaccordo rispetto alle politiche governative, al tentativo di smantellamento proprio di settori come la formazione, la ricerca, la cultura che in altri paesi sono considerati asset strategici e che costituiscono le principali risorse contro la disgregazione sociale e la perdita del senso di solidarietà e di comunità.
La serata è proseguita con “concerto e parole di artisti milanesi”. Si annunciano agitazioni.
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Elogio dell'incendio Discorso di ringraziamento all’Instituto Universitario Nacional del Arte (IUNA) di Buenos Aires di Eugenio Barba |
Discorso di ringraziamento per il titolo di dottore honoris causa conferitogli dall’Instituto Universitario Nacional del Arte (IUNA) di Buenos Aires, il 5 dicembre 2008.
My speech is like smoke and my body is the burning: le mie parole sono come fumo, e a bruciare è il mio corpo. Scelgo questa immagine, anche per evitare che il titolo del mio discorso - Elogio dell’incendio - sembri un panegirico della distruzione. Vuol essere, invece, celebrazione della metamorfosi, e quindi della resistenza. L’immagine iniziale è il titolo di un’opera di Deb Margolin, attrice e drammaturga americana, un’artista pugnace, che recita spesso da sola. Il suo corpo, allora, è tutto il suo spazio scenico, e bruciare si rivela sinonimo di essere-in-vita.
Il teatro di Richmond (Virginia).
Per secoli gli spettatori hanno visto gli attori e le attrici in una luce-in-vita, mobile, piena d’ombre impreviste e mutevoli, ben diversa dalla nostra luce elettrica, docile ed addomesticata.
Ognuno di noi ha almeno una volta vissuto l’esperienza di uno spettacolo che ci ha ustionati riducendo in cenere quello che pensavamo fosse il teatro, l’arte dell’attore e il nostro ruolo di spettatore.
Il Teatro San Carlo, Napoli.
Ci sono bambini e vecchi, innamorati e dementi che hanno visto indimenticabili e fuggitivi spettacoli nella danza delle fiamme nel camino o del falò in un campo.
Vi sono le fiaccole che artisti visionari hanno gettato nella pratica e nell’idea stessa del nostro mestiere, creando roghi che hanno alimentato con la coerenza del loro agire.
Il Théâtre de la Monnaie, Bruxelles.
Il teatro è “la terra del fuoco”.
Parlando di teatro, soprattutto fra i professionisti e gli intenditori, la realtà del fuoco ritorna come un leitmotiv: il fuoco della recitazione, il pubblico che s’accende, l’ardore delle passioni e degli applausi. Quando una commedia è davvero brillante e fa scintille, quando l’attore tragico arde di passione e ribellione o l’attrice si infiamma di sdegno o voglia di vendetta, lo spettatore, atterrito e felice, viene sfiorato da un dubbio: è solo una sua impressione, o in qualche parte sta covando un incendio?
Per secoli i teatri non poterono sottrarsi al loro appuntamento con le fiamme, improvviso e imprevisto, ma obbligato. Bruciavano in media una volta ogni cinquant’anni.
Il Municipal Lequeux, Lille.
Andarono a fuoco tutti i teatri di San Francisco nel rogo che scoppiò subito dopo il terremoto del 18 aprile 1906 e che durò tre giorni: Grand Opera House, Tivoli Opera House, Alcazar, Fischer's & Alcazar, California, Columbia, Majestic, Central, Orpheum, senza contare le sale minori e il teatro cinese di Chinatown.
Arsero il Théâtre de la Porte Saint-Martin, lo Châtelet e il Théâtre Lyrique durante la Comune di Parigi nel 1871, quando i comunardi appiccano fuoco agli edifici pubblici.
Il Teatro Chikichima, Tokio.
José Posada immortalò l’incendio e la distruzione del teatro di Puebla in una stampa che andò a ruba in Messico, mentre l’incendio del Bolshoi Teatro di Mosca nel 1942, causato dalle bombe tedesche, ispirò a Stalin un discorso che infiammò lo spirito patriottico del suo popolo.
Un’intera generazione teatrale perì tra le fiamme, il 5 settembre del 2005, nel teatro di Beni Sweif, nella regione meridionale d’Egitto. Il fuoco carbonizzò più di quaranta artisti, registi, critici e studiosi che assistevano a Grab your Dreams di Mohamed Shawky. Erano il nucleo del movimento teatrale della generazione tra gli anni Settanta e Ottanta.
Her Majesty's Theatre, Londra.
A volte il teatro che brucia sembra spingere i suoi abitanti, gli attori, verso altre città, esili o nuove avventure, come accadde a Wilhelm Meister nel romanzo di Goethe. O come si immaginò il pittore che rappresentò la maschera di Jodelet fuggire dall’incendio del Théâtre de Marais a Parigi nel 1634. Però, se furono catastrofi, come considerarle metafore?
L’intero Padiglione Olandese dell’Esposizione Coloniale del 1931 andò in cenere, si salvò solo il teatro. Era la sonnolenta estate del 1931 a Parigi, e i giornali seppero commuovere i loro lettori descrivendo gli attori balinesi in fuga, stringendo al petto i loro dorati costumi. Molti parigini accorsero a vedere gli spettacoli di questi bizzarri danzatori pronti a rischiare la vita per salvare i loro orpelli. Tra loro, Antonin Artaud.
Il Royal Theatre, Exeter.
Chiudendo l’introduzione a Il teatro e il suo doppio, Artaud parla di fuoco. Sembra alludere al martirio e si tratta invece di vita. Spiega quel che la cultura dovrebbe essere e non è. Il fumo delle sue parole si sprigiona davvero da un corpo. Per questo conviene tradurre le sue parole alla lettera, come un mantra contro lo spirito del suo secolo e di quello in cui viviamo:
Quando usiamo la parola vita dobbiamo renderci conto che non si tratta della vita riconosciuta dalla superficie dei fatti, ma di questa sorta di fragile e mobile focolare al quale le forme non appartengono. E se qualcosa è ancora infernale e maledetta, in questo tempo, è l’attardarsi artisticamente su delle forme, invece d’essere come suppliziati che vengono arsi e fanno dei segni sui loro roghi.
Il Teatro di Chicago.
Artaud non parla esplicitamente di attori. Eppure quei segni, quel suppliziato e quel rogo sono stati immediatamente intesi come un’immagine estrema ed ideale dell’attore. Julian Beck e Judith Malina ne fecero la pietra angolare del loro Living Theatre, il teatro vivo.
Antonin Artaud fu forse il più povero, il più sofferente, certo il meno professionalmente autorevole fra i protagonisti della Grande Riforma del teatro nella prima metà del secolo scorso. Dal punto di vista del mestiere, ha ben poco da insegnare. Oggi lo annoveriamo fra i maestri, ma non fu mai un maestro. Però fu l’allievo della propria anima divisa. Da essa imparò moltissimo. Legò indissolubilmente il nocciolo dell’arte teatrale alle sofferenze dell’anima malata. Artaud non depose le armi, continuò tutta la vita a soccombere rialzarsi e combattere. Fino alla notte in cui si sedette sul letto e capì che l’ora era arrivata. Si levò una scarpa, e tenendosela in mano come un amuleto, iniziò l’ultimo viaggio.
Il Teatro Comunale, Bologna.
Artaud indicò a noi, popolo del teatro, non i segreti del mestiere, ma quel che attraverso il mestiere dobbiamo soffrire e, forse, sperare: l’esilio. È appena l’un per cento della nostra professione. Ma senza quell’un per cento, arte e mestiere sono solo un fuoco di paglia.
Sappiamo perché i teatri brucino e siano bruciati: per incuria, per la crudeltà del cielo, per speculazione, per malavita, per fascismo, per vendetta e minaccia, per vecchiaia.
Il Teatro Petruzzelli, Bari.
Nel teatro, in questa “terra del fuoco”, appaiono due diverse nature. L’una è catastrofe, l’altra trasformazione. L’una distrugge, l’altra raffina, rafforza il ferro e separa l’oro dalla fanghiglia a cui è incorporato. Di questo secondo fuoco faccio l’elogio. Da questo secondo fuoco la nostra professione trae la vita e il suo valore. La sua danza.
Danziamo? Sì, danziamo. Oppure no, non danziamo: facciamo teatro. Ma chi saprebbe dire dove sta la differenza, dove passa il confine?
Il Teatro La Fenice, Venezia.
Danziamo sempre, ma non sempre per adeguarci ad un genere estetico. Danziamo come su dei carboni ardenti, perché questa danza è essenzialmente un rifiuto non distruttivo, una guerra non violenta alla natura che ci assoggetta. E quindi, più o meno consapevolmente, un rifiuto della storia cui apparteniamo. Come se avessimo le ali; come se pesantissime radici affondassero nella terra sotto i nostri piedi; come se il nostro “io” fosse un altro. Come se davvero fossimo liberi. Ma umilmente, perché questa danza ha l’umiltà d’un mestiere, poco più dell’esercizio del come se. E per gli spettatori è innanzi tutto un passatempo.
Se qualcosa sembra non si possa associare all’elogio dell’incendio, è proprio l’idea di un passatempo. Eppure…
Il Teatro Vaccaj, Tolentino.
La nostra arte non è fatta per essere arte. Non corre per raggiungere una forma definitiva. Corre per sparire. È un’arte arcaica, non solo perché oggi è esclusa o si esclude dallo spettacolo principale del nostro tempo, lo spettacolo dell’immagine riprodotta e riproducibile. Ma soprattutto perché sotto le apparenze d’un passatempo può nascondere una ricerca spirituale, qualcosa che scuote, fortifica e a volte modifica la nostra coscienza e ci immette in una condizione governata da altri valori.
Dobbiamo rimanere con i piedi ben piantati per terra e gli occhi fissi sulla cassetta degli incassi. Ma non dobbiamo dimenticare che il teatro è finzione in transito verso un’altra realtà, verso il rifiuto della realtà che crediamo di conoscere. Il teatro è finzione che può cambiare sia coloro che recitano che coloro che osservano. Niente di altisonante, di minaccioso, di eretico o di folle. Solo passatempo.
The Fire Dancers.
Essere passatempo è il livello elementare della nostra arte, così come il pane lo è per la cucina mediterranea. Non si mangia senza pane. Ma il solo pane alla lunga non basta.
The Fire Dancers.
A volte il passatempo è un valore in sé. Quando il tempo sembra non passare mai, per chi è privato della libertà, per chi si tiene in piedi di fronte alla propria sofferenza, all’amputazione della propria identità, o alla morte, il passatempo può essere la formula della vita, la resistenza all’orrore. Dostojevskij racconta come il vaudeville recitato con costumi signorili e le catene ai piedi, nella katorga siberiana, fosse per i condannati un modo per rifarsi una vita. Fare modestamente teatro, da amateur, negli anni della guerra fra l’esercito e sendero luminoso, ad Ayacucho in Perù, era un’azione vicina all’eroismo, per un gruppo di giovani che ho conosciuto. Erano attori perché desideravano anche avere una zattera fuori dall’orrore.
The Fire Dancers.
In Europa, nel corso del Rinascimento, uno dei modi di far festa non erano semplicemente i fuochi artificiali, era l’incendio. Il potente che organizzava i festeggiamenti comprava una o due case popolari, cacciava via gli abitanti, le svuotava, le riempiva di fuochi d’artificio e polvere da sparo, poi la faceva incendiare ed esplodere. Lo spettacolo era molto applaudito.
Per chi non vi è direttamente implicato, l’incendio può essere uno spettacolo. E per chi lo racconta può essere una metafora della forza dirompente del teatro nel cuore d’una città, della sua natura di focolaio di infezione morale. Oppure una immagine della vocazione degli attori ad essere dei “senza casa”, sempre pronti ad essere sfrattati: dal fuoco, dagli integralisti, dalle autorità, dallo sfruttamento economico.
Installations de Feu Cie Carabosse.
Nel paese in cui nel 1981 bruciò il teatro Picadero, forse non dovrei usare l’incendio come una metafora.
Installations de Feu Cie Carabosse.
Quando leggo che in Argentina regnava la pace dei cimiteri, che vi furono trentamila desaparecidos, migliaia di prigionieri politici e un milione di esiliati, che il popolo era senza dirigenti - morti, incarcerati o fuori dal paese - e che qualsiasi forma di organizzazione sembrava impossibile, Il Teatro Abierto mi appare come la danza sopra questi carboni ardenti di un pugno di attori e autori, scenografi e tecnici, appena duecento, di fronte alla violenza della Storia.
Installations de Feu Cie Carabosse.
Il comando della dittatura che incendiò la sala del Picadero nell’agosto 1981 non aveva previsto che il suo atto criminale avrebbe scatenato una danza ben più grande. Numerosi direttori di teatri commerciali si offrirono di continuare il Teatro Abierto, decine e decine di pittori dobnarono quadri per raccogliere fondi e le personalità più note dei diritti umani e della cultura espressero la loro adesione.
Dal festival Teatro del Fuoco, Stromboli.
Così lo scrittore Carlos Somigliana descrisse questa danza: “l’obiettivo profondo del Teatro Abierto fu quello di tornare a guardare la nostra faccia senza vergognarci”.
Dal festival Teatro del Fuoco, Stromboli.
Vi è un fuoco che non cessa di ardere nelle coscienze e nelle memorie dei teatranti, come anche negli edifici dei teatri.
La sera del 7 maggio 1772, ad Amsterdam, durante la rappresentazione del Déserteur di Monsigny, opera comica in tre atti, scoppiò un incendio che distrusse completamente il teatro Schouwburg, facendo diciotto vittime. In appena tre anni, fu costruito un nuovo edificio, più imponente e sfarzoso.
Fino al 1941, lo Schouwburg fu il teatro principale della città, situato nel Plantagebuurt, il cuore del vecchio quartiere ebraico di Amsterdam. Nell'ottobre 1941, i nazisti che avevano occupato l’Olanda, cambiarono il suo nome in Joodsche Schouwburg (Teatro Ebreo) per soli attori, musicisti e spettatori israeliti. Nel settembre del 1942 il teatro fu chiuso e trasformato in un luogo per raggruppare gli ebrei. 104.000 uomini, donne e bambini vi vennero ammassati, e da lì avviati ai campi di sterminio della Germania e della Polonia.
Il teatro Schouwburg, da centro di cultura e divertimento, divenne un cupo luogo di angoscia e dolore. Dopo la guerra quello spazio non poteva riprendere la sua funzione originale e restò chiuso per anni. Fu scelto per diventare un luogo della memoria. Oggi, entrando nell'ex teatro, vediamo bruciare una fiamma eterna.
Con questa immagine d’una fiamma di pura memoria, che brucia senza fumo di parole e senza corpo, potrei chiudere questo discorso.
Concluderò, invece, con un brindisi.immaginario. Come si usa a teatro, quando si ricorre al mimo al posto degli oggetti materiali.
Immaginate che qui, su questo tavolo accademico, ci sia una bottiglia di birra. E torniamo sulle rive del Tamigi, in una delle nostre antiche patrie teatrali.
Troviamo la notizia del primo incendio nella storia del teatro europeo in una lettera del nobile inglese Sir Henry Watton, datata 2 luglio 1613 e inviata a Sir Henry Bacon. Comincia così: “Ed ora lasciamo riposare i discorsi politici e dello Stato. Mettiamoli a dormire. Ora vi voglio raccontare qualcosa che in questa settimana è accaduta nella zona del Tamigi”.
Sir Watton riferisce che gli “Attori del Re”, la compagnia di Shakespeare, hanno messo in scena un suo dramma intitolato All Is True. L’allestimento era sontuoso, con stuoie e tappeti sul palcoscenico, una festa più ricca e maestosa delle vere cerimonie di corte. Durante lo spettacolo vennero sparate vere salve di cannone e alcune scintille, volate fra la paglia del tetto, consumarono l’intero teatro in meno di un’ora. Così spari il Globe: senza morti e senza feriti.
Il teatro, immediatamente riedificato con un tetto di tegole, fu riaperto un anno più tardi. Nel 1642 i Puritani, nel loro ardore religioso, chiusero tutti i teatri incluso il Globe che fu dimenticato anche come forma di edificio teatrale: gli inglesi, alla riapertura dei teatri adottarono il teatro all'italiana. Passarono più di tre secoli e il Globe Theatre, uno dei nostri miti, risuscitò. Resti del suo edificio furono scoperti nel 1989 sulle rive del Tamigi e, su ispirazione di un attore e regista americano, Sam Wanamaker, un nuovo Globe fu ricostruito nel 1997 uguale all'antico modello elisabettiano e vicino al luogo in cui sorgeva l'originale.
Sapeva bene, Sir Watton, che ogni dramma deve chiudersi con il respiro leggero d’una farsa, e concluse così la sua lettera a Sir Henry Bacon: “Soltanto uno degli spettatori rischiò la morte. Gli si incendiarono le braghe e sarebbe forse finito arrostito se un allegrone mezzo ubriaco non l’avesse spento versandogli addosso una bottiglia di birra”.
Fra tanti incendi, non sarebbe opportuno augurare anche a noi una buona birra?
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