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  N e l s o n G e o r g e
Hip Hop America

 

La storia mai detta dell'America nera: dai film blaxploitation, ai mercati speciali, dalla musica soul alla break dance. In Hip Hop America Nelson George ci guida in un'immersione negli States degli anni Settanta e Ottanta, dal Bronx ai suburbia.

Nelson George is the historian of Black American culture. His acclaimed Hip Hop America stitches together the pieces of an unseen quilt of music, dance and economics of the Afroamericans.

© Nelson George

Questa storia inizia mentre un’altra sta finendo. La prima storia è piena d’ottimismo ed esaltazione sulla capacità umana di cambiare tramite l’azione politica e la morale. La storia successiva, la trama in cui viviamo adesso, è caratterizzata dal cinismo, dal sarcasmo e dall’egocentrismo elevato ad arte. Il punto di svolta sono stati i primi Settanta. Dashikis, zatteroni e Richard Nixon erano ancora in voga. La fase del movimento per i diritti civili guidata da Martin Luther King, con la sua filosofia della nonviolenza, i dimostranti in camicia bianca inamidata e cravatta stretta, era morta (letteralmente) da un pezzo. La fase successiva di retorica arrabbiata del tipo burn-baby-burn stava a sua volta facendo qualche passo indietro mentre la morsa maligna dell’eroina, la diligenza mercenaria degli informatori dell’FBI e la filosofia basata su un benevolo disinteresse sostituivano il senso di colpa liberale nel ruolo di motore della politica governativa nei confronti dei poveri. Le dimostrazioni nelle strade per il cambiamento sociale erano finite. Ora gli afroamericani si potevano sedere nei primi posti degli autobus o nelle platee dei cinema. Ora si poteva votare ovunque, negli Stati Uniti. Ora i politici neri puntavano a controllare i consigli comunali di città grandi e piccole. Ora neri ambiziosi laureati nei college dei bianchi iniziavano a scivolare nell’abbraccio scomodo e danaroso della libera impresa americana.

Il sogno di Martin Luther King dei diritti civili come strada per aprire nuove opportunità stava funzionando, almeno per qualcuno. Gli anni Settanta avrebbero generato la prima classe di figli di affirmative action laureati. Non si chiamavano ancora buppies (black urban professionals) – non c’erano ancora nemmeno gli yuppies – ma questi pionieri aprirono la strada a chi sarebbe arrivato in seguito varcando le porte sfondate dai dimostranti rabbiosi del Sud e dai nazionalisti radical nel Nord. Non erano più intelligenti né migliori dei loro genitori, erano soltanto meglio istruiti secondo i protocolli standard della cultura bianca, fieri del proprio potere e pronti per frustrazioni più sfumate di quanto mai fosse accaduto a dei neri americani.

A partire dagli anni Settanta i nuovi professionisti neri ebbero un’opportunità di inseguire le proprie ambizioni con una libertà sconosciuta in precedenza agli afroamericani. Ma si trovarono di fronte a un nuovo conflitto tra la lealtà ai propri datori di lavoro – di solito bianchi – e la necessità di esprimere istanze a favore dei neri che avrebbero potuto mettere in pericolo il loro posto di lavoro. Il fatto che ti abbiano fatto entrare non vuol dire sempre dire che tu sia il benvenuto. Non è un caso che il numero del luglio 1974 della rivista Black Enterprise fosse dedicato all’ipertensione e facesse notare che sei dei ventitré milioni di vittime americane di questa malattia fossero di colore: si trattava del maggior rischio per la salute degli afroamericani.

Questa nuova middle class nera – figlia delle nuove leggi sull’equità razziale, di affirmative action e del duro lavoro – viveva come la maggior parte della middle class americana degli anni Settanta. Si trasferivano nelle periferie residenziali, spesso in cittadelle a maggioranza nera come Teaneck (New Jersey), Baldwin Hills (California) e Silver Springs (Maryland). Sguazzavano nella cocaina, alla caccia degli up e dello status sociale che il suo uso prometteva. La Cadillac, simbolo tradizionale di benessere tra gli afroamericani, lasciò lentamente il passo alle macchine di lusso europee.

Le aziende guardavano finalmente alla comunità nera senza considerarla soltanto un serbatoio di manovalanza. Insieme alla crescita dei professionisti di colore venne un riconoscimento da parte dei consigli d’amministrazione americani: si potevano fare soldi anche servendo le masse nere. Così i Settanta videro la proliferazione dei "mercati speciali" (dei neri quindi), le aziende aspiravano a conquistare il consumatore di colore, fino ad allora completamente ignorato.

Negli anni Settanta in Black Enterprise si incontrano spesso degli eufemismi merceologici utilizzati per diffondere i prodotti della General Foods, della Johnson & Johnson, e di altre importanti aziende americane. Per la prima ondata di impiegati di colore, i mercati speciali finivano per essere una specie di trappola di lusso che garantiva agli impiegati di mettere le mani sui beni della vita americana media (villette residenziali, carte di credito, fine di settimana sugli sci) pur mantenendoli segregati e lontani dai centri di maggior profitto e da qualsiasi accesso al potere reale delle grandi aziende. Diventare il vice presidente del settore mercati speciali significava avere meno opportunità di spostarsi nelle aree di distribuzione e di produzione davvero centrali all’azienda per la quale lavoravi. I dirigenti di colore si ritrovavano spesso a essere trascinati davanti agli azionisti come esempio di virtù e uguaglianza e, al massimo, andavano a ingrossare le statistiche consegnate alla Commissione per la Pari Opportunità.

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Come la General Motors e la General Foods, anche la CBS Records nel 1971 aprì il settore mercati speciali (seguita dalla Warner Bros, dalla Polydor, dalla RCA, dalla ABC-Dunhill e da altre importanti case discografiche). Alcune aziende avevano persino il coraggio di battezzare il nuovo settore "Divisione Rhythm and Blues" o, più sfacciatamente, "Divisione Musica Nera". In sostanza si trattava di assumere impiegati Afroamericani per vendere musica pop nera all’interno della comunità e al contempo di scegliere musicisti con potenzialità interrazziali. In termini di possibilità di lavoro, di salari e di anticipi pagati ai musicisti si trattò di un grande passo in avanti, anche se naturalmente la transizione non fu sempre priva di difficoltà. Molte stelle del soul, quelle più attempate e affermate, non riuscirono ad adattarsi alle richieste dei dipartimenti R&B, sempre più interessate al mercato pop. Molti artisti che avevano prosperato nel vecchio sistema (gente come Tyrone Davis, Bobby Womack e Candi Staton) non sopravvissero al cambiamento.

Inoltre ai dirigenti neri di questi dipartimenti - come alle loro controparti alla General Motors o alla Johnson & Johnson - non era concesso di continuare a vendere il proprio prodotto quando questo iniziava a interessare un mercato transrazziale. Con qualche rara eccezione tutti i manager di colore si trovavano di fronte un muro che impediva loro di accedere al vero potere aziendale. Nella musica non c’era segregazione razziale, nel settore discografico sì.

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Nel 1976, dopo duecento anni di storia americana, il paese si concesse una grande festa. Anche la nevrotica New York - allora nelle spire di una tremenda crisi economica - si gonfiò di bei discorsi patriottici inmerlettati di democrazia. Il grande porto fu invaso da navi d’epoca che cantavano l’epica di un’America calda e accogliente che esisteva solo e unicamente in una storia dimentica del genocidio degli indiani d’America, dei linciaggi dei neri e dell’ipocrisia che si diffonde con le parole "Tutti gli uomini sono stati creati uguali".

Il lato oscuro dell’America è composto da tutti quelli che non rientrano nella storia ufficiale – lavoratori obsoleti, giovani senza istruzione che entrano in contatto con il governo americano solo quando ci si inventa qualche nuova politica di rara bassezza umana, mentre questi giovani continuano a vivere in case sporche e cadenti, sommerse di graffiti. La rivoluzione suburbana, la nascita del quartiere residenziale – spalleggiata dal governo e celebrata dalle industrie più importanti (quella automobilistica, energetica, immobiliare e dei materiali plastici) – insieme agli scontri razziali tra neri e ispanici, hanno trasformato larghe porzioni delle nostre città in zone morte, un cupo memento che infanga l’immagine dell’America come terra promessa diffusa durante le celebrazioni del bicentenario.

A metà degli anni Settanta, il Bronx era il simbolo insuperabile delle nostre spaventose politiche urbanistiche. Nonostante il restauro dello stadio degli Yankee e di una squadra che era tornata a vincere, i media erano infestati dalle immagini di edifici rasi al suolo dalle fiamme che lasciavano interi isolati deserti nel Bronx. Al The Tonight Show Johnny Carson e uno stuolo di comici a caccia di una battuta da quattro soldi giocavano con il nome del quartiere per suscitare le risatine patetiche dei new yorkesi. Il quartiere aveva problemi di droga, di gang, e, come molti altri quartieri in fin di vita, non aveva alcun struttura industriale che potesse guidarne la rinascita.

In una lunga serie di film exploitation Hollywood sfruttò l’immagine del South Bronx come nuovo inferno urbano: I Guerrieri della Notte usavano il Bronx come un teatro in cui mettere in scena la loro stilizzata versione della lotta tra gang; in Bronx, 41° Distretto di Polizia Paul Newman dava nuova vita alla sua carriera ormai in ribasso, semplicemente recitando il ruolo di un poliziotto dal cuore d’oro che si struggeva nel selvaggio South Bronx. Qualche anno dopo nel suo bestseller Il falò delle vanità Tom Wolfe avrebbe tracciato la caricatura della più grande fobia new yorkese: perdersi nel Bronx.

Ciononostante nel 1976 il vero Bronx non era affatto una terra di nessuno. Dietro le facciate cadenti, il quartiere era un calderone della creatività più vibrante, spontanea e visionaria, nata dalle commistioni razziali e dal relativo isolamento. Fu all’interno dei confini del Bronx che nacque quella forma espressiva che associamo al nome di hip hop, con i graffiti, la break dance, il rap e lo scratch. È nel Bronx che questi fenomeni affondano le loro radici.

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Break Dance

Nel 1997 i GhettOriginals, un gruppo di superstar della break dance che raccoglieva personaggi fondamentali come K-Swift (Kenny Gabbert) e Crazy Legs (Richie Colon), hanno intrapreso una lunga tourné internazionale sponsorizzata da Calvin Klein. Che ballassero su un palco o in un mall accanto ai negozi C.K., o in qualche scuola, questi uomini piuttosto attempati (e le poche donne che li accompagnavano) intrattenevano il pubblico con mosse e passi che avevano inventato nell’era delle Adidas scocciate e dei jeans Lee a sigaretta.

Li ho visti ballare al P.S. 122, nell’East Village. E poi li ho rivisti al City College di Harlem, e poi di nuovo al Beverly Center Mall di Los Angeles. E ogni volta ho rivissuto quei giorni in cui i breaker facevano il moonwalk dalle parti di Times Square, giusto per qualche centesimo; i giorni in cui le discoteche non erano alla moda se non avevano qualche ragazzino che in un angolo girava vorticosamente sulla propria testa. La storia della break dance però non può essere facilmente confinata nei ricordi nostalgici di qualcuno.

Semplicemente perché i break dancer sono i più ascetici adepti della religione hip hop, ma anche gli eretici più radicali e agguerriti. Negli ultimi, caldissimi anni il loro stile è stato clonato, celebrato, sfruttato, digerito e risputato dalla macchina della cultura pop. La break dance non era l’unico stile al quale ballare l’hip hop negli anni Ottanta: a una festa potevi metterti a ballare il Freak, il Smurf, il Patty Duke o al massimo il Wop. Erano tutti balli divertenti, passi semplici, relativamente socievoli, diciamo. Al contrario, la break dance era spettacolare, pericolosa e profondamente fondata sulla competizione. Ma se i rapper con contratti da star hanno verbalizzato la loro devozione per l’hip hop, i ballerini che hanno girato sulla testa e si sono mossi al ritmo di It’s just Begun per vent’anni sono riusciti a racimolare qualche contratto con un’azienda di vestiti, un po’ di fama e ben pochi soldi.

La storia della break dance, come quella dei graffiti, ha avuto due fasi. La prima risale agli anni Settanta e ha coinciso con l’era della musica disco. Ciò che venne definito "breaking" in realtà altro non era se non un miscuglio di passi presi da diverse fonti: i passi strusciati di James Brown; i cubisti dinamici di Soul Train, lo spettacolo televisivo di Don Cornelius perennemente trasmesso in replica; i movimenti a scatti del robottino inventato da Michael Jackson per il suo successo del 1974, Dancin’ Machine; le spaccate e i salti atletici dei film di kung fu – elementi tutti rimaneggiati e provvisti di nuova energia grazie all’immaginazione dei neri di New York.

Stando ai maestri, i primi breaker erano membri di gang che ballavano in piedi all’angolo di qualche strada, avevano nomi improbabili tipo El Dorado, Sasa, Mr. Rock e Nigger Twins ed erano inequivocabilmente e sfrontatamente Negri. Per loro la break dance era solo un modo per ballare a tempo, non uno stile di vita. Nella comunità afroamericana la break passò come una moda. E sarebbe stata completamente dimenticata se non ci fosse stato lo zelo religioso dei ragazzini portoricani.

In Rap Pages Trac 2, del fondamentale gruppo break Starchild La Rock, ricorda la doppia vita della break dance con queste parole: "Vedi, allora le jam erano praticamente novanta per cento roba da neri: i b-boys erano tutti neri, ma per loro la break dance era una specie di fase, una moda. Ti dico questa storia, perché avresti dovuto vedere la loro faccia quando anche noi ci siamo messi a fare la break. Ogni volta che un ispanico si metteva a ballare, dicevano cose tipo: ‘Yo, sarà mica break dance quella’. Per loro la moda era finita a metà degli anni Sessanta e si erano messi a fare altre storie, tipo i graffiti o i DJ. Ma noi tiravamo su un casino di gente che veniva a vederci. In disco al centro del cerchio c’era sempre qualche ragazzo ispanico che ballava. E quando Charles Chase, che era portorico, ha iniziato a fare il DJ, be’ per noi è stata una botta perché finalmente c’era un latino che poteva rappresentarci, capito? Non importava più cosa dicevano i neri: avevamo il nostro DJ portorico e avremmo ballato alla portorica".

Sono stati i latini a trasformare la break dance in una competizione. Nella migliore delle tradizioni della criminalità giovanile, i gruppi di break dance si sfidavano in un campo da basket, all’angolo di qualche strada, nelle fermate della metropolitana. Armati di pezzi di cartone e linoleum, niente più coltelli o pistole, si mettevano in cerchio, due alla volta e iniziava il duello: ciascuno cercava di imitare le mosse dell’altro, finché uno dei due gruppi non veniva dichiarato vincitore. Come il basket, anche la break dance era uno sport di gruppo che però confidava sulle capacità del singolo. Una forma di lotta stilizzata che evocava i combattimenti e le mosse di kung fu dei film di Bruce Lee. Il cappello girato al contrario, indossato per poter ruotare sulla testa, simboleggiava anche un atteggiamento aggressivo che informava quella cultura. Grandmaster Flash una volta ha detto: "Quando i ballerini cominciavano a darci dentro davvero e si pigliavano a calci e spingevano la gente a terra, allora il cappellino si spostava di traverso. Era come dire, tipo: ‘Adesso non sto più ballando, adesso ti faccio male’".

La fama della break dance scoppiò nel 1984 grazie a un documentario della PBS, Style Wars, accompagnato da tre filmetti di Hollywood: Beat Street, Breakin’ e Breakin’ 2: Eletric Boogaloo. E i breaker cominciarono a comparire in alcuni video: dal classico R&B della diva Gladys Knight, Save the Overtime (For Me), fino a Once in a Lifetime dei funkartisti Talking Heads.

Ma il contributo più sostanziale della break dance fu la consacrazione del ruolo dei ballerini ispanici nello sviluppo musicale dell’hip hop. It’s just Begun di Jimmy Castor, Apache dell’Incredibile Bongo Band e Dance to the Drummer’s Beat di Herman Kelly non diventarono dei successi hip hop in un vuoto assoluto: i DJ mettevano su quei dischi lì, li scoprivano, ma spesso erano i breaker che ne attestavano il successo. Il loro gusto, il modo in cui reclamavano quelle canzoni per ballarci dietro la break hanno influenzato i DJ e i rapper che hanno aperto i sentieri del sound hip hop.

 

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