Incontriamo
Marco Cingolani, tra le voci più personali dell'arte italiana - quasi
il controcanto di un artista arrabbiato che parla con la saggezza del
maestro. Lettore onnivoro, bibliofilo e - di recente - persino biblista,
innamorato degli anni Ottanta e dell'editoria più bislacca, Cingolani
tiene "sempre un piede sull'orlo del fallimento", non accontentandosi
mai dei risultati acquisiti. La sua pittura lascia la cronaca e i soggetti
d'attualità per confrontarsi in un corpo a corpo con i testi sacri,
con l'uomo, con la storia e persino con i classici.
© Trax
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Trax
Oltre alle arti visive hai sempre coltivato altri interessi culturali:
hai scritto libri, fondato almeno sei o sette riviste, elaborato lunghe
e complesse dichiarazioni di poetica. Quanto incide questa impostazione
teorica, o più generalmente culturale, sul tuo lavoro? È necessaria
alla tua pittura?
Marco
Cingolani
Fino a due anni fa avevo un casellario di risposte ben precise: un
progetto culturale artistico organizzato e di facile comunicazione.
Da un po’ di tempo mi sfugge molto e ho perso buona parte delle certezze
che avevo una volta. Due anni fa ti avrei risposto che è indispensabile
avere una cultura curiosa, a vasto raggio. Ora, non so se è indispensabile
agli altri: lo resta per me, perché sono curioso, mi piacciono le
informazioni, le nozioni persino, la storia, il succedersi dei fatti.
Trax
Eppure proprio da due anni a questa parte il tuo lavoro si è fatto
visivamente più colto: sei passato dalla cronaca all’iconologia.
Marco
Cingolani
Credo che si debba a un processo di maturazione personale. Da giovane
avevo un’attitudine frontale, diretta alla vita. Ora ho un atteggiamento
forse più contemplativo, avvolgente. E naturalmente sulle mie scelte
incide il contesto: ciò che facevo anni fa era influenzato dal lavoro
di altri, contro i quali reagivo. I quadri più diretti, le dichiarazioni
visive più forti – come Moro, il Papa – servivano come reazione alle
strategie di decostruzione del senso.
Volevo tornare
a un centro, se vuoi, ai problemi di senso e di identità: cercavo
temi precisi, osservati, mai inventati, in cui la realtà agisse in
modo simbolico, trasformando gli eventi in fatti di cronaca vera.
Ma, attenzione, cronaca nel senso pieno del termine: come nella Bibbia,
dove hai gli omicidi, gli stupri, l’amore. Dove c’è storia, anzi ci
sono fatti: il libro di dio è un libro di fatti, perché non c’è nulla
di più spirituale del quotidiano.
Trax
Ma non c’è una volontà di evasione nei tuoi ultimi lavori, quasi una
nuova leggerezza?
Marco
Cingolani
Penso di no: non c’è una visione né disimpegnata né privata, se è
quello che intendi con "evasione". Piuttosto è una pittura meno dichiarativa,
è questa la differenza. I titoli, i soggetti sono comunque molto espliciti,
di forte connotazione, perché sono temi o personaggi tratti dalla
Bibbia, oppure motivi evocativi, ma che rimandano a situazioni molto
precise: penso a Ring che è il quadro di una lotta, di uno
scontro tra il buono e il cattivo, Giacobbe contro dio, tra il caldo
e il freddo. È sempre la dicotomia occidentale tra più o meno, che
ritrovi già nei primi grafici che facevo. Vedi, ci sono costanti che
soggiacciono al mio lavoro, anche perché mi occupo di cultura occidentale
e questi motivi ritornano inevitabilmente. Però
il mio lavoro si è fatto forse più pittura e meno immagine, e anche
il titolo o il soggetto, che prima erano il perno del quadro, ora
potrebbero scomparire. I lavori potrebbero vivere senza soggetto.
Io lo sottolineo, perché mi piace, ma spero che i quadri possano vivere
in sé, così come non conosco i titoli di Polke perché sono in tedesco,
eppure li capisco come immagine. Voglio una pittura che possa parlare
da sola.
Trax
Si dice che tu abbia iniziato a dipingere dopo aver intervistato Mimmo
Paladino, che ti avrebbe regalato una scatola di pastelli, incoraggiandoti
a diventare pittore. Hai mai sentito un tramando diretto con la sua
generazione? C’è stata una discendenza o uno scontro con la Transavanguardia?
Marco
Cingolani
C’è stato un fortissimo investimento sentimentale, un imprinting quasi.
In particolare con Paladino, ci fu una specie di affiliazione sentimentale,
per quanto non ci frequentassimo molto. Ma questo rapporto mi ha costretto
a cambiare lavoro e a fare cose che non erano assolutamente nelle
mie corde, proprio per sfuggire a una fascinazione immediata che avrebbe
potuto risolversi in una forma di epigonismo. Anche i quadri più dichiarativi,
i Moro, il Papa, le interviste, erano figli di un atteggiamento di
autodisciplina. Solo dopo un lungo percorso sono tornato a dipingere
secondo la mia libertà e facilità, avendo però espulso – spero – le
tossine della Transavanguardia.
Trax
E qual era invece il tuo rapporto con quello che ti succedeva intorno,
soprattutto a Milano? E penso ai tuoi quadri nel contesto del neoconcettuale
degli anni Ottanta. Ricordo un’intervista con Pinto su "Flash Art"
in cui quasi litigavate a proposito di decostruzionismo e postmodernità.
Marco
Cingolani
C’era e c’è ancora un certo attrito tra me e le posizioni concettuali.
Ora, senza voler far nomi, ma è come se io fossi monoteista e loro
fossero politeisti. Sono due diverse visioni del mondo: io credo che
il decostruzionismo sia un’indispensabile stagione dello spirito che
si è conclusa nel secolo scorso, nel Novecento. Quindi nel 1989 mi
sembravano problemi chiusi, inutilizzabili. Anche le riflessioni sui
media mi sembravano esaurite. Se pensi a McLuhan e al suo postulato
"il medium è il messaggio", ti accorgi che è applicabile solo a tempi
di infanzia tecnologica: la scoperta tecnologica, prima o poi, si
svuota, diventa un semplice mezzo. E allora torna alla ribalta il
contenuto: la mia volontà era ridare importanza al contenuto. Non
mi interessa la riflessione sulla pittura, ma ciò che la pittura può
mostrare. In letteratura in fondo, con esiti più o meno opinabili,
si è tornati al testo, al testo scritto, come prodotto di una funzione
creatrice, vivificatrice. Per raggiungere questi obiettivi, bisogna
superare l’abisso della decostruzione. Ecco
le ragioni del mio liquidare Duchamp: significava dire "Duchamp è
un artista del secolo scorso". Ormai è come una borsa di Louis Vitton
venduta da un vucumprà: è uno status symbol di periferia.
Trax
Ciononostante i tuoi coetanei avevano Duchamp: un maestro, se vuoi,
al quale guardare. Tu avevi una figura che nel tuo universo avesse
lo stesso valore che Duchamp aveva nel loro?
Marco
Cingolani
Ma, vedi, dal mio punto di vista loro erano degli antiquari. Io cercavo
un altro committente, che non era né il museo né la borghesia. Era
dio, in un certo senso: quando il committente è dio, si dipingono
i cieli di Tiepolo. Quando il committente è la borghesia, dipingi
marine e paesaggi. Se poi il committente è la piccola borghesia, allora
costruisci oggetti, perché sono le cose che il piccolo borghese riconosce
e mette in casa. Ormai in casa si prende un’installazione piuttosto
che una resurrezione, che invece mette in scacco la normale percezione
della vita. Ecco cos’era Il ritrovamento del corpo di Moro:
era il ritrovamento di Cristo e di qualsiasi morto. E L’attentato
al Papa diventa attacco all’Occidente, amplificato dai media,
come in una specie di gigantesca agorà.
Trax
Tu attribuisci alla pittura una capacità d’azione, di coinvolgimento
e adesione alla vita. Insomma usi per la pittura termini che altri
utilizzano quando parlano di installazioni, di azioni ecc.
Marco
Cingolani
Sì, perché la pittura è l’unica arte che non esiste da sola. Ciò che
si dice sull’arte povera, sulla necessità di abbattere il diaframma
della tela, ho sempre pensato fossero balle, tutte balle. L’ho anche
scritto: non esistono artisti politicamente impegnati, esistono artisti
esteticamente impegnati. Se non altro perché gli artisti sono sostanzialmente
degli evasori fiscali, quindi hanno ben poco di politicamente impegnato.
Gli artisti dell’arte povera hanno sempre avuto un rapporto diretto
con il potere: dall’inizio il loro lavoro era legato alla committenza
del potere terreno e del museo. Quale potere reale hai riscontrato
in un’opera dell’arte povera a vent’anni di distanza? Quale traccia
ha lasciato questo intervento reale? Nessuno. Dopo tuttoWarhol ha
inciso sul reale più che tutta l’arte povera messa insieme. Il segno
l’hanno lasciato Warhol, Picasso, in questo momento – per certi aspetti
– lo ha lasciato Damien Hirst, ma sicuramente né l’arte povera né
quella concettuale.
Trax
Che traccia dovrebbe lasciare la tua opera? Sulle magliette, come
quella di Picasso, di Warhol, o nell’immaginario, in una scala cromatica…
Marco
Cingolani
Non lo so, temo. Certo, non lavori per lasciare una traccia. Forse,
mi piacerebbe contribuire a riportare nel mondo un sentimento, una
disposizione verso il sacro e lo spirituale, verso dio, mettiamola
così. Ma in particolare verso il dio giudaico cristiano. Non quello
gnostico o new age. Vorrei contribuire con una virgola pittorica a
ripresentare al mondo i doni di dio sulla terra. Ma per fare ciò,
devi aderire al mondo. Perché il mondo è fatto di pura tentazione,
è del diavolo e dio diventa ammonizione o consolazione. Vorrei che
i quadri contribuissero a parlare di questa bellezza.
Trax
Chi più si è avvicinato a questa visione in pittura?
Marco
Cingolani
Sicuramente Bacon: non importa la fede personale dell’artista. Guardando
un quadro di Bacon trovi un enorme lavoro sulla pittura, con una costruzione
spaziale inusitata, colori che prima non esistevano e in più ci vedi
un corpo a corpo con l’uomo. E quando si parla di dio, non si parla
di natura in senso astratto o spirituale, ma si parla sempre e solamente
di uomo. Del suo rapporto con il creato: il mondo non agisce da solo,
si muove in relazione all’uomo. Per certi versi ci arrivano anche
Paladino e Cucchi: hanno anche loro questo afflato, ma c’è una prospettiva
neopagana, quasi, che trovo poco interessante.
Trax
Per quanto stravolte siano le loro immagini, sono tutti pittori che
hanno una specie di vibrazione classica: cioè un equilibrio miracoloso,
prima della crisi. C’è una aspirazione classica nel tuo lavoro?
Marco
Cingolani
Solo ciò che è classico rimane, perché l’uomo è classico: lo è nella
ripetizione dei sentimenti, della amore, della morte. Persino in trent’anni
di cambiamenti, ritrovi delle costanti. Pensa a un giornale come "Cronaca
vera": ecco, in trent’anni è cambiato tutto, il costume, l’erotismo,
la censura. Ma c’è una classicità di temi. Oppure, pensa alla differenza
tra Divina Commedia e La terra desolata: a seicento
anni di distanza Eliot e Dante parlano della stessa identica cosa.
Parlano con parole diverse, ma dello stesso argomento, perché non
esistono argomenti diversi. La classicità si raggiunge scrivendo la
sola ed ennesima grande storia sull’uomo. E la grande storia dell’uomo
usa la cronaca, il fatto, per riscrivere un racconto che sia al contempo
identico al passato e figlio del proprio tempo, come fa Eliot.
Trax
Quindi partire dalla cronaca, ma senza fare dell’aneddotica? Come
si sfugge all’aneddoto?
Marco
Cingolani
Una volta mi chiesero perché non avessi mai dipinto un quadro su Tienammen.
Io non volevo fare un quadro ideologico, perché in sé la libertà non
è un valore. L’uomo la possiede comunque, e non è necessario che la
sperimenti in una precisa vita sociale. Il mondo può anche essere
un luogo politicamente oppresso, ma ciò non toglie che l’uomo conservi
comunque la propria libertà in qualsiasi sistema politico. Io non
dovevo celebrare o condannare un’ideologia, nemmeno con le opere su
Moro: non c’è ideologia, quanto una specie di primitivismo, la ricerca
di un fondamento del rapporto tra uomo, dio e le cose, rapporto che
è anteriore all’ideologia.
Ma in fondo è un falso problema, perché ci sono aneddoti anche dove
non ci sono immagini né fatti. Buona parte della pittura astratta
italiana è aneddotica: aneddoti all’interno della pittura. Al contrario,
David è un pittore di fatti, di cronaca, ma nessuno si sognerebbe
di accusarlo di aneddotica. Su di me agisce anche una tradizione cattolica
che mi fa credere che nei fatti risieda la verità. Secondo me, la
pittura nasce con il cattolicesimo, è una questione cattolica, ed
è quindi un storia di fatti ed eventi precisi, ridipinti 1500 anni
dopo. Ridipinti per tenerli in vita, per farli rivivere. Quindi io
non ho paura dell’aneddoto.
Trax
Come scegli i motivi iconografici del tuo lavoro?
Marco
Cingolani
Seduzione e selezione,
direi. Per esempio, nel ’95 feci una mostra, Terra e cielo da sempre
uniti: il titolo l’avevo inventato prima di scoprire che in qualche
modo si riferisse alla scala di Giacobbe. Solo di recente ho scoperto
– dopo aver dipinto La morte di Dalì – che Dalì scrisse una
conferenza in cui si attribuiva a Giacobbe la scoperta del DNA. La
scala di Giacobbe era il DNA e gli angeli che salivano e scendevano
erano l’RNA: mi era sembrata un’intuizione visiva splendida. E il
DNA diventava l’impronta di dio in noi. Così ho riletto Giacobbe e
ci ho trovato una conferma. La Bibbia racconta che Giacobbe incrocia
il bestiame di Làbano con uno strano rito di frasche: riesce a far
riprodurre solo il proprio bestiame e scappa. Così, con la benedizione
di dio, Giacobbe usa il DNA per far riprodurre il bestiame pezzato.
Anche questa è una costante nella Bibbia: dio odia sempre il monocromo,
l’omogeneo, mentre apprezza la contraddizione, l’eterogeneità, il
colore e la differenza. La torre di Babele è in realtà un dono di
dio, che crea la differenza e la polifonia, la ricchezza del mondo.
Dio disperde sempre l’omogeneità: la bibbia inizia con una dispersione
e una crisi. Persino l’eresia cresce e si rigenera nella bibbia: il
cattolicesimo come eresia dell’ebraismo e quindi come rinnovamento,
dispersione appunto. Questo accade perché la vita va vissuta, non
capita: dio mette nella condizione di vivere senza capire.
Trax
Metaforicamente è anche ciò che accade nella tua pittura: che è continuo
cambiamento e contraddizione persino. Scontro tra dichiarazione poetica,
complessità di riferimenti e leggerezza dell’immagine…
Marco
Cingolani
Non so se è proprio così, di sicuro da due anni ormai mi sono consegnato
completamente alla pittura. La pittura non è più un mezzo, ma uno
scopo. È quasi ciò che avviene con la preghiera, che non è un mezzo
di avvicinamento a dio, quanto uno scopo in sé. Quando il mezzo diventa
scopo, ci si libera dai fastidi di sistema, dalle preoccupazioni e,
solo allora, nasce qualcosa di eccezionale. Quando la poesia è mezzo
di espressione, ti trascini dietro vizi e pregi, ma non arrivi da
nessuna parte.
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