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L e v M a n o v i c h
Cos'è il cinema digitale?

 

© Lev Manovich & Trax

Cinema, l'arte dell'indice 

Finora gran parte delle speculazioni sul cinema nell’era digitale si è concentrata sulle possibilità della narrazione interattiva. È facile immaginare perché: molti spettatori e critici assimilano il cinema all’arte della narrazione e quindi i nuovi mezzi digitali sono visti come lo strumento capace di rinnovare il modo in cui il cinema racconta storie. Tuttavia, per quanto possa essere affascinante l’idea di uno spettatore che partecipa attivamente alla narrazione - scegliendo sentieri diversi nello spazio narrativo e interagendo con i personaggi -, questa concezione si appunta su un solo aspetto del cinema, e nemmeno sul più essenziale o unico: la narrazione.

La sfida posta dai mezzi digitali al cinema va al di là del problema della narrazione. I mezzi digitali ridefiniscono l’identità profonda del cinema. In un simposio svoltosi a Hollywood nella primavera del 1996, uno dei relatori si è provocatoriamente riferito al cinema come "piattume", agli attori come "organismi" o "agenti morbidi". La provocazione di Scott Billups - tra i primi ad avvicinare Hollywood a Silicon Valley - suggerisce che quelle che erano le caratteristiche principali del cinema, oggi, sono solo delle opzioni, praticabili e lecite quanto altre.

La crisi d’identità del cinema colpisce anche i termini e le categorie utilizzate in passato dalla teoria cinematografica. Il teorico francese Christian Metz scrisse nel 1970 che "la maggior parte dei film realizzati al giorno d’oggi - siano belli o brutti, originali o no, commerciali o no - hanno in comune la caratteristica di raccontare storie; in questo senso appartengono tutti allo stesso, unico genere, o meglio, a una specie di ‘surgenere’". Identificando il cinema fiction come un surgenere del cinema del ventesimo secolo, Metz non si è preoccupato di menzionare un’altra caratteristica, data per scontata per molti anni: i film fiction si basano sull’azione reale, ovvero consistono soprattutto in fotogrammi non ritoccati che registrano eventi reali accaduti nello spazio fisico reale. Oggi, nell’era della simulazione computerizzata e dell’elaborazione digitale, quelle caratteristiche diventano particolarmente importanti per definire la specificità del cinema del ventesimo secolo. Dal punto di vista di uno storico del cinema del futuro, le differenze tra il cinema classico hollywoodiano, i film d’autore europei e quelli d’avanguardia (eccetto i film astratti) appariranno meno rilevanti: tutte quelle forme cinematografiche sfruttano la registrazione fotografica del reale.

In questo saggio mi occuperò degli effetti della cosiddetta rivoluzione digitale sul cinema, così come è stato definito dal surgenere "arte della narrazione del reale".

Nella storia del cinema abbiamo assistito alla creazione di un vasto repertorio di tecniche (illuminazione, direzione artistica, uso di diverse pellicole e obiettivi ecc.) che modificano la registrazione più semplice e diretta, realizzata da una cinepresa standard. Tuttavia anche dietro alle immagini cinematografiche più stilizzate riusciamo a scorgere l’opacità, la sterilità, la banalità delle prime foto del diciannovesimo secolo. Indipendentemente dalla complessità delle innovazioni stilistiche, il cinema continua ad attingere ai depositi della realtà, a quegli esempi di immagini ottenute con processi prosaici e metodici. Il cinema è nato da quello stesso impulso che ha generato il naturalismo, la stenografia e i musei delle cere. Il cinema è l’arte dell’indice - direbbe Peirce: il tentativo di trasformare le impronte in arte.

Anche per Andrej Tarkovskij - pittore cinematografico per eccellenza - l’identità del cinema si inscrive nella capacità di registrare il reale. Durante un dibattito tenutosi a Mosca negli anni Sessanta a Tarkovskij fu chiesto se fosse interessato a realizzare film astratti. Rispose che non esiste un cinema astratto. L’espressione base del linguaggio cinematografico è l’apertura dell’otturatore, con la pellicola che inizia a srotolarsi, registrando ciò che si manifesta davanti all’obiettivo. Per Tarkovskij quindi il cinema astratto è di fatto impossibile.

Ma cosa succede all’identità indicale del cinema quando è possibile generare delle scene realistiche con un sistema di animazione computerizzato; oppure modificare fotogrammi o intere sequenze con l’ausilio di un programma di disegno digitalo; o ancora, tagliare, distorcere, allargare e montare immagini digitalizzate così da ottenere una assoluta credibilità fotografica, senza aver di fatto filmato nulla?

In questo saggio affronterò il significato di questi cambiamenti nel processo della realizzazione cinematografica, inquadrandoli nella storia culturale delle immagini in movimento. In questo contesto, la costruzione manuale delle immagini del cinema digitale rappresenta un ritorno alle pratiche precinematografiche del diciannovesimo secolo, quando le immagini erano dipinte a mano e animate artigianalmente. All’inizio del ventesimo secolo il cinema delegò queste tecniche manuali all’animazione e si definì come un medium di registrazione del reale. Ma con l’ingresso del cinema nell’era digitale le tecniche manuali tornano a essere al centro del processo cinematografico. Di conseguenza il cinema non può più essere distinto dall’animazione. Tra qualche pagina traccerò una definizione del cinema digitale astraendo i tratti comuni e le metafore descrittive di un gruppo di software e hardware che stanno rimpiazzando la tecnologia del cinema tradizionale. Questi tratti e queste metafore suggeriscono una diversa logica dell’immagine digitale in movimento. Questa logica subordina il fotografico e il cinematografico al pittorico e al grafico, distruggendo l’identità del cinema come mezzo di registrazione.

Infine esaminerò diversi contesti produttivi che già utilizzano le immagini digitali in movimento - film hollywoodiani, video musicali, giochi in Cdrom e opere d’arte - così da vedere se e come questa nuova logica ha preso piede.

 

Breve archeologia delle immagini in movimento 

Come testimoniato dai nomi originali (kinetoscopio, cinematografo, moving pictures) il cinema è stato definito, sin dalla nascita, come arte del movimento, l’arte che per prima era riuscita a creare una illusione efficace della realtà dinamica. Se studiamo il cinema in questi termini (e non come l’arte della narrazione audiovisiva, né come l’arte delle immagini proiettate, né tantomeno come arte dello spettacolo di massa), balza subito agli occhi la continuità che lo lega alle tecniche precedenti di costruzione e montaggio delle immagini in movimento.

Queste tecniche primitive condividevano un certo numero di caratteristiche comuni. Innanzitutto si fondavano su immagini dipinte o disegnate a mano. Le lastre della lanterna magica vennero dipinte a mano almeno fino agli anni Cinquanta del diciannovesimo secolo, e lo stesso avveniva per le immagini usate nel Phenakistiscopio, nel Thaumatropio, nello Zootropio, nel Praxiscopio, nel Choreutoscopio e in molti altri antenati del cinema. Persino per i suoi celebri seminari in Zoopraxiscopio, durante gli anni Ottanta del secolo scorso, Muybridge aveva usato non delle vere fotografie, ma disegni a colori, desunti da foto.

Non solo le immagini erano create a mano, ma erano anche animate manualmente. Nella Phantasmagoria di Robertson - realizzata per la prima volta nel 1799 - gli operatori alle lanterne magiche si muovevano dietro a uno schermo per far avanzare e retrocedere le immagini proiettate. Più spesso, però, gli operatori si limitavano a usare le mani - e non tutto il corpo - per animare le immagini. Una tecnica di animazione utilizzava delle lastre meccaniche, composte da più strati. Per animare le immagini l’operatore spostava uno a uno gli strati della lastra. Anche i giocattoli ottici diffusi nelle case del diciannovesimo secolo richiedevano procedimenti manuali per creare il movimento: tirare le corde del Thaumatropio, far girare il cilindro dello Zootropio, ruotare la maniglia del Viviscopio.

Fu solo nell’ultimo decennio del diciannovesimo secolo che si riuscì a combinare la proiezione automatica delle immagini con la loro generazione automatica. L’occhio meccanico si fuse con un cuore meccanico: la fotografia incontrò il motore. Nacque il cinema, un regime molto particolare del visivo. L’irregolarità, l’eterogeneità, gli incidenti e le altre tracce del corpo umano - che prima si accompagnavano inevitabilmente alle immagini in movimento - vennero rimpiazzate dall’uniformità della visione meccanica. Una macchina - che come una catena di montaggio - sputava immagini, quasi tutte uguali: stessa forma, stesse dimensioni, tutte alla stessa velocità, come soldati in marcia.

Il cinema eliminò anche il carattere discreto della spazialità e del movimento delle immagini animate. Prima del cinema l’elemento in movimento era separato visivamente dallo sfondo statico - come dimostrano le lastre meccaniche o il Praxinoscopio di Reynaud (1892). Lo stesso movimento era limitato e coinvolgeva solo una figura ben definita, non l’intera immagine. Così i movimenti tipici erano i rimbalzi di una palla, il movimento di una mano o di un occhio, il volo di una farfalla sopra la testa di un bambino estasiato: semplici vettori tratteggiati su un’immagine immobile.

I predecessori del cinema avevano qualcos’altro in comune. Con il crescere dell’ossessione per il movimento - tipica dell’Ottocento - divennero molto popolari quegli strumenti in grado di animare più immagini contemporaneamente. Tutti - dallo Zootropio al Phonoscopio, dal Tachyscopio al Kinetoscopio - utilizzavano delle sequenze circolari, basate su azioni complete che potessero essere ripetute all’infinito. Il Thaumatropio (1825) - composto da un disco, mosso da una corda, con due diverse immagini dipinte sulle due facciate - era essenzialmente una sequenza circolare, nella sua forma più banale: due elementi che si rimpiazzavano l’un l’altro in successione.

Nello Zootropio (1867) e nelle sue diverse variazioni, circa una dozzina di immagini veniva dipinta sul perimetro di un cerchio. Il Mutoscopio - diffuso in America negli anni Novanta dell’Ottocento - aumentava la durata delle sequenze circolari, semplicemente aumentando il numero di immagini.

Anche il Kinetoscopio (1892-96) di Edison - la prima macchina cinematica moderna ad utilizzare una pellicola - si avvalse sistematicamente di sequenze ripetibili all’infinito: una ventina di metri di film per una sequenza di venti secondi al massimo - un genere senza molti sviluppi possibili, rapidamente spazzato via dal cinema e dalla sua narrazione a più ampio respiro.

 

Dall'animazione al cinema 

Una volta stabilizzatosi come tecnologia, il cinema tagliò tutti i ponti con le proprie origini. Tutto ciò che aveva caratterizzato le immagini in movimento prima del XX secolo - la costruzione manuale delle immagini, le sequenze circolari, la natura discreta del movimento e dello spazio - venne delegato al parente bastardo del cinema, al suo surrogato, alla sua ombra: l’animazione. L’animazione del ventesimo secolo divenne un deposito in cui accumulare le tecniche del diciannovesimo secolo, spazzate via dal cinema.

Nel ventesimo scolo l’opposizione tra gli stili del cinema e dell’animazione hanno definito la cultura dell’immagine in movimento. L’animazione mette in primo piano il proprio carattere artificiale, ammettendo apertamente di lavorare con immagini che sono semplici rappresentazioni. Il suo linguaggio visivo è accostabile più alla grafica che alla fotografia. È discreto e discontinuo: personaggi ritratti con tratti sommari che si muovono davanti a sfondi statici e dettagliati; movimenti irregolari e frammentari (opposti all’uniformità impersonale del cinema - "verità a ventiquattro fotogrammi al secondo", diceva Godard) e uno spazio costruito dalla sovrapposizione di strati diversi di immagini.

Al contrario il cinema si sforza di cancellare qualsiasi traccia del suo processo produttivo, incluso il tentativo di farci credere che le immagini sono pure e semplici registrazioni e non ricostruzioni. Il cinema nega anche che la realtà ritratta non esiste al di fuori dell’immagine cinematografica, cela il fatto che l’immagine sia nata fotografando uno spazio di per sé inesistente e impossibile, costruito con modelli, specchi, filtri e combinazioni di illusioni ottiche. Il cinema finge di essere una semplice registrazione di una realtà già esistente: mente allo spettatore e a se stesso. L’immagine pubblica del cinema si fonda sull’aura della realtà catturata sulla pellicola, diffondendo l’idea che il cinema fotografi ciò che esiste e non ciò che non è mai esistito. Tant’è che gli effetti speciali - dall’uso di specchi e miniature a quello di filtri e trucchi in fase di sviluppo, insomma, tutti quegli espedienti che dimostrano che il cinema non è molto diverso dall’animazione - sono stati spinti alla periferia del cinema sia dagli storici sia dai critici, quanto dagli stessi professionisti della pellicola. Oggi, con il passaggio ai mezzi digitali, queste tecniche dimenticate si riconquistano il ruolo della prima donna.

 

Cos'è il cinema digitale? 

Un segno tangibile di questo cambiamento è il nuovo ruolo che gli effetti speciali computerizzati si sono conquistati nell’industria hollywoodiana. Gli ultimi grandi successi di Hollywood sono stati conquistati a colpi di effetti speciali. Hollywood è riuscita persino a creare un nuovo minigenere - il Making di...: video e libri che illustrano la creazione degli effetti speciali.

Fino a poco tempo fa gli studios erano gli unici a potersi permettere gli strumenti digitali e i tecnici specializzati. Ma la diffusione dei mezzi digitali non coinvolge solo Hollywood, ma l’intera concezione della produzione cinematografica. I processi della creazione di un film si rinnovano mano a mano che i mezzi digitali sostituiscono quelli tradizionali. Qui di seguito descriverò i nuovi principi del cinema digitale, validi tanto per le produzioni indipendenti, quanto per quelle industriali, applicabili sia all’hardware più costoso e avanzato, sia a quello del dilettante.

1) Piuttosto che filmare la realtà, oggi è possibile creare delle sequenze cinematografiche con l’ausilio di un programma di animazione in tre dimensioni. Perciò la ripresa dal vivo perde il ruolo di materia prima della costruzione cinematografica.

2) Una volta digitalizzata (o registrata direttamente in formato digitale), la realtà filmata si libera del legame indicale che costituiva la relazione privilegiata del cinema tradizionale. Il computer non distingue tra immagini ottenute fotograficamente e quelle create da un programma di disegno o di animazione in 3D: per un computer le immagini sono tutte uguali, perché sono costruite con lo stesso materiale - il pixel. E i pixel, indipendentemente dalla loro provenienza, si prestano a essere facilmente alterati, sostituiti e scambiati. La ripresa diretta viene così degradata al livello di una qualsiasi soluzione grafica, identica alle altre immagini create manualmente.

3) Se nel cinema tradizionale la ripresa dal vivo non veniva rimaneggiata, ora funziona come un materiale grezzo, destinato alla composizione, all’animazione e al morphing. Così, mentre il realismo visivo resta delegato al processo cinematografico, il cinema ottiene la plasticità che fino a poco tempo fa era esclusiva della pittura e dell’animazione. Per usare il suggestivo nome di un software molto diffuso, i registi digitali lavorano con una "realtà elastica". Ad esempio, la sequenza d’apertura di Forest Gump (Robert Zemeckis, Paramount Pictures, 1994, effetti speciali della Industrial Light and Magic) insegue il lungo e intricato volo di una piuma. Per creare quella ripresa, la vera piuma è stata filmata in varie posizioni su uno sfondo blu, quindi è stata animata e sovrapposta su una sequenza paesaggistica. Il risultato è un nuovo tipo di realismo che potrebbe essere descritto come "qualcosa che è pensato per sembrare possibile, per quanto sia irreale".

4) In passato il montaggio e gli effetti speciali erano attività rigidamente separate. Il tecnico di montaggio lavorava sull’organizzazione di una sequenza di immagini, mentre l’elaborazione diretta dell’immagine spettava a chi si occupava degli effetti speciali. Il computer distrugge questa separazione. Grazie ai programmi di disegno o all’elaborazione algoritmica, la manipolazione di una singola immagine è semplice quanto il montaggio: entrambi si riducono a un semplice ‘taglia e incolla’. Come suggerito dal nome di questo comando, l’elaborazione delle immagini digitali (o dei dati digitali) non è sensibile alle differenze di spazio e tempo, né a quelle di scala. Perciò riordinare una sequenza di immagini nel tempo, ricomporle in un solo spazio, modificare alcune parti di un’immagine o cambiare un solo pixel sono ormai operazioni molto simili l’una all’altra, sia a livello pratico sia a quello concettuale.

5) Dati i principi appena formulati, possiamo definire il cinema digitale con questa equazione: cinema digitale = ripresa dal vivo + pittura + elaborazione delle immagini + montaggio + animazione computerizzata a due dimensioni + animazione computerizzata a 3D.

La ripresa dal vivo può essere ottenuta con pellicola, video o direttamente in formato digitale. La pittura, l’elaborazione delle immagini e l’animazione pertengono tanto all’elaborazione di immagini già esistenti, quanto alla creazione di nuove immagini. In realtà nel cinema digitale crolla la distinzione tra creazione ed elaborazione delle immagini - che invece era fondamentale nel cinema tradizionale (riprese vs. sviluppo in camera oscura; produzione vs. postproduzione); ora ogni immagine - indipendentemente dall’origine - passa attraverso una lunga serie di programmi prima di entrare nel film.

Cerchiamo di riassumere i concetti sviluppati finora. La ripresa dal vivo è ormai una semplice materia grezza destinata all’elaborazione manuale: animazione, inserimento di immagini in 3D completamente costruite al computer, pittura ecc. Le immagini finali risultano costruite manualmente partendo da diversi elementi, per lo più creati dal nulla e modificati a mano.

Perciò il cinema digitale è una forma particolare di animazione che utilizza la ripresa dal vivo come una tra le varie materie prime disponibili. E pertanto rientra in quella breve storia delle immagini in movimento che abbiamo tracciato nel paragrafo precedente La costruzione manuale e l’animazione hanno dato vita al cinema e sono state relegate alla periferia - ma oggi, grazie agli effetti speciali, tornano a essere le fondamenta dell’industria cinematografica. La storia delle immagini in movimento torna sui propri passi con un movimento circolare.

Nato dall’animazione il cinema ha costretto l’animazione in un ruolo marginale, ma solo per trasformarsi infine in una particolare forma di animazione. La relazione che lega il cinema tradizionale agli effetti speciali ha seguito un percorso simile. Gli effetti speciali diventano la norma nel nuovo cinema digitale, dopo essere sopravvissuti ai margini del cinema, dove erano stati cacciati a causa della loro natura artigianale.

E lo stesso si potrebbe dire a proposito della relazione tra produzione e postproduzione. Tradizionalmente il cinema si basava sulla strutturazione della realtà fisica, riorganizzata nel set, secondo il gusto dell’art director e del regista. La manipolazione della pellicola (ad esempio, con stampe sofisticate) è sempre stata una pratica marginale se paragonata alla manipolazione diretta della realtà, prima della ripresa. Nel cinema digitale la pellicola impressionata non è più il fine del cinema, ma solo una materia prima destinata a essere elaborata in un computer, dove di fatto si procede alla costruzione reale delle scene. In questo senso, la produzione diventa il primo passo della postproduzione.

Vediamo qualche esempio che illustri il passaggio dalla riorganizzazione della realtà a quella delle immagini. Nell’era analogica, per una scena di Zabriskie Point (1970), Michelangelo Antonioni fece dipingere un prato per ottenere un colore particolarmente saturo. Nell’era digitale, per creare la sequenza del lancio dell’Apollo 13 (Universal Studios, 1995; effetti speciali del Digital Domain) gli autori hanno filmato la piattaforma di lancio di Cape Canaveral. Gli artisti della Digital Domain hanno scansionato la pellicola e l’hanno rielaborata a computer, eliminando gli edifici più recenti, aggiungendo erba accanto alla postazione e ridipingendo il cielo per ottenere un effetto più drammatico. Quindi la pellicola è stata trasformata in una costruzione tridimensionale per creare un set virtuale, animato in modo da simulare un movimento di dolly a centottanta gradi, come se la telecamera avesse seguito l’innalzamento del missile.

Quest’ultimo esempio ci conduce a un’altra concezione del cinema digitale - come arte della pittura. Nel suo studio sulla fotografia digitale, William J. Mitchell (The Reconfigured Eye, 1992) concentra la nostra attenzione su ciò che definisce la "mutabilità intrinseca" dell’immagine digitale: "La caratteristica essenziale dell’informazione digitale è che può essere manipolata facilmente e molto rapidamente. Si tratta solo di sostituire nuovi bit a quelli vecchi... Gli strumenti che i computer utilizzano per trasformare, combinare, alterare e analizzare le immagini, sono essenziali per il programmatore quanto i pennelli e i pigmenti per un pittore".

Come sottolineato da Mitchell, la mutabilità intrinseca cancella le differenze tra fotografia e pittura. E - dal momento che il cinema è una sequenza di foto - possiamo estendere la definizione di Mitchell al cinema digitale. Così la pellicola diventa una serie di dipinti creati da un artista che manipola le immagini, una per una o tutte insieme. Le immagini digitalizzate - dipinte a mano con l’ausilio di un computer - sono probabilmente l’esempio più drammatico del nuovo status del cinema: non più costretto al solo contesto fotografico, il cinema si apre al mondo del pittorico.

Siamo abituati a pensare al computer come portatore dell’animazione, ma in realtà il risultato che ci troviamo ad affrontare è l’esatto opposto: ciò che prima veniva registrato automaticamente con la macchina da presa, ora viene dipinto a mano, fotogramma dopo fotogramma. E le immagini non sono più una dozzina, come accadeva nel diciannovesimo secolo, quanto una teoria infinita di fotogrammi.

Possiamo additare un’altra somiglianza con il cinema delle origini: la colorazione manuale dei fotogrammi, per ricreare diverse ambientazioni. Oggi molti degli effetti speciali digitali si fondano su questo semplice metodo: modificare a mano migliaia di immagini. I fotogrammi sono ridipinti o per creare dei filtri, o per cambiare direttamente le immagini - come, ad esempio, in Forest Gump, in cui il presidente Kennedy è tornato a parlare grazie all’alterazione delle sue labbra, ritoccate fotogramma dopo fotogramma. In teoria, avendo abbastanza tempo, si potrebbe creare un film interamente digitale: novanta minuti, quindi centoventinovemila e seicento fotogrammi completamente dipinti a mano - creati ex novo, ma identici a quelli realizzati con una ripresa dal vivo.

 

Il multimedia come cinema digitale delle origini 

Animazione tridimensionale, mapping, ritocchi e montaggio: nel cinema commerciale queste tecniche radicalmente nuove sono utilizzate soprattutto per risolvere problemi tecnici, lasciando intatto il tessuto linguistico del cinema tradizionale. I fotogrammi vengono ridipinti a mano per cancellare i cavi che sollevano un attore in una scena pericolosa; oppure uno stormo di uccelli viene aggiunto in un paesaggio; una strada di città è riempita con comparse mai assunte. Sebbene quasi tutti i film di Hollywood utilizzino sequenze manipolate digitalmente, l’uso del computer continua a essere attentamente nascosto.

Il cinema commerciale continua a rifarsi al realismo classico, ovvero, le immagini funzionano come registrazioni fotografiche della realtà che si dipana di fronte alla macchina da presa. Il cinema si rifiuta di negare la propria identità, che - secondo la penetrante definizione di Metz - si basa sulla combinazione della narrazione con l’effetto di realtà e con l’ambientazione architettonica.

Al termine del suo saggio Metz si chiede se in futuro verranno realizzati più film non narrativi: se mai dovesse accadere - osserva l’autore -, il cinema non avrebbe più bisogno di creare un effetto realistico. I mezzi elettronici e digitali hanno già portato a questa trasformazione. All’inizio degli anni Ottanta sono emerse nuove forme cinematografiche che non si affidano alla narrazione lineare, e che rifiutano il realismo, nonché i luoghi deputati al cinema, preferendo al teatro la televisione e lo schermo di un computer. Quali sono queste nuove forme? I video musicali, innanzitutto. Probabilmente non si tratta di una coincidenza se il genere del videoclip è nato proprio quando gli strumenti elettronici hanno messo piede per la prima volta negli studi di produzione. I video musicali costruiscono una qualche forma di narrazione, ma non seguono uno svolgimento lineare dall’inizio alla fine e pertanto si avvalgono di immagini in pellicole o video, modificate però sino a negare le norme tradizionali del realismo cinematografico. La manipolazione delle immagini attraverso la pittura - solitamente nascosta nel cinema tradizionale - invade lo schermo televisivo. Allo stesso modo, le immagini costruite con materiali eterogenei non sono più subordinate al realismo fotografico, ma si basano su una nuova strategia estetica. Il genere del videoclip è stato un vero e proprio laboratorio in cui sperimentare le nuove possibilità offerte dai computer alla manipolazione fotografica, giocando sullo spazio tra seconda e terza dimensione, pittura e realismo, fotografia e collage. In sostanza, il videoclip è il libro di testo del cinema digitale, costantemente in movimento e in espansione.

Un’analisi dettagliata dell’evoluzione dell’immaginario dei video musicali (o, più generalmente, del broadcasting nell’era elettronica) meriterebbe un discorso a parte, che non affronterò in questa sede. Invece, si deve considerare almeno un’altra nuova forma cinematografica non narrativa - i giochi in Cdrom - che a differenza dei videoclip, si affida al computer sin dalla nascita.

Mentre i videomaker hanno consciamente trasformato il cinema tradizionale in qualcosa di nuovo, i creatori di Cdrom hanno inventato un nuovo linguaggio visivo quasi per caso, cercando di emulare il cinema tradizionale.

Alla fine degli anni Ottanta la Apple ha iniziato la promozione dell’idea di computer multimediale; e nel 1991 ha prodotto il software Quick Time, che permette a un qualsiasi computer di visualizzare film o video. Tuttavia, negli anni seguenti, il computer non ha sfruttato questo nuovo ruolo. I primi Cdrom non potevano contenere dati sufficienti alla visualizzazione di un intero film. Inoltre i computer riproducevano i film con molti scatti e intervalli, e soprattutto le immagini erano grandi quanto un francobollo. Infine, i film venivano compressi, compromettendo la definizione delle immagini. Solo nel caso di immagini statiche, il computer riusciva a visualizzare dettagli di qualità fotografica e a schermo intero.

A causa di questi limiti, i creatori di Cdrom hanno dovuto inventare un nuovo linguaggio cinematografico che applicasse alle immagini sintetiche e fotografiche tutta una serie di strategie - sequenze circolari, movimenti a passo singolo e sovrimpressioni - utilizzate nel diciannovesimo secolo, nell’animazione del ventesimo secolo e nel cinema pittorico d’avanguardia. Questo linguaggio unisce l’illusionismo cinematografico all’estetica del collage grafico, basato sull’eterogeneità e sulla discontinuità. Il grafico e il fotografico, separati da quando il cinema e l’animazione avevano preso due sentieri diversi, si sono ricongiunti sullo schermo del computer.

E il grafico ha incontrato anche il cinematografico. I creatori di Cdrom conoscevano le tecniche cinematografiche e quelle di montaggio, ma hanno dovuto adattarle a un formato interattivo e ai limiti dell’hardware. È nato così un nuovo linguaggio ibrido, che combina le tecniche del cinema moderno con quelle delle immagini in movimento del secolo scorso.

Possiamo ricostruire l’origine di quel linguaggio, analizzando i Cdrom più famosi. Il gioco Myst (Broderbund, 1993) - un vero e proprio bestseller - dispiega la narrazione utilizzando soltanto immagini statiche, una pratica che ci riporta agli spettacoli delle lanterne magiche e a La Jeté di Chris Marker. Ma per altri aspetti Myst si avvale delle tecniche del cinema del ventesimo secolo. Ad esempio, per passare da un’immagine all’altra, il Cdrom utilizza una simulazione dei tradizionali movimenti di macchina. E impiega anche le tecniche fondamentali del montaggio cinematografico per accelerare o diminuire il tempo della narrazione. Nel corso del gioco, il giocatore si muove su un’isola immaginaria, cliccando sul mouse. A ogni click corrisponde l’avanzamento di una cinepresa virtuale che rivela una nuova porzione dello spazio tridimensionale. Quando il giocatore scende nelle camere sotterranee, la porzione di spazio visualizzata da ciascun click diminuisce sensibilmente. Se prima il giocatore riusciva ad attraversare l’intera isola con qualche click, nelle camere sotterranee deve cliccare almeno una decina di volte, anche solo per scendere da una scalinata. In altre parole, proprio come nel cinema tradizionale, Myst rallenta il tempo dell’azione per creare suspense e tensione.

In Myst, l’animazione delle miniature si svolge all’interno di immagini statiche. Al contrario, in un altro Cdrom molto famoso - 7th Guest (Virgin Games, 1993) - il giocatore si trova faccia a faccia con video di attori in carne e ossa, sovrimposti a sfondi statici computerizzati e realizzati in 3D. I video sono sequenza circolari, che si ripetono all’infinito, e le figure risaltano contro gli sfondi. Queste caratteristiche collegano il linguaggio visivo di 7th Guest alle tecniche precinematografiche del secolo scorso e ai cartoons, piuttosto che al realismo cinematografico. Ma, come Myst, anche 7th Guest evoca codici filmici completamente moderni. L’ambiente in cui si svolge l’azione (l’interno di una casa) è reso tramite il ricorso a lenti grandangolari; e il movimento da una stanza all’altra segue curve complesse, come quelle disegnate da un carrello cinematografico.

Infine pensiamo al Cdrom Johnny Mnemonic (Sony Imagesoft, 1995). Prodotto complementare al film omonimo - e presentato non come un gioco ma come un film interattivo, realizzato per la prima volta a schermo intero - Johnny Mnemonic si avvicina più di altri Cd al realismo cinematografico, mantenendo però delle marcate caratteristiche individuali. Lo stile visivo si pone in uno spazio intermedio tra cinema e collage, con l’azione interamente filmata contro uno sfondo verde, poi rimaneggiato graficamente.

Non è errato leggere la breve storia dell’immagine digitale in movimento come uno sviluppo teleologico che rimette in scena la nascita del cinema di cent’anni fa. Infatti - con l’aumentare della velocità dei computer - i programmatori di Cdrom sono passati dalla presentazione di diapositive alla sovrapposizione su sfondi statici di piccoli elementi in movimento, per approdare finalmente alle immagini mobili e grandi quanto lo schermo di un computer. Questa evoluzione ripete la progressione del diciannovesimo secolo: dalla sequenza di immagini statiche (lanterne magiche ecc.) al movimento dei personaggi su sfondi statici (ad esempio, nel Praxinoscopio di Reynaud), fino al movimento totale (il cinematografo dei Lumière). Inoltre, l’introduzione di Quick Time nel 1991 può essere paragonata all’invenzione del Kinetoscopio nel 1892: entrambi sono stati creati per presentare brevi sequenze circolari; entrambi utilizzano immagini di circa due pollici per tre, pensate più per una visione privata che per proiezioni collettive.

Infine le prime realizzazioni dei Lumière, che nel 1895 scioccarono le platee con enormi immagini in movimento, trovano un loro corrispettivo nei Cdrom realizzati a partire dal 1995, con immagini in movimento che occupano l’intero schermo del PC. Così, proprio a cent’anni dalla sua nascita, il cinema viene rinventato sullo schermo di un computer.

Ma questa è solo una tra le interpretazioni possibili. Oggi non immaginiamo più la storia del cinema come una marcia lineare verso un’unica forma di linguaggio, o come il progresso verso un realismo sempre più fedele. Piuttosto, siamo arrivati a descrivere la storia del cinema come una successione di linguaggi diversi ed ugualmente espressivi, ciascuno provvisto delle proprie variabili estetiche, che concludono e rifiutano allo stesso tempo le variabili del linguaggio precedente - secondo un modello culturale non lontano da quello utilizzato da Kuhn per analizzare i paradigmi scientifici. Inoltre, invece di liquidare le strategie visive dei primi prodotti multimediali come frutto di limitazioni tecnologiche, dobbiamo leggerle come alternative al tradizionale illusionismo cinematografico, come origine del nuovo linguaggio del cinema digitale.

Per l’industria informatica e per quella dello spettacolo, queste strategie rappresentano solo dei limiti temporanei, fastidiosi effetti collaterali che devono essere superati al più presto. Questa è la differenza più rilevante tra la situazione alla fine del diciannovesimo secolo e quella del ventesimo: il cinema delle origini si apriva su un vasto orizzonte di possibilità, mentre lo sviluppo del multimedia e dei computer (dalla compressione dei dati fino al Digital Video Disk) è guidato da un unico scopo, la duplicazione esatta del realismo cinematografico. In altre parole, se lo schermo di un computer imita sempre più quello di un cinema, ciò non avviene per caso ma come risultato di una pianificazione cosciente.

 

Il loop

 Tuttavia ci sono artisti che hanno affrontato queste strategie non come limiti, ma come fonte di nuove possibilità cinematografiche. Come esempio, prenderò le sequenze circolari - in gergo chiamate loop, anelli - utilizzate in Flora pentrinsularis di Jean-Louis Boisser (1993) e in The Databank of the Everyday di Natalie Bookchin (1996). Tutti gli strumenti precinematografici, fino al Kinetoscopio di Edison, si basavano su brevi sequenze circolari. Ma con il sopraggiungere della maturità, la settima arte relegò i loop nei territori delle arti minori, come i documentari, i cartoon e i peepshow pornografici. Al contrario, il cinema narrativo ha evitato le ripetizioni: come tutte le forme narrative occidentali, anche il cinema ha rappresentato la vita umana come una progressione lineare, costituita da numerosi eventi unici.

Il rapporto originario che lega il cinema al loop è stato rimesso in scena almeno una volta nella storia della settima arte. In una delle sequenze del rivoluzionario film sovietico L’uomo con la macchina da presa (1929) Dziga Vertov ci ha mostrato un cameraman in piedi su un automobile in corsa. Quando la macchina s mette in moto, l’operatore dà un giro di manovella alla cinepresa. Un loop, un ripetizione, creata dal movimento circolare della manovella, che genera una progressione di eventi - una narrazione molto semplice, ma estremamente moderna: la cinepresa s nuove e registra tutto ciò che appare di fronte all’obiettivo. Come in una citazione della scena primaria del cinema, le inquadrature della cinepresa sono intervallate da immagini di un treno in movimento. Così Vertov ripropone il terrore apparentemente suscitato dai primi film dei Lumière: il regista posiziona la macchina da presa direttamente sui binari e il treno corre dritto verso il nostro punto di vista, investendoci ogni volta.

I primi film digitali hanno limiti tecnici molto simili a quelli degli strumenti precinematografici: infatti utilizzano un numero limitato di immagini. Ecco perché, probabilmente, i creatori di Quick Time hanno direttamente inserito nell’interfaccia il comando Loop, dandogli la stessa importanza che il tasto Forward ha in qualsiasi videoregistratore. Al contrario della pellicola e dei video, i film in Quick Time possono essere mandati avanti, indietro e in loop. Flora petrinsularis sviluppa alcune delle possibilità estetiche proprie delle sequenze circolari, suggerendo una nuova estetica temporale per il cinema digitale.

Il Cdrom, tratto dalla Confessioni di Rousseau, si apre con uno schermo bianco, su cui si srotola una lista numerata. Cliccando su qualsiasi elemento della lista, ci spostiamo in una schermata che contiene due cornici, l’una accanto all’altra. Le due cornici mostrano la stessa sequenza: si tratta di due loop identici, che però girano con tempi diversi, fuori sincrono. Così l’immagine che appare nella cornice di sinistra, è riproposta un attimo dopo in quella di destra, e vice versa: come se sullo schermo si muovesse un’onda invisibile. Quest’onda in realtà si materializza quando clicchiamo su una delle cornici: una nuova schermata ci mostra un altro loop, con il movimento vibrante della superficie dell’acqua.

A ogni click si apre un’altra sequenza circolare e lo spettatore viene trasformato in un tecnico di montaggio, ma non nel senso tradizionale del termine. Piuttosto che costruire una narrazione coerente, scartando le immagini inutili, lo spettatore porta in superficie, una dopo l’altra, una sequenza circolare che si svolge contemporaneamente a tutte le altre: una moltitudine di temporalità separate, ma coesistenti.

Diversamente dalla sequenza di Vertov, in cui un loop creava la narrazione, in Flora petrinsularis lo spettatore cerca di creare una storia che invece si risolve in loop.

La sequenza circolare, che in Flora petrinsularis si ripropone su diversi livelli, è una metafora del desiderio umano che non può mai essere completamente soddisfatto. Ma il Cdrom può anche essere letto come un commento al realismo cinematografico. Quali sono le condizioni minime necessarie per creare l’impressione della realtà? Come dimostra Boissier, nel caso di un prato, di un dettaglio di una pianta o di un ruscello, poche immagini ripetute all’infinito bastano a creare l’illusione della vita e del tempo lineare.

Steven Neale ha descritto come il cinema delle origini dimostrasse la sua autenticità attraverso le rappresentazioni della natura in movimento: "Ciò che mancava [alla fotografia] era il vento, l’indice del movimento reale e naturale. Ecco perché il cinema era ossessionato, non solo dal movimento o dalle dimensioni, ma anche dalle onde e dagli spruzzi d’acqua, dal fumo e dalle gocce". Ciò che nel cinema delle origini era motivo di orgoglio - una conquista eccezionale - diventa nel film di Boissier l’oggetto di una simulazione ironica e malinconica. Mano a mano che scorriamo le poche immagini dei loop, vediamo fili d’erba muoversi avanti e indietro al ritmo di un vento inesistente, il cui suono sembra ricreato accidentalmente dal computer che cerca di leggere i dati del Cdrom.

Ma quest’opera simula anche qualcos’altro, forse anche solo per caso. Quando si guarda il Cdrom, il computer si incanta, perché non riesce a gestire contemporaneamente tutti i dati. Perciò le immagini sullo schermo si muovono secondo ritmi imprevedibili, ora più rapide, ora più lente, con un’irregolarità tipicamente umana. È come se le immagini non fossero prodotte da una macchina digitale, quanto da un uomo che gira la manovella di uno Zootropio vecchio di cent’anni.

Se Flora petrinsularis usa il loop per speculare sul realismo cinematografico, The Databank of the Everyday suggerisce che le sequenze circolari possono diventare una nuova forma narrativa, appropriata all’età dei computer. Nel suo ironico manifesto - una parodia di quelli dell’avanguardia di inizio secolo - Bookchin ci ricorda che il loop è all’origine non solo del cinema, ma anche della programmazione informatica. Programmare significa alterare lo scorrimento lineare dei dati attraverso delle strutture di controllo - come "se/allora" e "ripeti/mentre" - e il loop è la più elementare tra quelle strutture. Come scrive Bookchin, "i media digitali sconfiggono il cinema e la fotografia: è naturale che il loop rimpiazzi l’attimo congelato della fotografia e la narrazione lineare del cinema. I databank proclamano il loop la nuova forma della narrazione digitale: senza inizio, né fine, solo una serie di loop, ripetizioni infinite, interrotte solo dallo spettatore o da un improvviso calo di tensione".

Il loop dei programmi informatici fa il suo debutto cinematografico in una scena particolarmente efficace di The Databank of the Everyday. Lo schermo è diviso in due, da una parte un video, ripetuto all’infinito, con una donna che si depila una gamba; dall’altra un programma informatico incantato in un loop. I messaggi del programma si ripetono all’infinito, accompagnando ritmicamente i movimenti della donna. È la prima volta che nella storia della programmazione informatica si introduce una logica brechtiana, ovvero: il Cdrom realizza un’opera d’arte, mostrandoci i meccanismi con cui il computer produce l’illusione. Senza maschera, privo dell’interfaccia grafica, il computer è ridotto all’ennesima versione della macchina fordista, con il loop che sostiuisce la vecchia catena di montaggio.

Come Boissier, Bookchin esplora le alternative al montaggio cinematografico, preferendo al tradizionale modello temporale una soluzione spaziale. L’industria fordista si basava su una rigida suddivisione del lavoro in attività semplici e ripetitive; lo stesso principio sta alla base della programmazione informatica: i computer frammentano le operazioni in una serie di istruzioni elementari, eseguite una alla volta. Anche il cinema si rifà a questi concetti: costruisce una narrazione lineare, assemblando i fotogrammi uno dopo l’altro. Nella cultura europea abbiamo così assistito allo scontro tra la narrazione lineare e la spazializzazione che a lungo aveva goduto delle preferenze degli artisti: dalla cappella Scrovegni di Giotto ai Funerali di Ornans di Courbet, gli artisti hanno racchiuso elementi diversi (a volte distanti nel tempo) all’interno di un’unica cornice. Al contrario della narrazione fotografica, in questi casi i ‘fotogrammi’ erano proiettati contemporaneamente sullo stesso schermo.

Il cinema ha sviluppato diverse tecniche di montaggio per rimpiazzare alcune immagini con altre, seguendo sempre una scansione temporale; ma i registi hanno sistematicamente evitato di esplorare le possibilità di un ‘montaggio spaziale’, cioè della combinazione di immagini simultanee e coesistenti. The Databank of the Everyday cerca di sondare proprio questi sentieri, recuperando la tradizione del montaggio spaziale, dimenticato dal cinema. In una sezione del Cdrom, assistiamo, ad esempio, a una serie di video che ritraggono semplici operazioni domestiche, accoppiate secondo uno schema antinomico - aprire e chiudere una porta, schiacciare il bottone di un ascensore, contemporaneamente verso l’alto e verso il basso ecc. In un’altra sezione tocca allo spettatore distribuire sullo schermo una serie di finestre aperte su video di azioni diverse ma simultanee.

 

Conclusione: dall'occhio cinematografico al pennello 

Nel XX secolo il cinema ha interpretato due ruoli contemporaneamente. Dal punto di vista tecnologico, il compito del cinema era catturare e immagazzinare la realtà. La stabilità delle immagini fotografate - difficilmente modificabili - dimostrava l’autenticità del cinema, confermandone lo status di testimone privilegiato del reale. Quella stessa stabilità ha imposto alcuni limiti al cinema, facendo sì che venisse identificato con la narrazione dal vero. Tuttavia il cinema racchiude in sé una grande varietà di stili - risultati dagli sforzi dei registi, scenografi e fotografi -; tutti facilmente riconducibili a un unico padre: gli stili diversi sono tutti figli di quel processo che utilizza un obiettivo fotografico, una scansione rigida del tempo di esposizione e di scorrimento della pellicola - sono tutti figli di un occhio meccanico.

Al contrario, la mutabilità intrinseca dell’immagine digitale squalifica il valore documentario e realistico del cinema. E così riusciamo a ristabilire gli equilibri: il cinema realistico ci appare solo come una eccezione, un incidente isolato nella storia della rappresentazione visiva, che ha sempre prediletto le creazioni manuali. Il cinema torna a essere una sottoclasse della pittura - una pittura che si dipana nel tempo. Non più un occhio cinematografico - come lo definiva Vertov - ma un pennello cinetico.

Il cinema digitale è solo un epifenomeno di un processo più complesso: il ritorno a tecniche di rappresentazione precinematografiche. Scacciate nei territori dell’animazione e degli effetti speciali, queste tecniche tornano a calcare le scene, costringendo il cinema realistico al ruolo di comprimario. Ciò che fino a ieri era solo un complemento del linguaggio cinematografico, oggi torna al centro del palcoscenico. Il cinema digitale è il ritorno del rimosso, si direbbe in termini psicoanalitici. Ritorniamo sui nostri passi, riscoprendo quelle tecniche che il cinema aveva cercato di lasciarsi alle spalle e il realismo cinematografico perde i suoi privilegi, per tornare a essere solo una delle opzioni possibili.

 

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