K n u t M o r k |
Marcos
Novak - architetto, artista e musicista - sviluppa algoritmi matematici
per costruire spazi virtuali, ibridi e intelligenti. È impegnato in
una ricerca sugli spazi non euclidei nel laboratorio virtuale che
ha creato alla Architecture School of the University of Texas e alla
UCLA, dove insegna.
Knut Mork è un autore di software e artista elettronico, vive a Oslo ed è stato tra i fondatori della rivista di cultura telematica Alt-X. Marcos Novak is an architect, a musician and and artist. He uses algorithms to generate electronic non-euclidean worlds and avatars. Novak teaches at UCLA and has a virtual lab at the School of Architecture of the University of Texas. Knut Mork is an internationally exhibiting media artist and software engineer based in Oslo, Norway. His previous works experiment with the construction of synaesthetic experiences. He is alternately completely unknown, or recognized as one of the most promising talents in the media art scene. Solve et Coagula, was developed and first shown at the Centre for Culture and Communication in Budapest, and was later exhibited at the Ars Electronica Festival '97. The earlier installation se nse:less was exhibited at the 5th International Istanbul Biennial. He was also one of the co-founders and original site designer for Alt-X. © Knut Mork & Trax |
La prima volta che incontrai Marcos Novak, alla conferenza Cybersphere di Stoccolma nell'ottobre 1994, non è che sapessi molto di architettura. A dire la verità non avevo mai sentito nominare Novak prima d'allora. E avevo fatto male. Marcos Novak definisce i suoi lavori come «architetture liquide e musiche navigabili» e la strana sensazione di sgomento che li pervade è certamente all'altezza della definizione. Per creare le sue architetture utilizza algoritmi informatici all'origine concepiti per comporre partiture musicali: ne escono architetture a quattro dimensioni che si muovono nello spazio mutando colori e forme. E queste singolari strutture fluidoleviataniche intonano al contempo delle melodie, melodie controllate dai movimenti di chi capita in quegli spazi. Nel tuo saggio Scrittura automatizzata, scrittura automatica: poetiche del cyberspazio passi in rassegna le differenti possibilità che si pongono a un'arte basata su algoritmi tecnici. Per quanto riguarda la musica molte cose basate su algoritmi sono già entrate nella vita del grande pubblico: la techno, l'ambient, la musica industriale sono tutte molto programmate. Si direbbe che gli algoritmi vengano perlopiù utilizzati per creare una monotonia. Ho sempre cercato di non
addossare i miei limiti (o quelli di qualcun altro) sulle spalle del
mondo. Il fatto che non riusciamo a fare qualcosa vuole soltanto dire che
manchiamo di immaginazione. Sarebbe criminale estendere questa nostra
mancanza all'eternità, sostenendo che dato che noi abbiamo
fallito, lo stesso dovrà necessariamente accadere a chiunque altro.
Immagino che prima o poi qualcuno riesca a risolvere quello che per me era
un problema inestricabile. Per iniziare a rispondere alla tua domanda, mi
pare ci siano anche molti casi in cui gli algoritmi hanno prodotto la più
vasta delle varietà. Il mondo stesso, per quello che ne so, è il
risultato di un immenso e ricchissimo processo algoritmico. Alla conferenza di Stoccolma hai fatto alcune domande al pubblico, e adesso vorrei fartene rimbalzare addosso una. «Com'è una frase intelligente?» Una frase intelligente
deve essere come un lettore intelligente, deve reinterpretare
costantemente l'intero testo a ogni nuova parola che viene aggiunta. Ogni
aggiunta al testo deve alterare una quantità di modelli interni e
ipotetici di ciò che significa ogni frase e - in fin dei conti - l'intero
testo. Questa continua reinterpretazione è un atto
"proiettivo", e cioè qualcosa che non riguarda tanto la
corrispondenza con la "verità" del testo (che è comunque
assente o intangibile) quanto piuttosto la costruzione di "verità
possibili" basate sul contesto. Il minimo cambiamento
nell'espressione si propaga lungo tutto il testo e lo riscrive. E quando si tratta di entrare in rapporto con intelligenze tanto altre rispetto alla nostra da essere inavvicinabili senza abbandonare ogni preconcetto? Penso per esempio ai testi generati con tecniche combinatorie. Ce n'è uno che si intitola Rubber Blue Biodegradable Robot che è del tutto inintelleggibile - nel senso più tradizionale del termine - e si propone al lettore come se fosse stato prodotto da una società tanto distante nel futuro da renderci impossibile ogni comprensione. Capire la nostra intelligenza è una cosa, reagire a intelligenze che non capiamo è un'altra. Ho lavorato sul significato degli ambienti intelligenti e mi sono ritrovato anche io davanti a questa domanda. Mi ricorda molto Solaris di Stanislaw Lem, l'idea di un intero pianeta come un'unica creatura intelligente. Cerca di comunicare, ma la distanza tra questo essere e gli umani è assolutamente insormontabile. Se la comunicazione si fonda sull'esistenza di un terreno comune, allora è evidente come a un certo livello di "distanza" questa venga a cadere. Ma esiste un'altra possibilità. I testi scritti, i film, i suoni digitali, tutto ciò che prevede il sampling dimostra come le nostre menti possano mettere insieme diverse immagini e ricostruire un'animazione, udire suoni distinti e farne un continuum musicale, focalizzarsi su una serie di lettere e trarne delle parole eccetera. La nostra intelligenza si basa sulla capacità della mente di costruire ponti sul vuoto, di zigzagare allegramente in territori alieni. Spesso basta qualche punto in comune, perché l'intelligenza possa fare la sua parte. Brian Eno (citato in un tuo saggio) dice «Io sono il mare della permutazione, vivo oltre l'interpretazione.» Di recente ho scritto una cosa, una specie di bozza per una poesia che si può sviluppare in varie direzioni proprio mentre la leggi. Un lettore mi ha detto: «È una schifezza. Non ti prendi nessuna responsabilità.» C'è qualcosa nella scrittura automatica (o automatizzata) che può portare l'arte fuori dalle grinfie dell'interpretazione? Il commento del tuo lettore ci dice qualcosa più sui suoi limiti che su quelli del tuo scritto. Come mi è già capitato di dire, io penso che il significato sia per lo più una proiezione: il lettore è la fonte di luce, e se questa fonte è opaca non si riuscirà a vedere molto. L'autore è il costruttore di schermi molto speciali, superriflettenti, schermi che permettono alle sfumature più sottili di essere non solo riflesse, ma addirittura amplificate e chiarite. Se lo schermo è ben costruito e il lettore non riesce a vedere nulla, è a lui che manca la luce. D'altro canto se la luce del lettore è forte, anche lo schermo più opaco rifletterà qualcosa. C'è molto da dire, ovviamente, sulla qualità dello schermo. È proprio di questo che parlano le poetiche: come creare degli schermi perfetti. Quando si naviga tra le forme curve del tuo Dancing with a Virtual Dervish, tu dici che «con un dataglove (i guanti-mouse utilizzati per la realtà virtuale, N.d.R.) si ha la distinta sensazione di accarezzare il corpo di un'amante.» Sembra un'idea molto popolare. Sadie Plant ha dichiarato che il ciberspazio è un mondo essenzialmente tattile. Se lo si confronta con
la tecnologia delle interfacce attuali, il ciberspazio è estremamente
fisico. Essere dentro l'informazione significa che tutti i nostri corpi (e
non solo la punta delle dita) vi sono immersi. È difficile far capire
qualcosa del genere a persone che non hanno ancora provato le prime, rozze
esperienze ciberspaziali. Questa idea della dis/incarnazione va molto di moda, oggi. Parlamene un po'. Ha delle implicazione interessanti: viene da pensare ai cyborg, anche se in questo caso non stiamo aggiungendo delle parti artificiali ai nostro corpi, ma vi stiamo piuttosto sottraendo qualcosa. Mi ha fatto piacere
vedere come un sacco di gente abbia preso da me il modo di scrivere «dis/incarnazione».
La slash è molto importante perché chiarisce come non vi sia un
vero stato di disincarnazione, ma solo stati alternativi di incarnazione
in media più o meno solidi. Anche se il media si dimostra totalmente
informativo, vi sarebbe comunque una qualche forma di incarnazione, l'invarianza
della struttura relazionale di cui siamo fatti. La disincarnazione, senza
la slash, è la morte, la dissoluzione, la disintegrazione. Con la slash
è metamorfosi, trasporto, reincarnazione. In ogni caso i componenti
dell'incarnazione continuano a esistere, ma in uno si conserva la firma
del sé, mentre nell'altro va perduta. Paul Virilio ha scritto un libro sull'architettura/archeologia dei vecchi bunker antinucleari che, a causa del loro peso immane, stanno lentamente affondando nel paesaggio. Una rivista (adesso non ricordo quale) ha pubblicato delle foto di spazi normalmente inaccessibili: l'interno di serbatoi idrici e cose del genere. La loro monumentale solitudine mi ricorda in qualche modo il tuo Dancing with a Virtual Dervish. Tu crei dei costrutti massicci e bellissimi nella realtà virtuale, ma non c'è dentro nessuno. I tuoi spazi virtuali sembrano… non voglio dire inutili… ma inutilizzabili. È una questione
complessa. Intanto era proprio quello che volevo, comunicare direttamente
attraverso il nuovo mezzo della realtà virtuale senza una narrazione,
senza linearità, senza una struttura teleologica. Per me le stanze di Virtual
Dervish sono archimusicali e comunicano esattamente come se
fossero un accordo musicale. La musica che io amo è inutilizzabile.
La musica che si può usare è una musica da poco. Be', dopotutto l'arte non è che debba essere particolarmente utile, no? Avendo una storia personale di scrittore e poeta, sono particolarmente interessato alle possibilità della realtà virtuale di comunicare idee non narrative. Mi incuriosiva anche quello che dicevi sulla pochezza della musica utilizzabile. Cosa intendevi dire, esattamente? Per quanto noi siamo imbevuti di pensiero postmoderno, poststrutturalista e postapocalittico, ci sono ancora nell'aria idee tipo «la forma dipende dalla funzione». La mia formazione di architetto mi rende particolarmente attento e vigile nei confronti di ogni funzionalismo. Quando dico che «la musica che si può usare è una musica da poco» intendo puntare il dito su quelle etichette da due soldi tipo «musica per…», «edifici per…», «stanze per…» eccetera. A parte la «musica per aeroporti» di Eno e qualche altra cosa. Quando penso a tutto ciò che ammiro, mi accorgo che l'eccesso e la sovrabbondanza sono sempre in testa alla classifica, e l'utilità e la comodità sono dei semplici accessori. Adesso parliamo di ciò che ancora manca ai tuoi mondi virtuali. Ci sarebbero molti
esempi. Una delle prime cose che voglio fare è introdurre delle finestre
che da dentro i mondi virtuali guardino verso il mondo fisico. Voglio
collegare i mondi tra loro in modo che si possano incrociare
contemporaneamente diversi livelli di realtà. TransTerraFirma, il
dis/incarnamento derviscio successivo, collega due postazioni Onyx in due
città differenti e un video nutre i mondi virtuali con immagini prese
dalle immediate vicinanze delle persone all'interno delle stanze virtuali,
dalla città collegata in remoto e da videospazi compositi. Allo stesso
tempo delle proiezioni a tempo dei mondi virtuali alterano lo spazio
fisico delle installazioni. Al contrario di quello letterario e di quello musicale, l'ambiente dell'architettura è molto accademico. Che cosa si dice del lavoro tuo e degli altri "architetti liquidi"? Che critiche vi vengono rivolte? Mi dispiace dirlo, ma
l'architettura è molto lenta nel recepire le novità. Però bisogno dire
che esistono due architetture, quella delle soluzioni e quella
dell'eccesso. Le soluzioni producono edifici, l'eccesso produce architetture.
Non è una questione di spese folli, ma di visione e generosità. Gli
architetti dell'eccesso sono sempre stati tra i più grandi visionari dei
loro tempi. Il problema è che viviamo in un mondo in cui le soluzioni
pratiche sovrastano gli eccessi e la generosità. Ho dovuto combattere
contro questo per tutta la vita e non mi aspetto che le cose cambino. Mi
basta mantenermi aperto e agile. Ci sono altri architetti, o musicisti o magari anche scrittori a cui ti senti particolarmente vicino, o che ti abbiano ispirato? Certo. Sarebbe una lista sterminata, ma te ne posso citare alcuni a caso. Borges, Paz, Cage, Deleuze e Guattari, Gaudi, Leibniz, Hafez, Picasso, Lao-Tzu, Ernst, Tzara, Klee, Xenakis, Cavafis, debord, Eraclito, Lucrezio, Nietzsche, Spengler, Lorca, Leonardo, tesla, Dali, Matta, Galileo, Cohen, Schlemmer, Ghandi, Rumi e molti altri. Nella lista potrebbero rientrare anche molti contemporanei. E poi i miei russi! Kandinsky, Malevich, Tatlin, El Lissitsky, Dostoevskij. E ancora Duchamp, Broodthaers, Roussel, Varese, Kurt Schwitters, Calvino e poi naturalmente McLuhan e Beuys, Babbage… Jeffrey Shaw ha predetto uno spostamento dell'arte dalle periferie al centro del discorso, grazie alle autostrade digitali. Non sarà proprio il centro del discorso che se ne sta scivolando via lasciando uno spazio vuoto che l'arte possa reclamare? Ho lavorato su un sito
web che si chiama CENTRiFUGE, con l'aiuto dell'Advanced Design Research
Group dell'università di Austin. Io lo vedo come un sancta sanctorum
delle architetture sperimentali, al tempo stesso un centro e una fuga.
Sono contento di constatare che sia tu sia Jeffrey Shaw abbiate a cuore il
tema della reciprocità del centro e della periferia. Per come la vedo io
l'arte è sempre stata al centro del discorso, ma in passato lo era per
implicazione. Se il centro richiede un equilibrio, allora quell'equilibrio
si può ottenere in due modi: uno statico e uno dinamico. Un cadavere e un
funambolo sono tutti e due in equilibrio, ma uno è decisamente più vivo
dell'altro. L'arte sfida il centro bilanciando gli estremi
dell'esperienza. Il discorso non sempre osa seguirla, e spesso gioca a
fare il morto. Nel saggio sulle Poetiche del ciberspazio, tu sottolinei il conflitto tra la dissoluzione del pensiero categorico e la rapidissima diffusione dei computer, una macchina in linea di principio estremamente categorica. Affermi che non si tratta di un semplice problema di software, ma di una «grande sfida all'essenza dell'umanità stessa.» Di che genere di sfida stiamo parlando? Il nostro mondo sembra
essere costruito su un'infinita alternanza di regolarità e libertà. Ci
sono regole dappertutto, ma potrebbe anche trattarsi di attributi
accidentali, di pattern che si adattano ad altri pattern per
puro caso. Le categorie in cui ci imbattiamo, sono fenomeni emergenti,
come noi stessi. Il termine panopticon incombe come uno spettro sulla realtà virtuale da anni, senza che mai si riesca a darne una chiara definizione. Mille miliardi di anni fa, in uno dei miei taccuini, ho scritto che noi cerchiamo di catturare la verità con un retino, come se fosse una farfalla, senza mai fermarci a pensare che potrebbe invece assomigliare di più all'aria in cui quella farfalla fluttua. Forse è meglio che il panopticon non sia mai definito in modo rigido. Visto che si tratta di qualcosa che ha a che fare con l'ubiquità, meglio che non atterri da nessuna parte. Io questo termine lo uso in contrapposizione all'utilizzo che ne fa Jeremy Bentham. Il panopticon, o la condizione di centralizzazione e sorveglianza, ha caratterizzato l'era che abbiamo vissuto: il nostro non è un tempo di centri di potere e di visioni radianti; è un tempo di diffusione in campi di sensori ubiqui. Tutti sono sempre contemporaneamente dappertutto. Borges lo spiegò nell'Aleph, McLuhan con la distinzione tra spazio ottico e spazio acustico, Attali ne parla in Noise e Cage ne fece musica con Roaratorio. Parlare del panopticon come problema architettonico ha una particolare utilità, perché tiene l'arte ancorata con maggiore forza allo spazio, al tempo e alla specificità dei suoi estremi opposti. Si fa un gran parlare della collocazione sociale e politica di queste nuove forme d'arte. Alcuni preferiscono lasciare cadere la questione, altri invece ne fanno una specie di bandiera. Il movimento Avant-Pop è molto attento al sociale; in architettura il lavoro di persone come Lebbeus Woods è esplicitamente politico (Woods dice: «L'architettura è un atto politico»). Tu come la metti? La poesia è guerra. Per
me queste quattro parole vogliono dire molto, anche se non pretendo certo
di farlo capire a tutti. Però posso dire che ogni azione è politica, non
in un senso brutalmente letterale ma piuttosto nelle fibre profonde del
suo essere. Ogni azione è un microscopico esercizio nella visione di
mondi alternativi. I nostri costrutti e le nostre interazioni incarnano
valori e implicano ordini sociali, che ne siamo coscienti o meno. Ti ho sentito parlare della necessità per gli scrittori di oggi di creare un nuovo linguaggio che si contrapponga al rumore di fondo della TV, della posta spazzatura ecc. In che direzioni si dovranno indirizzare da un punto di vista tematico i nuovi creatori di arte per conseguire questa reinvenzione? Il rumore di fondo a cui
ti riferivi è interminabile ma molto povero di contenuti. Credo che un
buon punto di partenza stia nel pensare in termini di infinito:
tutto ciò che abbiamo provato fino a oggi è assolutamente trascurabile
se comparato a ciò che deve ancora venire; tutto ciò che ci sta attorno
potrebbe essere differente. L'esplorazione libera delle possibilità è
l'attività più eccitante e vitale che io conosca. E in più nel fare
questo capita pure di imbattersi in modi migliori di organizzare le nostre
vite personali e sociali. È anche vero però che gli artisti hanno grosse difficoltà: la società ha una grande abilità nel chiudere gli occhi e negare i limiti di quel cerchio. Tu puoi riportare dall'abisso gli oggetti più incredibili e nessuno batterà ciglio: una cosa è cambiare ciò che la gente vede in TV, un'altra è portarli via dal divano davanti allo schermo. Non so se sia mai stato
davvero diverso. In ogni epoca un numero limitato di persone discuteva in
termini avanzati di ciò che si conosceva, mentre la maggioranza
continuava a vivere nell'ignoranza. Credo che la percentuale di persone dentro
il cerchio sia stata più o meno la stessa in tutte le epoche.
Lamentarsi della società dello spettacolo come di una malattia sociale
contemporanea vuol dire dimenticarsi quello che i Romani dicevano di panem
et circenses, o pizza e televisione, se preferisci. È affascinante vedere in quante direzioni diverse ci si stia dirigendo. Tu costruisci una nuova architettura fluida disegnata per il ciberspazio. Qualche giorno fa partecipavo a un dibattito alla Oslo Architectural Society, aperto dall'intervento di un giovane architetto. Il suo intervento era un attacco a quella che indicava (abbastanza vagamente) come Avanguardia, che accusava di dissolversi in una serie di astrazione scombinate che nessun uomo della strada avrebbe potuto comprendere. Predicava un ritorno a quelli che (con la stessa vaghezza) chiamava valori classici: presumibilmente il senso di unità e monumentalità che dominava il periodo Classico. Sembrava essere contrario a tutto ciò per cui tu stai lavorando. Si trattava solo di paura dell'ignoto? Be', non posso certo parlare di qualcuno che nemmeno conosco, ma è un atteggiamento che mi è capitato di dover affrontare molto spesso. Evocare le possibilità di comprensione dell'uomo della strada sembrerebbe essere una presa di posizione antielitaria, ma in realtà è solo enormemente paternalistica: la gente spesso riesce a vedere ben più lontano di questi accademici condiscendenti. |