G o f f r e d o
F o f i |
Le
edizioni e/o hanno da poco pubblicato il romanzo Il bruto di
Panait Istrati. Goffredo Fofi, traduttore d'eccezione, ha firmato anche
la postfazione al volume.
Panait Istrati is the storyteller of rumenian culture of the beginning of the century. Edizioni e/o recently published in Italian his novel Codine, already acclaimed in France. Italian writer Goffredo Fofi introduces us to the atmospheres of Istrati's works. © Goffredo Fofi - e/o |
Di Panait Istrati, l'avventuroso scrittore di Braila (la città rumena sul Danubio che per secoli ha visto il passaggio e la mescolanza di più popolazioni) che, figlio di una lavandaia e di un contrabbandiere greco, si è mosso di porto in porto del Mediterraneo facendo mille mestieri, con l'irrequietezza nel sangue, il lettore italiano conosce la traduzione presso Feltrinelli di Kyra Kyralina, il suo primo e più celebre romanzo; quella presso le edizioni Argo di Lecce della prima pala di Mediterraneo (Al levar del sole), e presso le Edizioni Cultura della Pace di Firenze di un diario di viaggio in Urss del 1927. La sua opera è cospicua, e ha ammiratori affezionati in Francia, poiché Istrati scriveva in un francese un po’ pomposo e un po’ bizzarro da autodidatta, e Gallimard l'ha raccolta in volumi di lusso o smembrata nelle collane dei tascabili. Sempre in Francia è viva da tempo un'associazione di Amici di Panait Istrati che ha pubblicato ricchi dossier di documentazione e critica. In Italia si aspetta ancora, nonostante le molte edizioni di Kyra Kyralina, l'editore che sappia imporla al gusto di lettori amanti di una letteratura al confine con l’oralità e con la testimonianza, di una letteratura allo «stato nascente». Tutta l'opera di Istrati, infatti, è segnata dall'esperienza diretta, dagli incontri di strada e di mercato, dalle storie vissute da lui medesimo e dai suoi amici e conoscenti, e sentite raccontare davanti a una caraffa di vino, al tavolo di una taverna. Nato nel 1884, Istrati è morto nel 1935 a Bucarest, dove, ormai famoso, si era rifugiato tentando avventure politiche forse dubbie. Istrati aveva ormai tagliato i ponti con la cultura francese di sinistra a causa del diario in tre parti, Verso l'altra fiamma (Dopo sedici mesi nell'Urss, Soviet 29, La Russia nuda), frutto di un soggiorno nel paese dei Soviet, dove era stato invitato dal governo bolscevico. Come più tardi sarebbe accaduto a Gide e Céline, Istrati non immaginava le conseguenze che sarebbero derivate da quell'invito: il resoconto di quel soggiorno fu incandescente per sdegno e denuncia dell'oppressione comunista. Erano gli anni dei «compagni di strada». Istrati fu tra i primi a distruggere un'illusione e a infrangere una moda, e questo gli costò calunnie e isolamento, dopo un decennio di successi e di corteggiamenti da parte della società letteraria francese che per la prima volta si confrontava - memore bensì dell'esotismo dei Gobineau e dei Loti - con un mondo, con un paesaggio, con una cultura di intatta alterità, insieme rozza e raffinatissima, e nient'affatto borghese. La scoperta di un simile autore fu casuale: aveva cominciato a scrivere, stimolato da un amico ebreo, in un sanatorio svizzero. Quando, tempo dopo, ormai vagabondo a Nizza, tentò il suicidio, gli fu trovata in tasca una lettera indirizzata a Romain Rolland, il quale prese a cuore il suo caso e lo aiutò a trovare un editore. I suoi molti romanzi e racconti esplorarono, da allora, il mondo del suo passato, ed ebbero due personaggi-guida: il suo alter-ego, prima bambino e poi giovane uomo, Adrian Zograffi, e l'amico, talora mentore di questi, Michail, nobile russo sfuggito allo zarismo, compagno perso e ritrovato di molte vicende. C'è poi la famiglia di Adrian, con lo straordinario zio Anghel. Oppure i cento viandanti, dalle storie significative, con i quali Adrian si confronta durante le sue esuberanti peregrinazioni. La ramificazione delle vicende è da «mille e una notte», segnata nel tono dalla tradizione della fiaba e della leggenda - di eroi e di banditi popolari, balcanici e mediterranei - sì da distinguerla immediatamente da quell'altra tradizione, ben nota al lettore del tempo, che viene dal picaresco ispaneggiante e dal vagabondaggio alla Gor'kij. Vediamo come ha tratteggiato il progetto letterario di Istrati un critico attento come il suo connazionale Marin Mincu: «Istrati inseguì sempre e ansiosamente la propria paternità; biografica e ideale: percorse da giovane molti paesi del mondo come picaro balcanico alla ricerca di un luogo dove fondare se stesso, in cui riconoscersi dal punto di vista ambientale e linguistico. La vita avventurosa e il motivo del viaggio si posero alla base della sua scelta narrativa. (...) Istrati tratteggiò sempre figure di eroi tesi a far crollare ogni muro e a liberarsi da ogni spazio recintato, riproponendo le strutture attanziali della letteratura orale romena, costruendo una geografia utopistica in cui bizzarri campioni di umanità potessero esprimere la propria volontà di autodeterminazione». Il bruto (titolo originale Codine, francesizzazione di Kodín), pubblicato nel 1926 come racconto iniziale del ciclo Enfance d'Adrien Zograffi, ha i colori delle storie che si raccontano in taverne come quella di Angelina, in piazze come quella della Comorofca, in vicinati come quello nel quale vivono Zoiza, ottima madre di Adrian, e Anastasia, pessima madre di Kodín. Ma il fascino del Bruto non è soltanto quello di un mondo forse scomparso, forse distante da noi nel tempo e nello spazio, non sta soltanto in un modo di raccontare di cui si è perduto il segreto. Diciamo forse, perché di questo mondo - l'«imbroglio balcanico», per esempio - in qualche modo antico e nuovo allo stesso tempo, ben presente alla storia di questi anni, la ferocia immediata e «quasi» innocente di Kodín serve, forse, a far comprendere la matrice culturale e le sue radici. A ben vedere, Il bruto racconta una storia e dei personaggi che ancora, in qualche parte del nostro stesso mondo, ci appartengono. Ci è impossibile, da un lato, non vedere nel rapporto tra Kodín e Adrian l'eco dei rapporti (violenza che si trasforma in tenerezza) tra la «brutalità» adulta e la purezza dell'infanzia, l'una affascinata dall'altra. Come non ricordare, per esempio, l'incontro - ben più alto - del forzato Magwitch con il piccolo Pip in Grandi speranze di Dickens, e i suoi innumerevoli derivati in film e romanzi, anche polizieschi? D'altra parte, come non vedere nel Bruto una (idealizzata, affabulata) visione di un mondo quale quello del «proletariato marginale» di sempre? Non è un caso se abbiamo scelto di tradurre come Il bruto il Codine di Istrati: è un piccolo omaggio alla memoria di un piccolo film di Buñuel intitolato appunto Il bruto (con Pedro Armendariz, rude maschiaccio dei film rivoluzionari messicani di Emilio Fernandez, che nel film di Buñuel era un timido e violento macellaio metropolitano, e che nella vita, come sappiamo dalle storie del grande cinema messicano, era un gay neanche tanto nascosto). Quel film appartiene al ciclo del primo Buñuel dell'esilio, che descrive con affettuosa ironia e sotterranea ispirazione surrealista il mondo del sottoproletariato urbano, salvo dilatarlo a condizione drammatica di tutta una parte del mondo nel capolavoro Los olvidados, nel cui turpe mondo di miseria sociale e umana non ci sono adulti da idealizzare. Con stile poco realistico e feuilletonesca e popolaresca efficacia, Istrati ci racconta un mondo che continua a esistere anche tra noi: come sa chi conosce certe periferie napoletane, palermitane, baresi, tarantine, reggine e perfino romane. Per chi ci è cresciuto o ci ha vissuto, magari da «operatore», la Comorofca è terra cognita, anche se le sue componenti sociali sono andate diversificandosi nel tempo con l'inserimento di nuove varianti: l'immigrazione, le palazzine dell'edilizia assistita e quelle della speculazione, le mastodontiche chiese iperattive, le scuole spesso disastrate (in particolare le medie e superiori) soprattutto per il crollo del «ceto pedagogico». E occorre tornare indietro nel tempo per trovare comparazioni più precise, negli anni cantati da Pasolini, nei luoghi frequentati dallo zelo degli amici di Danilo Dolci e così via. Ma non ci interessa, oggi, interrogarci su cosa è cambiato in questi paesaggi «sotto-proletari» (o meglio, di proletariato marginale, secondo la definizione spregiativa e omologante dei marxisti), quanto cosa vi sia rimasto dentro, nell'intimo di una condizione e di una cultura. La risposta non potrà che essere a favore di Istrati, nella capacità che una cultura «sottoproletaria» ha di idealizzare se stessa - perché, non c'è dubbio, Istrati, attraverso gli occhi del suo Adrian (che rappresenta egli stesso quale fu e quale si ricorda) idealizza Kodín, pur nel suo orrore, fornendogli ogni possibile giustificazione a partire dall'infanzia, dalla bruttezza del suo aspetto, da una madre come quella che ha avuto, insomma dall'assoluta mancanza di favori riservatagli dalla sorte. La sorte? La fortuna, Dio, il caso, il destino, la provvidenza, l'economia, la divisione della società in classi e in ricchi e poveri... Chiamiamola pure col nome che più ci piace, quella sorte continua a riguardare una parte consistente di popolazione anche in Italia, e la destina dalla nascita a certi «usi» economici e a certi costumi sociali e comunitari. Parlo, come è ovvio, di quelle forme di malavita che assumono nomi diversi a seconda dei luoghi - camorra, mafia, 'ndrangheta, sacra-corona-unita - ma alle quali, tenendo conto di quanto la cosiddetta economia criminale incida sulla ricchezza delle nazioni (in Italia, si calcola, per circa il 10% e più del nostro reddito complessivo) sarà pur giusto associare le grandi corporazioni e lobbies finanziarie e industriali che producono e smerciano in modi palesi o occulti armi e morte, dai carri armati alle droghe - dimenticando le armi «improprie» come l'automobile, per esempio, esaltate quotidianamente da tanta pubblicità - e che controllano il denaro e lo riciclano, sì da imporci sempre al ricordo l'immortale dilemma di Brecht se sia più criminale svaligiare una banca o fondarne (gestirne) una. Tornando a Istrati, se il mondo della Comorofca è cambiato, la sua morale probabilmente no. La morale di Kodín, e la condizione da cui essa nasce, sono ancora oggi quelle su cui si regge uno stile di vita che è della delinquenza e della marginalità criminale, e se organizzata o poco organizzata o disorganizzata non cambia. Il modo di ragionare di Kodín, ma anche il dolore, il risentimento, il bisogno di affetto, la crudeltà di Kodín sono ancora ben presenti nei «malavitosi», al fianco di «regole di comportamento» che le nascondono o le esplicitano in una sorta di recitazione obbligata, di gioco fisso di ruoli e di mosse. Per questo la lettura del Bruto è ancora istruttiva, e ci aiuta a capire un mondo che noi variamente demonizziamo, e che pensiamo ora di domare con la forza (più esercito, più polizia, più controllo, più carcere, insomma più repressione) o con l'istruzione (più scuola: ma che scuola?). O, peggio ancora, con i modelli consumisti e la falsificazione della realtà operata con immane volgarità da televisione e media. Il mondo di Kodín resiste. I suoi valori sono primari ma hanno la loro ragione d'essere in due fattori: la corruttrice laidezza dei modelli che noi, di fatto, oltre la menzogna delle parole e delle immagini, continuiamo a proporre a tutti, anche fuori dal nostro mondo, e il gioco di un'economia che, nel mentre assimila i più e li condiziona in un unico sistema di consumo e in modelli comportamentali dominanti, emargina i meno, rendendoli sempre più emarginati, sempre più costretti a dipendere dalle nostre ipocrisie. Allora, come stupirsi se tra «i meno» c’è chi mantiene in vita modelli e criteri altri, costruiti sulla necessità e sulla marginalità, e purtroppo ricchissimi di storia consolidata in azioni e reazioni ripetute e ripetitive? Kodín è un bel racconto, di un bel narratore «d'una volta», ma è anche, per noi, la perlustrazione di un universo la cui identità e le cui «ragioni» la cultura dominante continua a rimuovere o a falsificare. |