E u g e n i o M
o n t a l e |
In 1972 Nobel prize Eugenio Montale was interviewed by the Swiss national radio broadcasting. Here is the text of the interview about the difficult art of reading and the risks of mixing fiction and reality. The text was published in may 1998 by Interlinea in 999 copies. © Radiotelevisione svizzera di lingua italiana e Interlinea |
Nel 1972
Giulio Villa-Santa - redattore della Radio della Svizzera italiana
- cura una serie di interviste dedicate ai piaceri, ai rischi e all'arte
della lettura. Oltre a Montale, partecipano alle discussioni Pietro
Citati, Remo Fasani e Adriana Ramelli. Il testo dell'intervista a
Montale è ora pubblicato dalla casa editrice Interlinea, che ci ha
concesso di riprodurre integralmente il testo. L'edizione cartacea
è tirata in 999 copie numerate, a cura di Claudio Origoni, Maria Grazia
Rabiolo, con note di Fabio Soldini e Uberto Motta.
Da quel mondo ancora prevalentemente di legno, di stoffe e di carta nel quale scriveva, Faguet ci trasmette soltanto tre regole generali del leggere, valide per qualunque sorta di pagina. Primo: leggere molto lentamente. Secondo: leggere molto lentamente. Terzo: leggere molto lentamente. Si può credere che siano l'essenziale ancora oggi, malgrado tutto, o il nostro pensiero si è in qualche modo accelerato dal 1912? Certamente
il pensiero si è accelerato, ma quanto alla lentezza della
lettura il problema si presenta in modo diverso. Intanto c'è il modo
di leggere e il modo di rileggere. Non si può leggere rapidamente
Proust, ma una rilettura eventuale potrebbe essere anche più rapida.
Ci sono libri di cui si sente la necessità di una lentezza di lettura
e ci sono altri libri, per esempio il libro giallo, che richiedono
invece l'accelerazione della lettura. Quindi a suo avviso, non è una regola generale quella del leggere lentamente? Non è affatto una regola generale. Anzi, data la produzione d'oggi, diciamo così che la lettura lenta è quasi scomparsa. In genere, il libro viene sbirciato, annusato. Non è una cattiva pratica perché nel novantanove per cento dei casi, in cinque minuti, così, annusando un libro, si sa già tutto: si capisce se vale o non vale veramente la pena di leggerlo. La lettura veloce però è anche il ritmo che viene imposto da un piacere. È cercando di offrirci questo piacere che oggi l’industria ci persuade a consumare più che a leggere carta stampata. D’altra parte Emile Faguet ci mette in guardia in un certo senso dal piacere di leggere. Ci avverte che una lettura piacevole è raramente una lettura critica: può infatti darci una misura illusoria di un libro, di un autore. Eugenio Montale, pensa anche lei che il leggere piacevole e il leggere critico siano due cose diverse? In molti casi sì, sono due cose diverse; in molti altri, non sempre. Diciamo che il libro che dà piacere non è sempre un libro deteriore; lo è spesso, ma non sempre. Ci sono autori che danno piacere – non so, non voglio citare i recenti che sono ancora vivi e suscettibili... – ma, ad esempio, non si può negare che Anatole France fosse un autore piacevole, e questo non toglie niente alla sua importanza. Poi, invece, ci sono gli autori che desiderano esplicitamente di essere letti con una certa difficoltà. Uno dei maggiori è James Joyce. Pochissimi hanno letto l’Ulisse, pochissimi ne hanno tratto piacere; e, d'altra parte, senza l'Ulisse la fama di Joyce sarebbe di molto inferiore, nonostante i bellissimi racconti da lui scritti in precedenza. Noi abbiamo Antonio Pizzuto, un siciliano di grande talento, già un uomo anziano, che scrive libri estremamente difficili. La sua fama – sia pure solo in ambienti limitati ed estremamente qualificati, di persone molto serie, di critici finissimi – mette Pizzuto addirittura fra i grandi della nostra letteratura. Io poi ho grande simpatia per Pizzuto, che non conosco personalmente; trovo che debba essere un uomo delizioso. Ma, certamente, leggere Pizzuto richiede, diciamo così, una specie di fatica, di preparazione, come quella di chi si appresta ad andare dal prete a confessarsi, una specie di preparazione quasi ascetica. Si dicono: «Ci siamo, non ci siamo; finalmente, sì, leggeremo, così capiremo». Ma, insomma, non tutti i lettori possono compiere questi esercizi spirituali. Accade sempre che il piacere tratto da un libro – e supponiamo pure che sia stato un piacere profondo – ci porti a criticare positivamente quel libro? Non può succedere che la lettura abbandonata a se stessa ci giochi strani tiri e ci renda perfino difficile poi un giudizio obiettivo? Anni fa, lei scrisse la recensione di un romanzo che le aveva fatto passare alcune belle ore, ma che la lasciava perplesso. Quel romanzo era Lolita di Nabokov. Oggi cosa ne pensa? Lolita è un libro difficilmente giudicabile perché è molto interessante, appassionante. Si legge con vivo piacere, ma non si riesce a capire se sia un eccellente prodotto industriale o un’opera d’arte. Io credo che questo problema non sia stato posto o risolto dai critici. Insomma, non posso dire, in coscienza, che Nabokov sia un cattivo scrittore. Alcuni si sono spinti perfino a leggere il suo più recente libro, Ada, che mi pare abbia delle pretese enormi: inizia con l’albero genealogico dei personaggi… Si sente dentro questo libro una grande erudizione, anche letteraria. Così, non si può dire che Nabokov sia un autore da trascurarsi, però… resta sempre quel "però" sul fondo. A volte ci sono degli atleti, come Nino Benvenuti, che vincono, non vincono, perdono, vanno avanti in questo modo per qualche anno, poi, quando incontrano uno che fa veramente sul serio, non c’è niente da fare: sono battuti. Perché si sente che manca il fondo. Lo dice il critico sportivo: «manca il fondo». Non sono sicuro che Nabokov abbia questo fondo, ma non posso negare che sia un uomo estremamente intelligente (per quanto sia – mi dicono, non vorrei calunniarlo – un grande ammiratore della stazione ferroviaria di Milano, e questo depone molto male. Ma forse è una calunnia). Faguet, nel 1912, scriveva che un romanzo va letto lasciandosi possedere dall’anima dei personaggi. Secondo l’autore dell’Art de lire occorre sperimentare in prima persona l’anima di un protagonista, sentirsi per qualche tempo in lui e vivere la nostra vita con i suoi occhi, al modo suo. Questa possessione, questa identificazione totale nel personaggio è forse una maniera ingenua di leggere? A Eugenio Montale è mai accaduto di sentirsi possedere da un certo personaggio, di assumerne l’identità per qualche tempo, nella propria vita di ogni giorno? No, fino a questo punto non mi è mai veramente accaduto. Però di ravvisare il sosia di un personaggio letterario in una persona vivente, qualche rara volta mi è capitato. Ricordo che c’era a Firenze una signora – la vidi rarissime volte – che per me era Anna Karenina. Ma sono fatti rari. Per avere sotto gli occhi una gamma di tipi così, bisognerebbe leggere gli ottanta e più romanzi di Balzac. Sia frequente o no, lecita o illecita, si direbbe che la "possessione" da parte dei personaggi di un romanzo abbia anche dei limiti naturali. Esistono infatti personaggi che possiamo ammirare ma ai quali ci sentiamo estranei, con i quali non ci riesce di identificarci. Potrebbe essere il caso di Zeno Cosini, protagonista della Coscienza di Zeno di Svevo. Un mio conoscente, non privo di intelligenza né di sensibilità, non gradì il romanzo perché trovava Zeno una persona insopportabilmente debole. Qual era esattamente il suo errore? Errori ce ne sono molti in questa affermazione. Il principale è che questo lettore confonde la vita con l’arte. Si vede che detesta gli uomini deboli. Può darsi che li detesti anche per ragioni privatissime, intime, per averne fatto la prova, diciamo così. Però non si vede come un uomo debole non possa essere protagonista di un romanzo. Io penso che i deboli abbiano maggior possibilità di sopravvivere nel mondo dell’arte perché il forte ha sempre più probabilità di essere artificioso, di essere falso, di essere un personaggio, per così dire, illusorio. Il libro con l’uomo forte è sempre un libro un po’ artificioso, anche consapevolmente artificioso. In tutti i romanzi russi, per esempio, c’è sempre l’uomo forte, ma è immancabilmente tedesco. I personaggi, d’altronde, oggi sono in gran maggioranza esseri visibili, che si muovono e parlano nello spazio non interiore degli schermi dei video e dei palcoscenici. Arriviamo così a un altro capitolo: quello del teatro. C'è ancora un vantaggio a leggere del teatro nell’epoca più ricca di rappresentazioni che sia mai esistita? Non si sa se il teatro appartenga alla letteratura. Questo è il fatto. Quasi tutte le storie letterarie lo ignorano. Bisogna fare una storia a parte del teatro, perché nessuno sa dove collocarlo. Se il teatro è tante cose, se è una summa di tutte le arti, se si deve giudicare la pièce come un prodotto eseguito non più a quattro mani ma a sei, a dieci, a venti mani, in cui si inseriscono il regista, il parrucchiere, il costumista, il suggeritore e il pubblico, che alcuni identificano con l’opera stessa sostenendo che è il vero personaggio della commedia. Con tutte queste complicazioni, non so dove si va a finire e qualunque capolavoro può venir fuori a suo modo, diciamo così. Però non mi è mai successo di leggere una brutta commedia e di modificare il mio giudizio dopo averla veduta sulle scene. Mi è successo invece il contrario: di leggere una bella commedia e di trovarla brutta portata sul palcoscenico. Di chi è allora la colpa? Dell’autore? Degli attori? Del regista? Questo mistero resta da decifrare. Io credo che, a un certo punto di manipolazione, l’opera sfugga completamente dalle mani dell’autore e diventi qualcosa che non gli appartiene più. E la poesia? Sappiamo leggere la poesia? Emile Faguet sosteneva che i versi devono essere letti due volte: prima in silenzio, poi a voce alta, per coglierne la musica e il ritmo, da lui visto come il movimento stesso dell’anima dell’autore. Oggi, però, i dischi ci offrono anche la lettura a voce alta del medesimo poeta o quanto meno la sua maniera di leggersi. La dobbiamo vedere come un’interpretazione fra le tante possibili o come qualcosa di più? Il fatto resta piuttosto problematico, perché può darsi che gli stessi difetti possano essere anche pregi. Per esempio, Saba era uno spaventevole dicitore delle sue poesie. Ricordo la prima volta che andai a trovarlo, nel 1925, mi pare. Io ero allora molto giovane. Andai a trovarlo con grande ammirazione. Lui mi accolse con la sua nota cortesia e mi recitò la sua ultima poesia che ora ripeterò con la sua voce, ma non posso fare il gesto, ci vorrebbe anche un gesto con la mano, la mano ondeggiante, leggermente svolazzante. Leggeva: «Il cane, / bianco sul bianco greto, / segue inquieto / un’ombra / la nera / ombra d’una farfalla, / che su lui gialla / volteggia». Ora, io dico, saranno belli, saranno brutti questi versi, non lo so. Se li sentissi recitare da Gassman, da Albertazzi o da altri, io sarei terrificato, perché troverei che sono una copia, una cattiva copia di questo straordinario originale che ho captato in quel momento. Mettete questi versi in bocca di un attore e tutto cade. Ha forse torto l’attore? Non ha torto, disgraziato, non ha torto. Ma non ha torto neanche l’autore, purtroppo. Ma per esempio i suoi versi, il «Meriggiare pallido e assorto» suo e quello di un attore sono la stessa cosa? No. Certamente non sono la stessa cosa. Le differenze si avvertono però solo su composizioni di maggior respiro. Su questa, sono in fondo poche parole. Sessanta anni fa la maggior forza distraente dalla lettura non poteva essere indicata negli audiovisivi ma nella passione di vivere. «La vie n’est pas liseuse», scriveva il nostro vecchio maestro di lettura nel 1912, «puisqu’elle n’est pas contemplative». La lettura non è dunque un rischio per la vita? Si può, insomma, amare la lettura, almeno oltre un certo limite, senza mettersi fuori del proprio tempo? Lei mi chiede se si può essere dei lettori partecipando ancora alla vita? Penso di sì. Non vedo una totale incompatibilità fra il vivere e il pensare. Questa antitesi veramente c’è, ma solo quando venga portata agli eccessi; portata agli eccessi, c’è. Sono esistite persone che hanno eliminato del tutto il pensiero e altre, invece, che hanno eliminato del tutto la vita. Il lettore impunito (non so di chi fosse questa definizione), il lettore accanito, il lettore famelico che legge tutto, non so quale partecipazione possa avere con la vita, quale rapporto possa avere con la vita: diventa un malato. Ci sono questi estremi. Ma ci sono poi gli stadi intermedi. Un Leopardi ha veramente rinunciato alla vita? Io non credo, non credo affatto. Se misuriamo la vita in mesi, in anni, in settimane, o anche in fatti, in viaggi, in esperienze, in donne, in amori, in affari, in azioni… allora si può dire veramente che Leopardi ha vissuto ben poco, insomma. Ma ha poi veramente vissuto ben poco? Questo rimane un punto interrogativo. |